Francesco Pacifico

scrittore italiano

Francesco Pacifico (1977 – vivente), scrittore italiano.

Citazioni

modifica
  • All’inizio della carriera ti senti lo scrittore giovane che non ha capito un cazzo del mondo, e quindi magari cerchi l’universale. Poi cresci e ti rendi conto che stai collaborando alla descrizione del mondo, che non è un compito in classe e che nessuno sa come si fa.[1]
  • Appartengo alla fazione che pensa che il romanzo si innesti in tutto ciò che di comune ha il pensiero umano unificato dalla filosofia greca, l’umanesimo e l’illuminismo. Innestandosi su queste forme mentali che hanno dimostrato di poter essere universali e attirare sensibilità e culture diverse unendole in una visione comune, il romanzo è comunicabile in tutte le lingue. Non si useranno sempre gli ingredienti giusti per riprodurre le ricette di altre culture; ma pensiero ed emozione arriveranno a palati di ogni tipo anche se andranno perdute le qualità organolettiche di certi ingredienti.[2]
  • Chi è al centro di un sistema al contrario parla spesso come se le ideologie fossero solo quelle degli altri, degli sconfitti. I quotidiani mainstream parlano come se esistesse da una parte un normale scambio di idee non ideologico, dall’altra le ideologie fastidiose. È un modo di ragionare ideologico, ma ha il merito di essere riuscito negli ultimi quarant’anni a far passare il mondo in cui viviamo per un mondo non-ideologico.[3]
  • Fare lo scrittore letterario e intellettuale, in quest’epoca, in questo continente, scrivere romanzi sulla crisi e articoli pensosi e status graffianti, ha più a che fare con l’oculata amministrazione della propria immagine messianica (una tendenza narcisistica del tutto riscattata dal pensiero di stare aiutando le persone con il nostro lavoro) che con ciò che al liceo ci portò in primo luogo a scrivere: spaventare la gente, emozionarla, facendo i conti con i nostri demoni [...].[4]
  • Ho un’idea gnostica del mondo. Il mondo non l’ha fatto esattamente dio, ma un suo angelo che si è spacciato da dio. È un mondo fatto male, taroccato. Illuminazioni di vario tipo ci fanno intravedere il mondo vero. Non so nemmeno se è la mia visione del mondo, ma quando descrivo i posti mi pare sempre che tutto ciò che tocca l’uomo/l’umanità sia costruito in malafede e pasticciando. I luoghi del turismo sono una delle grandi manifestazioni di questo homo faber artistoide che costruisce mondi che non funzionano. Il lavoro è un altro. Il paesaggio è tutto attraversato da idee di merda venute a noi. I rapporti umani a volte si salvano da questo cosmo fatto male, a volte invece ne sono componenti fondamentali.[5]
  • Ho una sensibilità da laboratorio, da bottega, che è forse un modo per sfuggire al caos della storia. La mia vita è stata un laboratorio in cui ho provato sul mio corpo e la mia mente diverse grandi vene dell’occidente: il cattolicesimo, la psicanalisi, il rock, lo yoga all’occidentale, la filosofia politica… Non credo di averle consumate. Le ho provate sulla mia pelle e sono tutte rimaste con me. Sia come seguace che come lettore sono sempre stato appassionato di classici, e la loro rilettura o riscoperta continua occupa quasi per intero il mio rapporto con quel che desidero e con quel che faccio. Rimandare sempre ai classici se vuoi è un modo di non liberare troppo il desiderio, di non rifondare l’uomo.[6]
  • Il concetto di ridescrizione ricorda la raccolta di Pier Paolo Pasolini Descrizioni di descrizioni, dove con il titolo si intendono le recensioni: perché una recensione non è niente se non descrive il libro; e il libro non è che una descrizione della realtà. Ce ne dimentichiamo spesso forse perché la stampa italiana di solito sacrifica la descrizione del libro recensito, di cui tante recensioni non riportano neanche una frase, col risultato che per comprare un romanzo passiamo per recensioni che non ci hanno nemmeno fatto sentire l'alito di quel romanzo. La critica, invece, se fatta come descrizione di descrizione, può essere quel movimento esaltante dell'occhio (il critico) che guarda un altro occhio (lo scrittore) che guarda un altro occhio (la persona reale che nel romanzo diventa personaggio).[7]
