Enrico Pea
Enrico Pea (1881 – 1958), poeta, scrittore e impresario teatrale italiano.
Citazioni di Enrico Pea
modifica- Ieri, il medico, martellò il mio magro costato. E posto l'orecchio nudo dietro le scapole (ahimè! vedove dell'ali d'un tempo: noi miseri angeli decaduti) potè ascoltare nell'"armonium" ancora chiaro il sospiro della vitalità. (da ...il mare è il mio elemento. Carteggio con Lisetta Zucchetti 1943-1957, Libri Scheiwiller, Milano, 1996. ISBN 88-7644-229-4)
- Una malattia ne vale un'altra: i nomi fanno più paura della malattia. E le cure qualche volta sono peggio dei mali. (da Rosalia, Il Giornale d'Italia, Roma 1943)
Moscardino
modificaAppena rimasta vedova, la signora Pellegrina si vestì con abiti di seta nera, orlò di nero le camicie da notte, abbassò le cortine delle finestre, accese una lucerna sul canterale.
La signora Pellegrina era di grande casato, ed aveva ereditato anche il patrimonio di due sorelle monache morte presto.
Ma quel marito suo, inadatto a governare il timone della casa, aveva ridotto a poco i beni suoi e quelli della moglie.
Il marito della signora Pellegrina era medico onorario della confraternita della Misericordia, e camarlingo della chiesa di San Lorenzo e per questo ebbe un bel funerale.
La signora Pellegrina non parve nemmeno addolorata della morte del marito, anzi disse:
«Beato te, beato te.»
Poi chiamò i suoi tre figli, e chiamò anche Cleofe, la serva montanara, perché testimoniasse:
«Ora siete uomini tutti e tre.
«I vostri genitori non ci sono più.
«Dividetevi quello che c'è rimasto.
«I vestiti che ho in dosso sono pagati.
«Non mi rimproverate se vesto di seta.»
E poi dimenticò di parlare, come se fosse diventata mutola.
Citazioni
modifica- E il capo peso del Taciturno, attirato dall'abisso, si accercinava laggiù in fondo fra le ombre dei baffardelli, che pigliavano quella testa per i capegli irsuti e la battevano contro il viso riflesso di quella donna, sì che le due immagini si confondevano, si accavallavano, cozzandosi come per fondersi assieme. (p. 23)
- Si alzò prima del tempo. Era settembre avanzato, mese nostalgico a Cleofe, ché ai monti cominciavan le faccende: preparare i ciocchi per il metato, che ha da fumar presto quest'anno che non è piovuto in estate.
Le castagne cominciano a granire dentro il cardo, il cimalo della nuova buttata non lo ha oltrepassato, il cardo è ingrossato e il polpo se l'è preso tutto la castagna: il metato fumerà presto quest'anno...
Si affacciò alla finestra: c'era la pergola con l'uva matura penzoloni ai tralicci. La pergola spampinata coi tiranti di fil di ferro, coi trassi e i correnti ancora ramati. E i tralci morti cedevano al peso delle rappe, e in alto i polloni senza legatura con gli occhi chiusi... (pp. 26 sg.) - Mio nonno la trasse dal parapetto a sé, le pose le palme sulle spalle, le strisciò le mani, tezze lungo le braccia, sui fianchi, sulle gambe, fino ai piedi: e poi cominciò a lamentarsi: «Cleofe, sei troppo bella, sei la cagione della mia follia! La mia disperazione per tutta la vita! Cleofe, non avrò pace, non avrò pace finché tu viva, finché io viva!... Cleofe, è bene morire! È bene morire!» Cleofe ripeté come eco l'ultima parola: «Morire!» e si voltò di là a cercare con gli occhi la creatura nella culla che, svegliata dagli urli, sgambettava e piangeva: «Morire!» E mio nonno ha in mano un coltello: «Cleofe, non ti posso uccidere!» E cade lui, con il ventre squarciato. (pp. 27 sg.)
- Adesso è notte: la bambina sfrigna e Cleofe la tentenna sulla scranna.
Basculla e batte a coppiola i gambi la sedia impagliata, sul solaio di mattoni che rimbomba bolzo.
Cleofe pare l'Addolorata col bambino Gesù.
