Nicomede Bianchi

politico italiano (1818-1886)

Nicomede Bianchi (1818 – 1886), politico, patriota e storico italiano.

Nicomede Bianchi

Storia della monarchia piemontese

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Volume I

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  • Grande discordanza di carattere passava tra Carlo Emanuele III e il figlio suo primogenito [Vittorio Amedeo]. Il padre era ritenuto nello spendere, e prediligeva di governarsi con risparmio. Il figlio era corrivo fino a contrarre debiti di soppiatto. Il re procedeva circospetto nel conferire impieghi, e voleva esserne il solo arbitro dispensatore. L'erede della corona largheggiava nel promettere uffizi di toga e di spada ai suoi devoti, e accaloravasi nelle commendatizie. Reggendo la famiglia con grande austerità, il vecchio e malaticcio re era col duca di Savoia severo e contegnoso, e sospettosamente lo teneva lontano dalle faccende di Stato. (vol. I, cap. I, p. 4)
  • Nei quarant'anni del suo predominio sugli affari interni ed esterni del regno [di Sardegna], Giambattista Bogino, uomo di rigido piglio, di massime determinate, e di opere irretrattabili, s'era abituato a quell'arida gravità di contegno e di tratto, che non si guadagna l'affetto anche quando conciliasi la stima. (vol. I, cap. I, p. 6)
  • [Vittorio Amedeo III di Savoia] Re di timorata coscienza, com'ebbe in cospetto i vescovi venuti a fargli omaggio, disse loro, che gli uomini religiosi lo avevano sempre servito a dovere, e che quelli che gli davano maggior fastidio erano coloro che non temevano Dio. Manifestò la sua clemenza accordando una larga amnistia ai condannati per delitti che non importavano le maggiori pene. Si mostrò principe liberale svincolando i vassalli dall'obbligo di prestargli il giuramento, che avrebbe costato loro circa due milioni; condonando alla Sardegna il tributo di cento mila scudi, che essa doveva pagare ad ogni successione di corona; largheggiando in pensioni vitalizie; donando una croce di brillanti del valore di mille doppie d'oro all'arcivescovo di Torino per l'orazione funebre di Carlo Emanuele III. Questo re aveva ricevuto l'eredità de' suoi avi gloriosa e florida, e la lasciava del pari fiorente ed ampliata al figlio. Armi, fortezze, erario, in condizioni ottime; riputazione somma; devozione dei popoli inalterata.
    Regnante Vittorio Amedeo III, tutto muterà in peggio. Dalla monarchia andranno divelte due provincie; le armi cadranno prostrate ne' campi di guerra; sulle fortezze sventolerà signora la bandiera straniera; l'erario rimarrà esausto; andrà perduta l'antica riputazione di senno politico; verrà meno l'antica devozione dei popoli, dissanguati dalle pubbliche imposte, oppressi dai mali di una sconsigliata guerra, alienatisi da un re e da un Governo testerecci nel non voler riconoscere la necessità d'innovazioni. (vol. I, cap. I, p. 7)
  • Carlo Passeroni fu un poeta mediocre. Ma egli possedeva nobile rettitudine, e squisita dignità d'animo; aveva cioè le doti che mancavano generalmente agli scrittori dell'età sua, e che erano le meglio adatte per il rinnovamento letterario italiano. Nessuno poté vantarsi d'aver avuto da lui a prezzo d'oro e di favori il lenocinio di una rima, l'adulazione di un verso. Nessuno poté dire d'aver preso a giuoco il prete Passeroni, mentre gli abati ed i poetucci erano l'ordinario trastullo delle mense patrizie. Bensì egli, facile allo scherzo, al frizzo, all'allegria, satireggiò di santa ragione, canzonò spietatamente i vizi ed i viziosi dell'età sua, gli amorucci arcadici, e le donne civettuole. Il virtuoso prete di Lantosca[1] al degradato carattere italiano contrapponeva un fiero e dignitoso contegno. (vol. I, cap. VIII, pp. 438-439)
  • In Milano, egli viveva solingo in una povera cameretta. Una vecchierella gli recava acqua, e gli faceva il letto: per tutto il resto, ei provvedeva da sé. Ridotto per qualche tempo al solo profitto delle sue messe, il suo vitto era pane bollito e poche frutta. Limpida acqua gli spegneva la sete. In sul finire della vita, il suo vestire era divenuto quasi cencioso. Eppure nessuno sentì mai l'abate Passeroni dolersi della sua povertà, né egli pensò mai a levarsela di dosso, come avrebbe potuto con tutta facilità, imbrancandosi allo stuolo di quegli abati leziosi, che erano delizia e vanto delle doviziose famiglie patrizie. (vol. I, cap. VIII, p. 439)
  • Sino alla morte, il Passeroni si mantenne letterato di virtù pura e intemerata, non vinta dalle dure prove della povertà: ammonitore severo, ma sempre cortese, delle corruttele dell'età sua, che desiderò migliorata, non lasciando di fare quanto da lui dipendeva perché riuscisse tale. Il volgo in parrucca dei letterati suoi contemporanei lo guardò con sorriso compassionevole: ma gli fu di ristoro il caldo affetto che gli portò Giuseppe Parini, il quale lo volle giudice de' suoi versi, e lo salutò suo maestro. La sua memoria non deve essere lasciata in oblio negli annali dell'Italia redenta. (vol. I, cap. VIII, pp. 439-440)