  • Il disinteresse di Arbasino per la salvezza è sempre stato la mia colazione dei campioni letteraria. Leggere Arbasino vuol dire leggere sempre per il gusto di mandare tutto al diavolo, e vuol dire quindi poi prendere così anche ogni altro libro: voler sentire come suona e cosa racconta, ma non cosa insegna. “Francesca dipingerà”: ma sì, ma che ti vuoi riscattare, è una famiglia italiana. Io combatto da sempre con il problema di Giacomo De Benedetti che inventa il concetto di “personaggio uomo” per dire che nel Novecento finalmente si arriva ad avere personaggi che sono persone, non caratteri, non macchiette, non personaggi, in definitiva. La scrittura di Arbasino è tutta un “sì, sì, va be’” a questa idea. All’idea, molto sostenuta invece dai nonni del ramo etero, da Dante a Parise e Calvino, che si debba sempre comunque fare un grande sforzo per capire cosa si salva, cosa si riscatta, che ci facciamo con la letteratura e che ci facciamo sulla terra.[8]
  • Il mio ricordo di Arbasino è questo: è il ruolo che ha avuto nel farmi conservare un unico interesse, il gioco di voci che è il romanzo, o la narrativa in prosa. Se hai rubato la voce a qualcuno e la puoi rifare con profondità, ma senza irrigidirla, e puoi mischiarla alle altre voci che hai rubato, devi essere felice così. Grazie a lui ho potuto continuare a vivere di contraddizioni e ambivalenze, considerando letteratura la magia non tanto delle parole – nel senso di feticci da collezione – ma dei discorsi e dei mondi che producono discorsi.[9]
  • Io penso a volte di aver scelto la letteratura solo per questo. Perché io sentivo di aver bisogno [...] di aver scelto la letteratura per quella omogeneità, che per me ha molto colore: poi magari uno solo ma è proprio colore… L’omogeneità di quando adori avere tutta la giornata vuota avanti a te, di non avere quegli strappi che hanno tutti, come se non li potessi leggere. Invece in quella omogeneità senti proprio la possibilità di un movimento, di una elaborazione infinita e ricchissima. Io penso di avere come tutti un dispositivo di shock, per non sentire il dolore, ma sofisticatissimo, cioè io voglio percepire solo tutto ciò che è continuità da quando a sedici anni ho iniziato a scrivere.[10]
  • [...] io sono contro l’idea della divulgazione, cioè non mi piace l’idea di fare una cosa predigerita: più che la divulgazione a me piace che ogni sensibilità, ogni penna voglia ridire le cose perché è un grande racconto orale [...] e io credo tantissimo al posto della divulgazione… Credo moltissimo in questa proliferazione di dire le cose, descrivere le cose, che poi crea veramente una nuvola in cui i sensi sono aperti, come invita Walter Siti in Contro l’impegno, dove le stesse cose che diciamo sono polisemiche. Io voglio che “scena” sia polisemico, che “bolla" sia polisemico, che “mainstream” sia polisemico, quindi noi abbiamo tutti i giorni questo compito di ri-descrivere le cose e di non fossilizzarle [...].[11]
  • La cultura di sinistra dovrebbe liberarsi dell’idea che bisogna essere produttivi a tutti i costi. Dobbiamo smetterla di pensare che una persona realizzata è una persona che produce.[12]
  • La cultura mainstream – nazionale e internazionale – è una bolla. Come i più minuscoli gruppetti, accetta cose dette solo in una certa maniera e non capisce nient’altro. Capisce il suo slang. Il suo slang è emozionale-morale. Quale morale non importa, visto che per ogni proverbio esiste un proverbio che dice l’opposto e presi insieme fanno la saggezza popolare. Chi vuole stare nel mainstream – lo so per certo di prima seconda e terza mano – si adegua sottilmente e spontaneamente come ci adeguiamo per entrare in un gruppetto affiatato. Ci viene di scrivere romanzi come fossero serie tv, ci viene di stare sul pezzo come fossimo giornalisti, ci viene di dare consigli per gli acquisti come fossimo pubblicitari. Vogliamo starci, ma non vogliamo stare in un mondo grande. Vogliamo che la cultura nazionale o internazionale ci faccia credere che ritrovarsi in quella grande piazza equivalga a dialogo, complessità e maturità, e quella cultura ce lo assicura volentieri scegliendo portavoce dall’aria molto seria. La società dello spettacolo usa i metodi della bolla perché deve saper prevedere la reazione di molti consumatori a un prodotto. Non è un mondo adulto. Quando spingiamo prodotti culturali possiamo parlare solo di urgenza e necessità. Il prodotto culturale non ha caratteristiche specifiche, non parla alla storia del proprio linguaggio ma solo al momento presente della comunicazione, anche se è altro sogna di essere solo content. Questo costringe i poveri uffici stampa a spingerci libri come fossero fatti puri e semplici della cultura e non libri. Costringe noi a non esprimerci troppo in dettaglio per evitare di inceppare il meccanismo con cui campiamo. L’era dei critici non è finita perché i critici si erano troppo staccati dal mondo: è finita perché per consumare cultura non c’è bisogno di sapere troppo, basta sapere cosa gira e cosa tira, per assumerlo. [...]