Rassegnata. Sbiancata nel viso. Non piange: sballotta la bimba che sfrigna. (p. 34) - Che cosa è dunque la vita, se non è raddolcita da questo volersi bene?
Sentire qualcuno che ti vuol bene come tua madre, dopo che la madre è scesa sotterra.
Sentirsi presi dalla voglia di stringerti alla persona amata, fino a non aver più respiro. Far tutt'uno con il corpo di lei. Sorbire dalla sua bocca qualcosa di eterno che non si esprime con le parole.
Ecco: si può essere contenti nel mondo, purché il demonio non si armi contro di te.
E si faceva il segno della croce, perché non apparisse il demonio a cancellargli la ragione. - Sabina e il medico di pelo rosso erano le creature vive in quella carrettata di funerali.
Il loro pensiero era chiaro. Celato solo dalla convenienza del momento. Lei in ardore per l'esuberanza di una vitalità sana, lui, uomo di scarsa scienza, senza scrupoli.
La loro bramosia carnale era di una certezza visibile a tutti. Gli altri giravano con la loro tortuosa immaginazione, intorno alla stessa questione della carne in amore, e turbati si rannicchiavano in loro stessi.
Cleofe aveva gli occhi sui poggi brinati, sugli ulivi assolati, che fuggivano sotto i suoi occhi: e lei fuggiva da loro.
E si lasciava trasportare come in sogno, senza pensare, come se l'anima sua trasmigrasse, come se la vita fosse per finire, dolcemente, in beatitudine: e la bambina che ancora non aveva ne ragione né anima, cullata, si addormentava. (p. 46) - Quando le anomalie del racconto erano comuni a qualche persona di conoscenza, mio nonno diceva: «Una goccia di più sarebbe assai a fare traboccare il vaso, e anche quello diventerebbe molesto e pericoloso.
«E i parenti e i passanti un bel giorno lo porterebbero in una carrozza chiusa su per il monte di Quiesa, e giù nella valle del Serchio, e poi su per quella collinetta, a rinchiuderlo in quel santuario, ove certo godrebbe di più.
«Nessuno è tutto savio.
«Nessuno è tutto matto: è questione di equilibrio.
«La misura è data dall'interesse che hanno alcuni mezzi savi e mezzi matti, i quali giudicano dei loro simili, mezzi savi e mezzi matti come loro. [...]» (pp. 74 sg.)
Il servitore del diavolo
modificaConobbi Giuda quando ero servitore del Diavolo, e l'amicizia che mi legò a questo personaggio venne dalla confidenza che si acquista con gli amici prediletti del nostro padrone, quando si è ignoranti e poveri, e l'amico del padrone vi degna e v'insegna, come faceva Giuda con me.
Io restavo in soggezione davanti a Giuda, e non osavo domandargli perché si faceva chiamare così. Il mio padrone rideva del suo soprannome:
«Ti fa paura?»
«No.»
«Sono diavolo per burla.»
Ma Giuda non avrebbe mai detto: «Sono Giuda per burla»: sentivo che teneva al suo nome, e non rideva mai quando entrava in casa e lo salutavano come se fosse lui il padrone: «Signor Giuda.» Del resto Giuda era più che di casa, nella casa del Diavolo dove io servivo con uno stipendio irrisorio.
Citazioni
modifica- «Ho voluto,» mi disse, «che tu mi vedessi con la barba che portavo quando tradii Gesù: ricòrdatelo: avevo l'ambizione del trono d'Israele. Adesso sono per le meccaniche e per la scienza: sono moderno come il tuo padrone.»
È una stregoneria questa scienza, pensai tra me e me, che quasi ha del miracoloso. Dunque è in gara con Dio ?
«Iddio è la scienza: noi siamo Dio!»
Giuda aveva letto nel mio pensiero. Anche questo è un miracolo, dissi. «Ora dormi,» soggiunse Giuda. «Domani mangeremo l'arrosto di quaglie.»
