Aldo Gorfer

giornalista e scrittore italiano (1921-1996)

Aldo Gorfer (1921 – 1996), giornalista e scrittore italiano.

Citazioni di Aldo Gorfer

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  • Faganello, almeno così mi sembra, ha voluto ora rifuggire dalla retorica per proporre una "storia" in bianconero. L'uomo, l'uomo individuo e l'uomo società. Le stagioni dell'uomo. L'uomo nel paesaggio. I paesaggi dell'uomo. I paesaggi dell'uomo come erano e come sono oggi. Le trasformazioni avviate, spesso brutalmente, dall'uomo. Tutto in minore. Niente cattedrali o palazzi o castelli. Semmai qualche particolare che ne modera la conclamata aulicità. Questa "storia" di situazioni "umili" esprime con riverente convinzione un'assonanza di sequenze che rendono comprensibile il teatro umano del Trentino e del Tirolo del Sud. Quasi che il viaggio della natura si fosse misticamente alleato al viaggio all'uomo con le sue bisacce, quindi della Storia. Un'idealizzazione della realtà? Un realismo lucido? Nettissime immagini. Di tipo impressionistico. Di un grande fotografo moderno.[1]

Solo il vento bussa alla porta

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L'abbandono di Ischiazza, simbolicamente figurato nella insolita processione che nel livido novembre del 1966 si snodò tra i campi e i boschi di Valfloriana impregnati di pioggia trasportando nella parrocchia di Casatta gli arredi sacri della ottocentesca chiesetta dell'Esaltazione della Croce – il grande crocefisso dell'altare, i candelieri, le statue, i quadri della Via Crucis, i paramenti, i vasi e perfino le campane – è l'ultimo episodio del grande romanzo storico dedicato alla morte dei villaggi montani.

Citazioni

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  • Poche case affondate nel verde, il saliscendi d'un viottolo, la chiesetta d'una contenuta letizia barocca, la fontana di contro al muro cadente d'un orto. Sevròr è tutto qui. Il silenzio è solenne tanto che vi vien voglia di bussare vigorosamente agi usci e di gridare: «Ohilà, siamo in un paese deserto?». Proprio come è accaduto a me, dopo essere giunto all'ultima casa. Sola cosa viva era un bilancino per portare i secchi poggiato allo stipite di granito. Il fabbricato era largo e massiccio, col tetto a due falde che scendeva verso la chioma d'un noce. Dal di dentro usciva un cadenzato tonfo, come se qualcuno battesse i piedi sull'impiantito. Finalmente un viso di donna si affacciò dall'assito presso il ballatoio: «Non c'è nessuno – chiesi – in questo paese?». La donna – portava il fazzoletto annodato sotto il mento secondo l'uso giudicariese – rispose che i più se n'erano andati e che le case erano sbarrate e che erano rimasti i vecchi e i nostalgici. (da Il destino di Sevròr, p. 21)
  • Il mito, piuttosto recente, creato attorno a Iron, è quello della peste del 1630, la «manzoniana», che avrebbe ucciso tutti gli abitanti. La leggenda corrisponde forse alla realtà sebbene il quadro sia piuttosto confuso. La peste infuriò con particolare virulenza nelle ville dell'antica comunità di Preore decimando la popolazione e, a quanto sembra, preservando i paesi della valle del Manez. Saggiamente, infatti, quelli delle Montagne stabilirono dei posti di blocco, non scendendo a valle se non quando – si narra – un pollo calato al basso, con una lunga corda, non fu tirato vivo. (da Il mito di Iron, p. 26)
  • Iron è un paese straordinario. Gli è venuto improvvisamente a mancare lo stimolo della vita. Eppure il quadro di codesto villaggio vivo a metà si tinge di mistero e si amplia, esaltando l'atmosfera quasi irreale, da saga, che vi si respira, allorché il Bolza mi racconta dei trenta scheletri dissotterrati presso la chiesa, dei fantasmi degli appestati che si aggirano irrequieti nelle notti di vento attorno alle case, dei popolareschi pellegrinaggi alla Madonna delle Grazie della chiesa di San Giacomo allorché, il 25 marzo, vigeva l'usanza superstiziosa di vendere, a chi pagava bene, una faticosa ascesa da Coltura a Iron con la recita di mille Ave per i poveri morti. In tal modo, chi non aveva nè tempo nè voglia nè fiato sufficiente per affrontare l'erta strada, si affidava ai mercenari della preghiera. (da Il mito di Iron, pp. 32-33)
  • Popolaresca tradizione indica la genesi del villaggio in una grande malga, detta «malgon», il cui nome fu poi corretto in «Margon». [...] Nel 1549 il «maso di Margone, situato sul monte Pe de Gaza sopra Castel Toblino», aveva sei case. Come era stato stabilito negli anni successivi alla fondazione, i discendenti dei fratelli Briarana di Molveno, colonizzatori dei luoghi, dovevano versare ogni 19 anni alla Chiesa di Trento una libbra di pepe e scendere il giorno di San Michele, di ogni anno, al castello del Buonconsiglio di Trento recando quattro staia di frumento, sei di segala, sei di scandella e la decima. (da Quali sono le speranze di Margon?, pp. 46-47)
  • L'osteria è stata chiusa da diciassette anni; nei tranquilli meriggi domenicali la gente gioca a bocce sulla piazzetta della scuola dove, nel tronco dell'ippocastano, è stata incisa la doppia fila dei fori segnapunti. (da La strada tra gli olivi, p. 67)
  • I radi viandanti non la guardano più. Del resto pochi sono coloro che vanno a Bedollo per la via della Regnana e il sentiero di Gausaldo. Visitammo la chiesa. È pure essa abbandonata da un pezzo. Perfino i passeri disdegnano i luoghi dove l'uomo non c'è. (da «C'era una volta un paese...», p. 91)
  • Le campane che si odono quassù sono quelle che suonano nella valle. Quando il vento è favorevole si distinguono i concerti dei campanili e da essi, dai concerti, gli ultimi abitanti di Carnedo e di Montalt apprendono se in basso, dove la «vita vive», si celebra un lieto o triste avvenimento. Così li ho sorpresi, codesti ultimi abitatori delle campane delle Piscine. Tramite questa specie di telegrafo senza fili avevano saputo che laggiù era morta una persona e i loro sospetti furono confermati da me che al paese seppi della triste notizia. (da La storia magica di Montalt, p. 97)

Mi sovvenne allora una pensosa quanto drammatica frase alemanna: «Conosci tu la regione dell'anima dove fiorisce la tristezza?». E la tristezza non è nel volto tirato dalla sofferenza di una persona amata, a cui è negato solidarietà in un tramonto di tensione? Forse è così. Mai lo sapremo. Ormai è sera, e solo il vento bussa alla porta.

  1. Citato in Flavio Faganello, Trentino - Alto Adige. Il mio mondo, Regione Autonoma Trentino - Alto Adige, Trento, 1992.

Bibliografia

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  • Aldo Gorfer, Solo il vento bussa alla porta, fotografie di Flavio Faganello, Arti Grafiche Saturnia Editore, Trento, 1970.

Voci correlate

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