    Voglio un mondo di cose specifiche che non si ammassano tutte in una palta emozionale morale.[13]
  • La disgraziata cultura della scuola (appunto) italiana ci ha inculcato l’idea che se non leggi tutto un autore non l’hai letto, perché non hai sofferto abbastanza. Il che, come dico spesso in questi casi, porta la gente a non leggere mai una riga né di Montaigne né di Proust né dell’Ulisse. La letteratura, l’arte che più leghiamo ai principi appresi a scuola (figurati che ci importa di essere completisti con Cézanne o Warhol…), ci mette in questo vicolo cieco di tenebre e infelicità.[14]
  • La mia idea della società di massa in Occidente è veramente schematica. Fino alla metà degli anni Sessanta, per un lunghissimo dopoguerra, istituzioni e capitale pensavano tutti che l’espansione della cultura e dell’arte stesse avendo un effetto di stimolo del mondo occidentale. Tutti quei viaggioni artistici esistenziali politici avrebbero creato tanto progresso socio-economico. Ma poi quel mondo produttivo organizzativo si è accorto che il ROCK diventava troppo rapidamente psichedelia fricchettona anarchica o comunista e quindi istituzioni e capitale hanno cominciato a selezionare meglio le persone da sponsorizzare. Siamo passati da Revolver a Spielberg. Abbiamo insultato Yoko Ono perché rappresentava l’arte concettuale che veniva a interrompere del sano lavoro compositivo perbene.
    Gli anni Settanta hanno segnato questa transizione. Tutto il resto è diviso tra Top of the Pops e la controcultura. Tra andare a Sanremo e appendersi per i capezzoli nei teatri sperimentali. A volte ti tocca andare a Sanremo perché non te la senti di appenderti per i capezzoli. Hanno messo l’aut-aut.
    Non c’è più un centro che è nel solco della storia. Il centro non ha evoluzione, gira in tondo, è noioso, è solo consumabile, non vi si assiste allo sviluppo delle idee interessanti, come invece è successo fino diciamo all’inizio degli anni Settanta. Le eccezioni sono sporadiche: un editor vuole fare di un certo libro difficile una cause célèbre anche se non venderà tanto, ci si gioca la reputazione.[15]
  • La religione è uno dei colori fondamentali della mia esperienza del mondo, e uno degli elementi più bizzarri della borghesia, mio oggetto di contemplazione da sempre. Nei miei libri ci sono sempre le seguenti cose: viaggi, status, religione, ideologia, desiderio. La religione non mi interessa meno di prima, ma ho notato che tende a mangiarsi gli altri argomenti, se messa in un mio libro.[16]
  • Leggo soprattutto romanzi. Non importa di che genere siano, ma, a parte le cose che recensisco, per tutto il resto cerco di leggere solo cose di provata bellezza per avere la sensazione che non mi stiano danneggiando la scrittura. Le cose scritte male inquinano il cervello, quelle scritte bene non mi influenzano, non condizionano la mia scrittura, perché nella loro bellezza c’è una specie di libertà che mi fa venire voglia di fare come mi pare. Invece leggere cose scritte male mi rende miope, non mi fa sentire la quantità di possibilità che ha la scrittura.[17]
  • L’importante è provare, sbagliare, rimediare, poi sbagliare di nuovo. Noi invece abbiamo questa visione, ripeto, antieroica, e quindi eroica. Noi maschi siamo educati a pensare che abbiamo già vinto o abbiamo già perso, e che non c’è bisogno di giocare la partita.