Volume II

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  • Il buon Vittorio Amedeo III, principe di specchiata illibatezza di costumi, e più facile al perdono che alla severità nelle cose di governo, veniva pennelleggiato dai Deputati savoiardi, andati a Parigi a sollecitare l'atto dell'annessione, qual libertino senza pudore, sbrigliato scialacquatore del pubblico danaro, avido di sangue peggio che una tigre. Volesse la Convenzione, essi chiedevano e supplicavano, salvare la Savoia dal ricadere sotto le regie zanne, ammettendola a far parte per sempre della grande famiglia francese. (vol. II, cap. I, p. 23)
  • Il supremo comando delle truppe che dovevano campeggiare nella contèa di Nizza fu dato addì 22 ottobre al marchese Carlo Francesco Thaon, conte di Revello e di sant'Andrea. Egli era settuagenario, ma aveva sufficiente gagliardia di mente e di corpo, possedeva buona scienza militare, e delle cose di guerra si era reso esperto militando sotto le bandiere di Carlo Emanuele III. Nelle istruzioni dategli, il Re si rimetteva alla sua esperienza e saviezza in quanto alla parte strategica. Soltanto lo consigliava a mettere in prima linea insieme coi piemontesi gli ausiliari austriaci, affinché i francesi, incontrandoli nei combattimenti, si convincessero che avevano di fronte un nemico poderosissimo per numero e per disciplina. (vol. II, cap. I, p. 40)
  • Il barone di Thugut fu l'uomo di Stato che maggiormente cooperò col suo sistema politico ai trionfi della Francia nelle guerre della Rivoluzione. Figlio di un battelliere del Danubio, dopo essersi mostrato sin da fanciullo di una rara perspicacia di mente, fu raccomandato ai governanti viennesi dai Gesuiti, e ben presto pervenne ai maggiori gradi della diplomazia imperiale. Calcolatore impassibile nei maggiori pericoli, tenace di propositi, inaccessibile ad ogni debolezza d'animo, fornito di singolare semplicità di modi, valentissimo negli intrighi e negli inganni, Thugut giunse a dirigere la politica esteriore dell'Austria; egli non conobbe mai i doveri di coscienza; il successo per lui legittimava tutto. La politica era da lui considerata come un amalgamento d'intrighi, di godimenti venali, di forza brutale, e l'egoismo, a parer suo, era l'unico motore delle azioni umane e dei Governi. (vol. II, cap. II, p. 98)