Il padrone era tornato dalla Russia con buone notizie. (p. 86) - Superbo di che ? Superbo di vivere eroicamente la sua vita che è nulla ? Questo mancino è tanto nulla che nemmeno può con la destra toccarsi la fronte. Eppure è genio della ragione, e discopre a me ignorante le belle cose che mi parevan mistero. (p. 92)
- Era per me un'offesa più grave dell'altra di bastardo, o di figlio di cattiva donna, che gli operai ed i servi si dicono tra loro per intercalare, come fanno con le bestemmie, per abitudine e non con intenzione di offendere veramente Iddio. Così non lo fanno per negare il padre al compagno, né per rinfacciare il disonore della madre, che invece notoriamente è santa donna di casa, martire di privazione, esempio di virtù. Ma contadino era veramente offesa diretta a me, con esatta intenzione. (p. 98)
- E per non passare da contadino cominciai a ridere delle cose di Dio, con Giuda e con gli altri, e a tirar giù grosso intorno alle cose della vita sociale. Senza finzioni. Senza restrizioni. Senza caste. Senza pregiudizi. (p. 99)
- Il cielo ti pare tanto vicino, senza i monti che ti ricordano l'enormità dello spazio. Erano i monti la causa dello spavento quando, da ragazzo, al mio paese, udivo i tuoni d'inverno? (p. 108)
- La Baracca Rossa era un palo intorno a cui giravano, anche senza averne coscienza, le forze bestiali di una umanità ghiotta di beni afferrabili, o controllabili con gli strumenti. Per questa gente, l'inventore, l'applicatore o lo scopritore di qualche futile segreto della natura, è divinità assoluta, vittoriosa su Dio che questi segreti ha creato.
La Baracca Rossa agiva come stimolante all'istinto: al primo istinto a cui l'obbedire è facile. Tagliati così fuori dalla coscienza i vincoli della convivenza onesta, ogni uomo si fa cane dietro la prima preda che incontra.
«Chi si contenta di poco è un bruto,» disse Giuda in una delle sue mirabili lezioni. «Eravamo scimmie, ora siamo uomini, capaci di far volare il ferro.» (p. 115) - Ha ragione Giuda quando parla di libero amore: meglio il libero amore delle bestie, del traffico carnale degli uomini civili alla maniera in uso: almeno il libero amore non inganna che la propria cecità. Non contrae vincoli. Si chiama libero pomposamente perché schiavo del senso, e sterile di procreazione: per essere liberi sopprimono la prole prima della vita. Inferiori sì, alle bestie: ma liberi. (p. 132)
- Bilbao seguiva la narrazione religiosamente. Ogni tanto s'impettiva e allungava il collo come se avesse avuto troppo stretta la camicia. Invece era talmente preso dal racconto, immedesimato fino al punto di vedere la giraffa e l'albero con gli occhi della mente. E l'istinto lo portava all'imitazione dell'animale, non potendo imitare l'albero.
Io lo guardavo nel collo magro e pensavo: «Veramente c'è della bestia nell'uomo.» Quel pomo di Adamo gli andava in su e in giù, sotto una pelle rugosa e pippolata con qualche pelo grigio: ma più che pelo, setola. E la testa rivolta in su, all'albero di Giuda Dabbak, era frenata da due corde del collo che servivano da tiranti per riportarla al punto giusto dopo lo sforzo. Anche la bocca si apriva e si chiudeva come se masticasse le foglie dell'albero ormai alto nell'aria. Gli occhi di Bilbao fermi alle foglie dell'albero di Giuda Dabbak, non s'accorgevano del cielo, padiglione a tutti gli alberi, a tutte le cose della terra. (pp. 156 sg.)
Il capo mi guardava con aria di provocazione.
Ad un tratto mi disse: «Mulo! raccogli il pane che hai sbriciolato per terra.»
Buttai in terra il pane che avevo ancora in mano. Lo pestai, e lo trattenni sotto il calcagno.
Il sole era già alto, su quel paesaggio impolverato di giallo. Mi pareva di essere un condannato ai lavori forzati, in un paese sconosciuto. Il triestino era certo l'aguzzino dei condannati.
A quanti anni di questa pena sono stato condannato? E perché sono stato condannato così senza pietà?
Mi adatterò anch'io, come tutti gli altri, che sono contenti e mangiano il loro pane intorno all'aguzzino, e ridono, senza accorgersi nemmeno della carcere che li tiene schiavi?
Sulla terrazza della casa dei padroni, una serva nera batteva un tappeto steso sopra una corda, e queste percosse rompevano l'aria d'intorno, ora che tutta l'officina taceva.
Bibliografia
modifica- Enrico Pea, Moscardino e Il servitore del diavolo, Garzanti, Milano, 1963.
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