    La prima volta che mia moglie lesse la prima stesura del romanzo, lo distrusse. Io la presi malissimo: “Allora lo butto! Dimmi se il romanzo c’è o no! Dimmelo!”. Nel modo più melodrammatico possibile. E lei: “Che vuol dire dimmi se c’è il libro? Certo che c’è, l’hai scritto”. Io piuttosto che migliorarlo lo volevo distruggere. Questa è la visione maschile. Ma il punto non è rosicare o trionfare, è giocarsela.[18]
  • Nella letteratura del settecento e dell’ottocento si parlava tantissimo di doti ed eredità. Poi per un po’ si è parlato d’altro e ora si parla tanto della precarietà dei posti di lavoro, e della salvezza e della dannazione che sono i soldi di famiglia. La proprietà, e quindi la casa prima di tutto, ritorna centrale nel rappresentare la mancanza di strumenti della mia generazione. Dopo una vita da scrittore io non ho un cazzo di mio, pur essendo un adulto che ha fatto tutto quello che doveva fare. Si ritorna quindi alla letteratura delle settecento con le doti e le famiglie.[19]
  • [...] noi abbiamo creduto troppo alla stupidaggine insegnataci dai nostri genitori, al fatto che le sole vere storie sono quelle di chi si è fatto da solo. Chi si è fatto da solo in Italia in quella generazione si è fatto da solo perché ci sono stati il piano Marshall e il welfare state. A noi è arrivata questa idea di farci da soli ma con quella ricchezza di famiglia che fa sentire molto più in colpa del denaro pubblico. Ora, io sono quindici anni che mi ammazzo di lavoro sottopagato, e anche se ho una “carriera” so benissimo che è il sistema a permettermi di “fare carriera”. A noi ci hanno solo detto: naviga pure nelle acque tiepide e protette, e se ti impegni comprerai anche la casa al mare. Come mai noi crediamo a quella legge morale di un’altra epoca? Se è una contingenza storica, ormai superata, dovremmo smettere di sentirci in colpa.[20]
  • Quando ero all’inizio dell’adolescenza e non sapevo ancora come comportarmi, come trattare con le ragazzine, mi facevano molto invidia i ragazzini e le ragazzine spigliate che facevano questo gioco che ora ti dico, in cui praticamente si cercava di simulare la sensazione di avere le dita addormentate: univi un tuo dito al dito della ragazza, poi con pollice e indice accarezzavi questo dito composto di due dita, uno tuo e uno non tuo, e così avevi sia la sensazione della sensibilità che quella dell’insensibilità, e così avevi questa sensazione di toccare questa cosa… non tua, addormentata, sia tua che aliena, e infatti appena sono riuscito a essere abbastanza spigliato da stringermi le mani con una ragazzina l’ho provato subito. Ho questa sensazione che si possa definire la vita umana, la vita di un umano, solamente con questo gioco in cui da una parte la vita è realmente qualcosa, dall’altra devi conservare il senso del vuoto. La vita non può essere fatta solo della sensazione che la vita sia qualcosa. È una capacità che si attribuisce in generale al sesso: di essere contemporaneamente la cosa più funzionale, la cui funzione è la più ovvia della vita umana, e insieme la cosa che è meno funzionale e che ha meno senso. Bisogna vedere le due cose insieme, come il gioco delle due dita.[21]
  • [...] sappiamo tutti che quando si parla per un’ora in un podcast, quando si parla di queste cose che ci piacciono a noi, si può mettere tantissima roba dentro, e quindi effettivamente quelli stanno diventando luoghi come le riviste, perché appunto hanno tantissimo spazio per accogliere un sacco di cose sfilacciate cercando di capire dove vanno; cioè a differenza del supplemento del quotidiano che deve comunque quagliare, oppure dei numeri monotematici che a volte appunto sono fatti anche per comodità, per velocità, siamo davanti a una proliferazione di formati che permettono di fare esattamente la cosa delle riviste, e prima ancora delle riviste, delle scene culturali, e cioè creare casino, creare un discorso multiplo… che non deve definire in ogni momento cosa sta facendo, può essere anche caotico [...].[22]
