Azra Nuhefendić

giornalista bosniaca naturalizzata italiana

Azra Nuhefendić (… – …), giornalista e scrittrice bosniaca naturalizzata italiana.

Citazione tratte da Le stelle che stanno giù

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  • Nel maggio 1992, i nazionalisti serbi volevano far capire bene le nuove regole: nel primo giorno di occupazione avevano sgozzato cinque condomini del palazzo, quattro uomini e una donna. Il resto degli inquilini era scappato. Tutti tranne tre vecchi che avevano già vissuto l'esperienza della Seconda guerra mondiale. Si ricordavano che, una volta che si lascia la casa, non si trova pace da nessuna parte. (p. 31)
  • I crimini più odiosi dell'ex Jugoslavia hanno avuto il sostegno entusiasta degli intellettuali, cioè delle persone la cui istruzione e reputazione avrebbero dovuto rassicurarci. […] Invece di usare la propria autorevolezza contro la guerra, la maggior parte degli intellettuali serbi ha scelto di fare da guida al popolo giustificando "scientificamente" la violenza, purché servisse a raggiungere l'obiettivo proclamato: "la grande Serbia etnicamente pura". […] L'impegno politico degli intellettuali serbi fu decisivo per creare un'immagine dei musulmani bosniaci come alieni e per alimentare il sistema del genocidio. Professori, poeti, accademici, biologi, scrittori, pittori, matematici, attori, affermavano che "i musulmani sono geneticamente inferiori", che "la Bosnia è uno Stato-mostro", che "i serbi sono il popolo superiore", che "un convertito all'Islam è peggiore di un turco", che "l'Europa ci sarà grata perché in Bosnia abbiamo difeso i valori e la cultura cristiana", che "i musulmani sono infedeli e assassini a sangue freddo", che i bosniaci musulmani "soffrono di frustrazione rettale", e che hanno "predisposizione al furto, una totale mancanza di etica e avidità di potere". (pp. 37-38)
  • Prima della guerra le colline intorno a Sarajevo erano coperte di prati verdi e di boschi. La guerra ha cambiato il paesaggio. Oggi le alture sono nude, la città è circondata da cimiteri. Guardando Sarajevo dai punti dominanti, si notano frequenti brandelli bianchi, sembrano delle pecore che pascolano. Per chi non sa, potrebbe essere anche un paesaggio pastorale. Il bianco delle lapidi abbaglia lo sguardo. (pp. 60-61)
  • Gli alberi li piantavamo per i morti, ma in guerra sono serviti ai vivi. Durante l'assedio di Sarajevo scomparivano gli alberi e si estendevano i cimiteri. Per riscaldarsi, quando ormai si erano esaurite tutte le altre risorse, la gente tagliava gli alberi nei parchi e nei cimiteri. I più audaci, o i più disperati, segavano gli alberi sulle colline, e sui pendii dei monti vicini, talvolta a solo una decina di metri di distanza dalla linea del fronte (p. 62)
  • In Bosnia sono state identificate circa diciassettemila persone che hanno partecipato a crimini di guerra. Alcuni si nascondono, alcuni sono scappati in altri Paesi, ma la maggior parte dei responsabili di quei crimini sono ancora liberi, compresi i colpevoli per il genocidio; vivono accanto alle vittime, impuniti come se nulla fosse accaduto, spesso posizioni pubbliche importanti. Probabilmente la maggior parte dei colpevoli non sarà mai processata. Parafrasando il titolo del famoso libro di Hannah Arendt La banalità del male, in Bosnia, si potrebbe scrivere sul trionfo del male. Il più profondo dolore diminuisce con il tempo, con il passare degli anni siamo in grado di accettare anche le perdite che ci parevano inammissibili, tutto passa tranne il sentimento provocato dall'ingiustizia. Quello cresce, si rafforza con il passare del tempo. E' il germoglio della futura vendetta. Può restare a lungo assopito, si risveglia quanto meno ce l'aspettiamo e, questa forza, chiunque tocchi, lo contagia. Riesce a riproporsi dopo centinaia di anni, per spargere il suo veleno sugli innocenti, inconsapevoli del peccato originale. (p. 73)