Volume III

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  • Arrivato in un paese al suono delle campane a festa, Brandalucioni faceva piantare una croce invece dell'albero della Libertà buttato a terra; poi egli pregava quivi in ginocchioni, indi andava alla parrocchia a confessarsi ed a comunicarsi. Volgare impostore, e null'altro, ripeteva la stessa cerimonia e le stesse pratiche religiose in quanti villaggi visitava ogni giorno. Né tralasciava di spacciare che gli compariva Gesù Cristo a promettergli che di vittoria in vittoria avrebbe progredito sino a liberare la Francia dal giogo dei repubblicani. I contadini gli credevano, e facevano schiamazzi e giuramenti parte ridicoli, parte terribili, ma seguiti da fatti atroci. Bastava aver lite o interesse contrario con alcuno dei caporioni della Massa cristiana, per essere bastonato, imprigionato, o anche fucilato sotto le apparenze di giacobino. Giacobini in ogni terra erano sempre i più ricchi, che Brandalucioni taglieggiava spietatamente, e poi lasciava mettere a ruba dai suoi. Alcuni di quei facinorosi prendevano a pretesto vere o supposte opinioni repubblicane per trascinare alle ingiurie estreme donne onorevolissime. Altri, incontrando magistrati che sotto il Governo regio li avevano condannati per delitti commessi, li svillaneggiavano con ogni obbrobrio. (vol. III, cap. V, pp. 226-227)
  • Brandalucioni, che meritava pei suoi portamenti di essere fucilato, fu sostenuto in carcere a Milano per tre mesi, e le sue bande vennero sciolte quando gli Austro-Russi furono padroni del Piemonte. Nei tempi che seguirono (narra Carlo Botta), e quando i repubblicani ritornarono in Piemonte, prevalse fra loro l'uso che chi parteggiava o fosse creduto parteggiar pel Governo regio, Branda si chiamasse[2]. (vol. III, cap. V, pp. 227-228)
  • Suwarow entrò in Torino verso le tre pomeridiane. [...] Il trionfatore Russo andò difilato alla Chiesa di San Giovanni per ringraziare Iddio. Scismatico egli era, ma ciò non importava. Giunto all'altare maggiore, si prostrò baciando il pavimento; poi, ascesi i gradini, baciò e ribaciò la mensa e si pose ginocchioni a pregare silenzioso. Rialzatosi, si rivolse all'arcivescovo Buronzo, pregandolo di benedire due cordoni dell'Ordine imperiale di Maria-Teresa, che consegnò ai generali Melas e Chasteler.
    Frattanto, per severissimi ordini da lui dati, le bande contadinesche uscirono dalla città. La sera si accesero i lumi alle case in segno di esultanza. (vol. III, cap. V, p. 239)
  • Alle feste per le vittorie francesi successero le feste per le vittorie russe e austriache. Pervenuta in Torino la notizia della resa della cittadella di Milano e dell'occupazione di Ferrara, il Consiglio Supremo e il Decurionato vollero celebrarle con pubbliche dimostrazioni. Correva il ventotto di maggio [1799]. Nel mattino, Suwarow andò alla chiesa cattedrale di San Giovanni in una sontuosa carrozza tirata da quattro cavalli. Vestiva l'uniforme di parata, sul quale splendevano tutte le sue decorazioni. Lo seguivano a cavallo i Generali dell'esercito alleato, che erano in Torino. Facevano parte del corteo i membri del Consiglio Supremo e il Decurionato. Il popolo, accalcato per le vie e sulla piazza della Metropolitana, faceva risuonare l'aria di applausi. Il Maresciallo russo, che era uomo religiosissimo, ma strano in ogni cosa, benedetto dall'Arcivescovo coll'aspersorio all'ingresso della chiesa, fece pochi passi con portamento umilissimo, indi si buttò ginocchioni, e si pose a pregare. I suoni ed i canti nell'interno del tempio cominciarono soltanto quando egli, dopo ripetuti segni di croce, e tendendo le braccia al cielo, si alzò e andò al posto d'onore assegnatogli.
    Al pranzo di gala, che fu dato con grande concorso di Generali e di personaggi autorevoli, il Maresciallo si mostrò parlatore lieto e affabile. Al Teatro Regio gli era stata preparata festosa accoglienza. Al suo entrare nella loggia reale fra applausi, si alzò il sipario, e dal palco apparve raggiante il tempio della Gloria, nel mezzo del quale stava il busto di Suwarow, attorniato dagli emblemi delle sue vittorie. Secondo ha lasciato scritto un testimonio oculare, il Maresciallo, commosso di gioia, si pose a piangere, e per alcuni istanti non cessò di fare profondi inchini rivolto ai palchi e alla platea. Uscito dal teatro, percorse in carrozza scoperta, ovunque applaudito, le principali vie della città, trovando da per tutto il suo nome splendente in mezzo a fuochi di vario colore. (vol. III, cap. V, pp. 241-243)