  • Scrivendo mi sono chiesto: non è che invece abbiamo solo la modalità “schifo” nel raccontarlo, l’antieroismo in fondo compiaciuto di cui parlavo prima, e poi invece in realtà ci sono una serie di esperienze molto più intime che facciamo ma non arriviamo a raccontare? Io volevo mantenere lo schifo di certi aspetti e mescolarlo il più possibile con la bellezza di altri. Perché io posso pure sentirmi un uomo schifoso perché sono autoreferenziale quando scrivo, o quando leggo, ma per fortuna poi la mia vita è fatta di esperienze più complesse, per fortuna nella vita c’è anche mia moglie che magari mi dice “grazie di come mi sei stato vicino in questo periodo difficile”.[23]
  • Se Ballard è sempre più importante a più di dieci anni dalla morte, se è ancora letto e utilizzato per capire il mondo, è perché essendo stato sia atavicamente inglese che alieno, è riuscito a usare, negli anni Settanta ma pure e ancora in anni sentimentali come i Novanta, uno strumento che è stato fondamentale nel grande romanzo europeo: la satira. Dagli anni Ottanta in poi, secondo me, l’equilibrio tra satira e compassione è stato sbilanciato in favore della compassione a causa del reflusso, del ripiegamento nel privato: prima invece, quando ogni problema era anche pubblico, com’è stato per tutto l’Ottocento e fino agli anni Settanta del Novecento, si poteva scherzare nei romanzi, si potevano deridere i tipi e le situazioni e le classi. La compassione la si esercitava naturalmente per la sofferenza della condizione mortale dell’umanità, il resto veniva deriso (Zola, Gogol – tutto ciò che era sistema veniva deriso, dal grande magazzino allo struscio sulla Prospettiva Nevskij…). Dagli anni Ottanta non si può più, bisogna solo compatire l’individuo singolo schiacciato dalla vita, anche se quell’individuo in tutti i comportamenti è complice del sistema che lo uccide. Va solo compatito, non lo si può più prendere in giro come si è fatto da Balzac fino all’inizio del postmoderno. Bisogna giustificare, perdonare, graziare, e andare avanti a testa bassa.[24]
  • Se il nostro modo di vivere va condannato, siamo da condannare anche noi. Inutile cercare razionalizzazioni. Scrivere romanzi in cui si commenta poeticamente il cul de sac in cui ci troviamo è ridicolo, nel senso che diventa apertamente un modo per districarsi da quel giudizio: la colpa di questo mondo è di chi ha il SUV, non di chi legge poesie e ascolta i Wilco… Il risultato assomiglia a una versione stravolta di “Bartleby lo scrivano” in cui Bartleby dice che preferirebbe di no e intanto fa quel che gli chiede il capo.[25]
  • Se racconti il rapimento di un uomo che è stato sbattuto in una cella per due anni, puoi anche non lavorare troppo sulla profondità psicologica, perché quello che racconti ha già molta forza di per sé. Raccontare la nostra generazione e la nostra classe sociale invece richiede una precisione assoluta nel dettaglio, sennò non stai raccontando niente. Anche ai parigini di inizio ‘900 non succedeva niente, e infatti Proust è di una precisione assoluta: perché cerca di raccontare profondamente cose molto difficili da raccontare. Tutta la tragedia sta nella precisione dei dettagli.[26]
  • Sulla scia di quella brevissima anzi beffarda “fine della storia” che fu la belle époque, il modernismo prese la cultura ottocentesca e le fece fare tante giravolte. In letteratura, il romanzo, cioè la serie tv dell’Ottocento, subì un trattamento simile a quello che David Lynch dedicherà nel 1990 alla televisione inventando Twin Peaks: un mezzo che fin lì era stato usato con relativo pragmatismo esplodeva in tante direzioni e sotto lo sguardo di Marx, Freud e Nietzsche ci consegnava diverse interessanti mostruosità. In Europa, i capolavori più rappresentativi del modernismo sono caratterizzati da un certo titanismo: L’uomo senza qualità, Alla ricerca del tempo perduto e Ulisse ci insegnano che per andare a caccia dell’ineffabile in letteratura si devono rifondare mondi scrivendo romanzi mondo (è uno scioglilingua).[27]