  • In questa zona, vicino al fiume Drina, i serbi hanno fatto scomparire circa sette-ottomila musulmani di Srebrenica. Che lavoraccio! Tutto sbrigato in due-tre giorni. I bosniaci che non sono stati uccisi sono scappati. Nonostante ciò si vedono le moschee, nuovo inutile tentativo della comunità internazionale di far tornare i musulmani. Oggi la popolazione è composta da serbi. Mi chiedo come fanno gli abitanti attuali a vivere con quella storia d'orrore sulle spalle. Un bel sabato di sole decidi di fare un picnic, porti moglie e due bambini, ti metti a cucinare un po' di cevapcici, cerchi i rami secchi per il fuoco e trovi resti di cinque, cinquanta o cinquecento persone! (pp. 77-78)
  • Riconosco la piazza con la chiesa cattolica, innalzata negli anni Settanta. Alla costruzione avevano contribuito anche i musulmani, chi poteva con i soldi, i più poveri con la mano d'opera. Era un'usanza, tra buoni vicini, aiutarsi a vicenda. Quando i musulmani avevano ristrutturato l'antica moschea, anche i croati avevano contribuito economicamente. Tutta acqua passata. I nuovi condottieri volevano che si capisse subito chi era il padrone. Nel centro è stata eretta una croce che supera in altezza tutte le case intorno. Durante e subito dopo la guerra avevano cambiato anche il nome della città. L'avevano chiamata Rama, dall'omonimo luogo nelle vicinanze dove ci sono i resti di antiche chiese romane, e dove oggi sorge un complesso con l'abbazia. Ai musulmani, quelli rimasti a Prozor dopo la guerra, basta e avanza la moschea antica, oggi trascurata e in stato miserabile. Invece di restaurarla però ne stanno costruendo una nuova. "Per dispetto", mi dice un musulmano sul posto. (p. 84)
  • Più tardi, lasciando Prozor, osservo sulla collina il luogo dove c'era il villaggio. Le case senza tetto, i muri anneriti, i buchi al posto delle finestre come occhi incavati. Da lontano le rovine sembrano persone inginocchiate in preghiera verso il cielo. (p.85)
  • La lingua che usiamo è il biglietto da visita più accurato. Dalle parole che uno adopera, da come si esprime è possibile capire se uno è educato o no, intelligente o stupido, arrogante o modesto, creativo o burocrate, ostile o innamorato, viaggiatore o sedentario... tutto questo, volendo, si può dedurre dal modo in cui uno parla, dalla lingua che adopera. La lingua identifica le persone vive, come il DNA i morti. E' il particolare personale che sparisce per ultimo. Quando uno chiude gli occhi per sempre, spesso quello che si ricorda a lungo sono le ultime parole pronunciate. (p.98)
  • La lingua era l'arnese principale del mio mestiere. Facendo la giornalista ho capito il potere della parola scritta o parlata, ho imparato come i vocaboli ci facilitano a manipolare le persone, a controllare l'opinione pubblica, orientare la condotta della massa, come le parole ci permettano di cambiare il pensiero e, di conseguenza, l'atteggiamento di interi popoli. Prima e durante la guerra in Bosnia, ho assistito all'uso delle parole come un'arma potentissima. La tv, i giornali, le radio seminavano l'odio e preparavano la guerra in modo efficace, come nelle guerre tradizionali lo faceva l'artiglieria. A causa delle parole scritte e dette la gente cambiava: gli amici diventavano nemici, i vicini avversari, i famigliari estranei. Ho capito quanto aveva ragione il noto dissidente e scrittore Mihailo Mihajlov, quando sosteneva che la parola scritta e detta è l'arma più potente, 'perché con un coltello si possono uccidere una, due, o cinque persone, con un fucile se ne fanno fuori dieci, con una bomba se ne ammazzano cento, invece le vittime delle parole che istigano l'odio si contano a milioni. (p. 99)

Bibliografia

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  • Azra Nuhefendić, Le stelle che stanno giù. Cronache dalla Jugoslavia e dalla Bosnia Erzegovina, Edizioni Spartaco, 2011. ISBN 9788896530164

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