Volume IV

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  • [...] il generale Menou nel Novantotto prese parte alla spedizione d'Egitto. Coraggioso sino all'imprudenza, egli per il primo sbarcò a Marabout, e a capo de' suoi granatieri piantò la bandiera francese sulle mura di Alessandria. Posto al governo militare della provincia di Rossetta, si fece musulmano e sposò una ricca turca, chiamata Zabeidah, dalla quale poi il dì otto dicembre del Novantanove ebbe un figlio, che fu nominato nell'atto di nascita Solimano-Murad Giacomo Menou. (vol. IV, cap. I, pp. 5-6)
  • Morto Kléber, Menou assunse di mala voglia il comando dello indisciplinato esercito francese in Egitto. Amministratore operoso, imparziale e probo, i musulmani lo presero in grande stima. Se i soldati francesi motteggiavano Abdallah Menou, che si lasciava vedere ginocchioni a pregare colla faccia volta al sole, in lui onoravano il prode e intemerato generale, che aveva restaurata la disciplina nell'esercito. (vol. IV, cap. I, p. 6)
  • Quando Menou assunse il governo del Piemonte, pressoché ogni cosa pubblica era disordinata, e a lui toccava di porre le basi di un'amministrazione ordinata. Per far ciò non solo abbisognava sgombrare il terreno dai ruderi dell'antico edifizio monarchico, ma conveniva abbattere alcune parti del nuovo edifizio repubblicano. Se nell'ardua impresa egli non riuscì appieno, pure si mostrò amministratore intelligente ed operoso, mantenendosi benevolo ed equo verso coloro che avevano servito onestamente la Monarchia. Che se, mancandogli la conoscenza necessaria degli uomini per far sempre buone scelte di funzionari governativi, ne collocò alquanti fuor di posto, non ne prescelse però dei notoriamente disonesti. (vol. IV, cap. I, p. 7)
  • [Giuseppe Maria Bonzanigo] Egli era già un artista provetto, quando cominciò il grido delle opere del Canova, e credibilmente non ebbe mai occasione di vedere una sola delle opere del grande ristauratore della scultura italiana; onde si può ritenere che, dietro gl'influssi prevalenti nelle menti, in lui fu spontanea l'idea di servirsi per l'arte sua modesta degli stessi mezzi che giovarono al Canova, cioè lo studio dell'arte antica, e la osservazione delle medaglie e delle gemme intagliate dai Greci e dai Romani. Da quei portenti degli antichi maestri, il Bonzanigo non solo apprese stupendamente il disegno e la squisitezza dell'esecuzione, ma riuscì a riprodurli molto bene nel legno e nell'avorio. Onde egli è rimasto illustre fondatore in Torino di una scuola, la quale lavorava cose stupende di buona scultura in legno ed in avorio, mentre altrove gli intagliatori facevano lavori più goffi ed insensati a forza di riporti, di gesso, di carta pesta e pastiglie. (vol. IV, cap. V, pp. 267-268)
  • Dal laboratorio del Bonzanigo uscirono lavori di straordinaria abilità meccanica, non disgiunta, come abbiamo già notato, da pensieri sommamente artistici, che egli sapeva trarre dalle opere insigni dell'antichità. Il Bonzanigo fece non pochi allievi, e sei fra questi riuscirono abilissimi in modo che gl'intelligenti assicurano, senza una grande pratica essere assai difficile distinguere i loro lavori da quelli del maestro. (vol. IV, cap. V, p. 268)
  • Allorquando nel Settecentonovantanove Carlo Felice assunse il Governo vicereale, a lui mancava ogni esperienza di cose amministrative, ed aveva la mente sfornita di quelle cognizioni, che avvalorano l'intelletto nel maneggio dei migliori negozi di Stato.
    Quella che stava maturata in lui, e profondamente radicata, era la persuasione che sola la Monarchia del diritto divino era capace di mantenere tranquilli e prosperi gli Stati, e che la libertà e l'uguaglianza proclamate dalla rivoluzione dell'Ottantanove non avrebbero mancato di condurre prontamente la Francia allo sfacelo del consorzio civile. Conseguentemente, nello scegliere coloro che dovevano essere suoi cooperatori di governo, pose la massima cura nell'attorniarsi di propugnatori della podestà regia assoluta. (vol. IV, cap. IX, p. 484)
  • Il Villamarina, investito del comando militare dell'isola [di Sardegna], padroneggiò quasi in tutto ciò che si riferiva all'ordine pubblico. Egli si mostrò indefesso nell'esercizio del potere che teneva, e perseguitò quanti erano in voce di avere preso parte alle ultime commozioni politiche, e quanti erano in qualche modo sospetti di giacobinismo. D'altra parte, egli era divenuto il terrore dei monopolisti e dei frodatori dell'annona. Che se meritava lode ogniqualvolta rompeva guerra senza tregua ai ribaldi, ai ladri, e ai perturbatori violenti della quiete pubblica e privata, incorse nel meritato biasimo dei suoi contemporanei e della storia col trascorrere a crudeli castighi contro uomini di buona volontà, desiderosi soltanto di riforme civili, divenute una necessità suprema per l'isola, e massime col prepotentare a segno di prescrivere l'uso del bastone, del nervo, e anche della corda a punizione di plebei, colpevoli di contravvenzioni annonarie e di parlari incomposti. (vol. IV, cap. IX, p. 485)
  1. Lantosque (in italiano e in occitano Lantosca), comune francese del dipartimento delle Alpi Marittime, regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra.
  2. Vedi Botta, Storia d'Italia, Libro XVII, ecc. [N.d.A.]

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