Plutarco: differenze tra le versioni

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*[...] non fermar lo sguardo solamente nelle parti risplendenti e gloriose di coloro che ammiri e stimi felici; ma squarciato ed aperto quel fiorito velo dell'opinione e dell'[[apparenza]] che gli cuopre, penetra dentro, e vedraivi molti travagli e noie. (XI; 1827, p. 337)
*Non meno adunque nuoce alla tranquillità dell'animo la volontà disproporzionata al potere, in guisa delle vele troppo grandi, che fanno traboccare la navetta; perché promettendosi più alte speranze che non deggiono, e non le conseguendo, ne incolpano Iddio e la Fortuna, e non la propria follia. Non è sventurato chi vuol saettare coll'aratolo, o col bue pigliar la lepre, nè s'oppone rea fortuna a chi non inviluppa i cervi con le reti da pescare; ma la propria mattezza e malvagità per aver tentate cose impossibili. Principal cagione di tale errore è il cieco [[amor proprio|amor di sè stesso]], che gli fa divenire in tutte l'occasioni desiderosi de' primi onori, ed ostinati, e voler tutto per sè stessi, senza saziarsi giammai. (XII; 1827, p. 339)
*Ma sì come il pittore i colori più lieti e più chiari mette di sopra nella tavola, e nasconde i meno piacenti e i più scuri, così conviene che nell'anima nostra [[Felicità e infelicità|i gioiosi ed illustri avvenimenti ricuoprino e adombrino i torbidi e dolorosi]]. (XV; 1827, p. 345)
*[...] a ragione fa svanire tutte l'altre tempeste della mente, ma il [[pentimento]] si fabbrica da sè stessa, il quale con onta morde e gastiga sè medesimo: che sì come chi s'agghiaccia, e s'infiamma per lo ribrezzo o caldo interno della febbre sente maggiore ambascia ed affanno che quelli, i quali ricevono di fuori gelo ed arsura delle stagioni, così i casi di fortuna fanno i dolori più {{sic|leggieri}}, comeché vengano di fuori. (XIX; 1827, p. 353)