Raffaella Reggi
commentatrice sportiva, giornalista e tennista italiana
Raffaella Reggi (1965 – vivente), allenatrice di tennis, telecronista sportiva ed ex tennista italiana.
Intervista di Gianfilippo Maiga, spaziotennis.com, 20 giugno 2011.
- Alla decisione un po' drastica di non allenare non è estranea – va detto – una certa mia presa di distanza dall'ambiente tennistico italiano, e non parlo in particolare di quello di alto livello. Mi riferisco al suo provincialismo, purtroppo così diffuso fra gli addetti ai lavori, stampa inclusa, ma anche fra le famiglie, e alla mentalità sbagliata che viene inculcata ai ragazzi e di cui sfortunatamente questi si imbevono con una certa facilità.
- Credo davvero di poter dire che avevo il tennis nel sangue. Era il mio pensiero fisso, il centro della mia attenzione già da bambina. Per questa ragione i miei [...] mi hanno permesso di andare fuori di casa a soli 11 anni [...]. Per me lasciare la famiglia non è stato mai un problema (e, forse, questa è una delle difficoltà maggiori da vincere quando si vuole tentare la strada del tennis). Infatti, a quattordici anni, approfittando di una borsa di studio privata, sono partita per l'America [...] per approdare all'Accademia di Bollettieri, dove sono giunta non avendo una chiara idea di cosa mi attendeva e, soprattutto, non cullando ambizioni particolari altre che quelle di giocare a tennis. Come spesso avviene il mio destino è stato segnato da una certa casualità [...]. Bodo, rappresentante di Kim top line e Prince Racchette, aveva sotto contratto tra i maschi Rinaldini, di Faenza come me. Voleva affiancare ad un ragazzo anche una tennista e Rinaldini gli indicò il mio nome. Al momento di firmare il contratto mi accennò anche all'opportunità di andare in America con una borsa di studio offerta dalle aziende da lui rappresentate: non me lo sono fatto dire due volte.
- Premetto che il mio "caratterino", che ho sempre avuto, sin da quando ero bambina, si fermava al campo di gioco. I miei rapporti con le colleghe erano ottimi [...]. Certo, anch'io avevo le mie simpatie. Allora esistevano due correnti: chi si sentiva affine a Chris Evert e chi invece simpatizzava per Martina Navratilova, due modi di essere completamente differenti, spigolosa e tutto sommato scostante dentro e fuori dal campo la prima quanto era invece disponibile e "fair" la seconda. Inutile dire che io ero al 100% per Martina e non nascondo che battere la Evert mi dava una particolare soddisfazione. La mia cattiveria agonistica è stata certamente un aiuto, non un freno, perché sono riuscita a canalizzarla positivamente. Sono tante le occasioni in cui mi è servita; chi mi incontrava sapeva che, anche se avesse vinto, avrebbe dovuto sudarsi il successo.
- Lavorare con le ragazze sotto un certo profilo non è facile: estremamente rigorose e professionali intorno e nel campo, fuori si rivelano spesso problematiche e competitive in modo non sempre "sano".
- Il mio punto di vista è che un giovane debba fare un'esperienza di allenamento e, in definitiva, di vita, all'estero a un certo punto del suo percorso di crescita personale e tennistica. Ritengo questo passo importante non tanto, o quanto meno non esclusivamente, da un punto di vista dell'apprendimento della tecnica tennistica o del gioco, quanto come il mezzo per acquisire la giusta mentalità, per fare un salto di qualità sotto il profilo dell'approccio al tennis, soprattutto se gli si vuol dare una dimensione professionale. "Emigrare" [...] significa concentrare molte esperienze in una: l'incontro con culture affatto diverse, l'assimilare e sperimentare sulla propria pelle il significato di una disciplina, conoscere l'adattamento a un modo di vivere a cui non sei abituato – incluso l'allontanamento dai propri affetti – e reagire positivamente.
- Bollettieri è stato una figura straordinaria per quello che è stato capace di fare: da semplice raccattapalle senza alcuna competenza tennistica ad imprenditore almeno all'inizio di grande successo [...], ma è stato anche un grande conoscitore di persone e un essere umanamente ricco, a cominciare dal fatto che dice quello che pensa. Non può essere un caso se, almeno per un certo periodo, molti grandi giocatori sono passati o venuti fuori da lì: tra gli altri Seles, Agassi, Sampras, Courier, Arias, che forse molti hanno dimenticato ma era la "great american hope".
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