  • Una parte di me mi dice che lo scrittore non è un artista ma è un prete, il cui lavoro è la salvezza delle anime. L’altra però continua a dire che lo scrittore, come gli altri artisti, è una bestia vorace che consuma immagini e vite umane per la ricerca di un ideale estetico, e che bisogna lasciarglielo fare. Non è molto, come conclusione, ma la storia di tanti scrittori non soddisfatti del proprio ruolo di educatori è la storia di una lacerazione interna fra il prete e la bestia.[28]
  • Virginia Woolf ha un ruolo cruciale nel modernismo perché nei suoi libri, specie nella trinità Signora Dalloway – Gita al faro – Le onde, partecipa alla sfida opponendo al titanismo un rapporto più ironico e intuitivo con la vita. Dove in Joyce e Proust la cultura e il flusso di coscienza producono vortici nevrotici (sublimi), i carotaggi dell’anima in cui si cimenta VW, i moments of being, presentano la realtà come qualcosa insieme di mistico e di conoscibile. In ciò Woolf rimane nel solco di Tolstoj, e di una letteratura di saggezza (anche se non sapienziale). Insomma dove Joyce ha mostrato di saper rimasticare tutti i registri conosciuti e dove Proust ha inventato le scienze cognitive spiegando come funzionano la memoria e l’immaginazione, Woolf ha ricostruito, con Clarissa Dalloway, l’architettura di un essere umano, combinando le parti frivole e le parti profonde, l’appartenenza di classe e l’appartenenza all’umanità, l’ipocrisia e la verità in una maniera che infonde nel lettore un desiderio di vita e di esperienza. Il tutto servendosi del virtuosismo come di un’ovvietà di cui non vantarsi tanto; sperimentando senza vanità.[29]
  1. Da intervista del 4 aprile 2018 per Esquire.it.
  2. Da un articolo [1] del 17 aprile 2017 uscito su RivistaStudio.
  3. Da [2] uscito il 22 marzo 2021 su iltascabile.com.
  4. Da un articolo [3] del 13 luglio 2015 uscito su RivistaStudio.
  5. Da un'intervista [4] uscita su liminarivista.it.
  6. Da [5] del 21 settembre 2017 uscito su iltascabile.com.
  7. Da [6] del 17 dicembre 2015 uscito su ilsole24ore.com.
  8. Da [7] del 24 marzo 2020 uscito su iltascabile.com.
  9. Da [8] del 24 marzo 2020 uscito su iltascabile.com.
  10. Da [9] del 16 giugno 2021 uscito su iltascabile.com.
  11. Da [10] del 5 luglio 2021 per iltascabile.com.
  12. Da un'intervista [11] uscita il 12 dicembre 2014 per Dudemag.
  13. Da un post di Facebook ripreso in un articolo[12] del 12 febbraio 2021 su Chefare.com.
  14. Da [13] del 14 agosto 2016 per iltascabile.com.
  15. Da [14] del 12 febbraio 2021 su Chefare.com.
  16. Da [15] del 15 marzo 2018 su wumagazine.
  17. Da [ http://matteobblog.blogspot.com/2014/12/come-leggono-gli-scrittori-7-francesco.html?m=1] uscita su matteobblog il 29 dicembre 2014.
  18. Da [16] del 4 aprile 2018 per Esquire.it.
  19. Da [17] del 4 aprile 2018 per Esquire.it.
  20. Da [18] del 21 settembre 2017 uscito su iltascabile.com.
  21. Da [19] del 16 giugno 2021 uscito su iltascabile.com.
  22. Da [20] del 5 luglio 2021 per iltascabile.com.
  23. Da [21] del 4 aprile 2018 per Esquire.it.
  24. Da [22] del 16 settembre 2021 uscito su iltascabile.com.
  25. Da [23] del 16 settembre 2021 uscito su iltascabile.com.
  26. Da un'intervista [24] uscita il 12 dicembre 2014 per Dudemag.
  27. Da [25] del 2 maggio 2019 uscito su iltascabile.com.
  28. Da un articolo [26] del 13 luglio 2015 uscito su RivistaStudio.
  29. Da [27] del 2 maggio 2019 uscito su iltascabile.com.

Altri progetti

modifica