Letteratura migrante
letteratura scritta da immigrati
Citazioni sulla letteratura migrante.
- È un fenomeno positivo. Aiuta moltissimo colui che scrive perché vuole esprimersi e raccontarsi. Si crea uno scambio di idee che ci fa scoprire soprattutto chi siamo noi. Lo straniero, attraverso questi scritti, viene finalmente visto come una persona con sentimenti, con una mente che pensa. Questa massa, dai contorni nebulosi che viene definita costantemente immigrati assume una personalità e un volto. Non dimentichiamoci che scrivere in lingua italiana è anche un tributo all'Italia. E l'immagine dell'Italia soprattutto a venirne fuori positivamente. Perché scrivere in una lingua diversa non è facile. Scrivere è anche pensare, amare, sognare ci sono delle emozioni che vengono coinvolte. La lingua vive con noi, fa parte di noi. Ovviamente ci sono dei vocaboli delle frasi o delle parole che fanno parte della nostra lingua materna che non potranno mai essere tradotte. E con questo non dobbiamo scordarci della nostra lingua di origine. Fare in modo che i nostri figli e nipoti non perdano questo patrimonio. (Shirin Ramzanali Fazel)
- Farsi chiamare poeta migrante è un grande onore, è un privilegio, perché significa non metterti sullo stesso piano di Baricco, per esempio. È un grande onore perché tutti i mistici grandi poeti sono stati dei migranti. Erano tali perché si liberavano della nazionalità, e raggiungevano altre dimensioni, valori universali, altrimenti sarebbero rimasti provinciali. In Albania uno si definisce poeta perché ha pubblicato un libricino e qualche poesia, ma essere scrittore e poeta significa conoscere il mondo, oltrepassare le dimensioni e i limiti del paese da cui si proviene. La poesia migrante è qualcosa che si muove, che si trasforma, è albanese ma anche universale, appartiene al mondo non solo all'Albania, non può che essere molto ricca. Ma è un titolo che va acquisito, non tutti lo possono diventare, perché vuol dire creare valori, poesie che parlano a popoli diversi, insegna l'arte del dialogo ai popoli, insegna a tutti a essere stranieri e migranti in questo mondo per capirsi
- Ho la ferma impressione che la letteratura dell'immigrazione in Italia o i Migrant Writers, come si chiamano da un po' di tempo a questa parte, non parla d'altro che dell'eloquente silenzio dell'immigrato, scrittore esso sia o meno. (Gëzim Hajdari)
C'è in questo silenzio la gravità, senza ostentazione, un fascino sovrano, una grazia raffinata: un modo discreto di parlare delle cose della vita, dell'amore, del "saudade", della "ghurba", della femminilità e dell'infanzia, della morte, della difficoltà e della gioia, e soprattutto del potere di utilizzare le parole – italiane – per esprimere tutto questo con una sorta di indulgenza che fa sì che ci sorprendiamo ad amare tutto, ci cogliamo a perdonare tutto allorché, noi stessi, viviamo situazioni contingenti, malferme, in equilibrio ora su un piede ora sull'altro, mai su entrambi, in perenne stato di sospensione.
Un silenzio privo di polemica, che mai rivendica la lotta fine a se stessa, espresso in modo del tutto personale, in una lingua spesso sussurrata, mai gridata. L'animo umano è il protagonista assoluto, che registra le scosse inflitte all'individuo, ed è attraverso l'animo umano che vengono analizzate le sfortune, a volte, ma raramente, anche le fortune, del popolo immigrato, spesso abbandonato a se stesso.
A tastoni, i personaggi cercano un senso ormai celato, ossessionati dall'idea di andare a vedere sotto la pelle, ciò che ben dissimulano le differenze del colore. I sogni che popolano i racconti, e che tormentano i narratori, sono quelli di una forma di riconciliazione, appartenenti ad uno stato primordiale. [...]
Attraverso la lingua italiana, dove si coltiva l'illusione, a torto o a ragione, che in essa convivono l'Europa della ragione e il mediterraneo della passione e del cuore – poiché si sa che ogni progetto letterario in una lingua neutra è sempre e prima di tutto un progetto emotivo – passa l'idea che la scrittura potrà forse un giorno, malgrado tutto, riunire ciò che la storia ha separato. (Tahar Lamri) - Lo scrittore immigrato non è un autoesebizionista compiaciuto che non sa parlare d'altro che di sé. Ma intende per "autonarrazione" il riflesso di un'espressione interiore sempre aperta al dialogo e cioè il confronto sull'umana esperienza, una continua ricerca della verità, lungi dai "vasti palazzi della memoria" e rivolta al sempre mutevole presente, incalzante e imperativa, dunque l'esperienza di tutti gli uomini.
Egli quindi costruisce un doppio immaginario del mondo reale, e così ci accorgiamo che la scrittura altro non è che un immenso cantiere, mai compiuto, le città italiane non assomigliano alle città italiane e gli italiani non assomigliano agli italiani e neanche gli stranieri assomigliano agli stranieri. (Tahar Lamri) - Non so se potrei definirmi migrante. Mi chiedo sempre "migrante rispetto a cosa? Verso che cosa?" Per me la letteratura è letteratura in tutti gli aspetti. Non mi piace il concetto di "scrittrice migrante", perché mi sembra la solita tendenza degli italiani a mettere etichette e categorie su tutto, al di là dalle quali sembra che uno non possa esistere. Non amo farmi etichettare o farmi raggruppare in categorie. Costruendo le categorie è come se creassero dei ghetti, e ti dicessero: "ecco la letteratura migrante, questo è il vostro ghetto, vedetela tra di voi". Ma non ha senso perché io vivo e scrivo in italiano, non ho nulla in comune con un altro scrittore, ad esempio che viene dal Camerun o dall'America latina. Io faccio letteratura e basta. (Anilda Ibrahimi)
- [Sulla scrittura poetica transnazionale] Questa scrittura è caratterizzata da un disassamento tematico, strutturale e musicale. Dietro una lingua apparentemente "piana", senza evidenti forzature, si articola una poesia profondamente "compromessa" nelle certezze ritmiche e musicali, disancorata da un'identità certificabile. E più si mette mano criticamente, si affonda nella superficie dei versi, e più si annaspa in un ologramma poetico, l'immagine illusoria di ciò che credevamo di riconoscere. (Mia Lecomte)
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