Maria Antonietta Torriani

scrittrice italiana

Maria Antonietta Torriani (1840 – 1920), scrittrice italiana. Usò lo pseudonimo di Marchesa Colombi.

Maria Antonietta Torriani

Incipit di alcune opere

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Cara speranza

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Si chiamava Amalia. Però, malgrado quel nome gentile, era una fra le più rozze campagnuole delle risaie, quando si presentò in casa nostra ad offrirsi come serva.
S'era messe le scarpe per la solennità della circostanza, ma, appena vide il pavimento lucido del nostro gabinetto, rimase sbigottita e si curvò come per levarsele. Ci volle di molto a persuaderla d'entrare calzata com'era.

Il tramonto d'un ideale

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Non c'era anima viva in tutto il territorio di Fontanetto e nei dintorni, che non conoscesse il Dottorino. Erano vent'anni che lo chiamavano così, dacché era giunto in paese col titolo di medico-condotto.
Allora era un giovanotto sulla trentina, galante, allegro, compagnevole. Per distinguerlo dal suo predecessore, avevano affibbiato al nuovo venuto il nomignolo di Dottorino; anche un po' per vezzeggiativo; era tanto simpatico! Ed il nomignolo gli era rimasto sempre, malgrado gli anni ed i mutamenti avvenuti nella sua persona, che protestava tutta quanta contro quel diminutivo.

In risaia

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C'era un cascinale tra Novara e Trecate, con un tenimento annesso coltivato ad orto.
Ci si giungeva per un viale senza alberi costeggiato da una siepe viva di robinie, che metteva nel cortile. In fondo al cortile c'era la casa; dietro la casa si stendeva l'orto.
A destra di chi entrava nel cortile passava una fonte, un canale scoperto, che serviva ad irrigare il terreno, a lavare erbaggi e panni, a far diguazzare le oche.

La cartella n. 4

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Capo d'anno

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Dal trentuno dicembre al primo gennaio, non c'è che quel tempo inafferrabile, d'una brevità infinitesimale, che corre tra l'ultimo minuto secondo della dodicesima ora, al primo minuto secondo della prima; — il passaggio identico di ciascun giorno dell'anno al suo domani; un attimo, una pulsazione, nulla.

Chi lascia la via vecchia per la nova

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Un giorno ricevetti una lettera d'una giovinettina, la quale, trovandosi a far parte d'una famiglia numerosa e ristretta di mezzi, aveva concepita l'idea di studiare da telegrafista.

I morti parlano

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Questo racconto fu pubblicato alcuni mesi sono nel Fanfulla. Per non toglierci nulla della sua verità, lo ristampo colla lettera che lo accompagnava al direttore del giornale.

Al Direttore del «FANFULLA» Roma.
Milano, 29 giugno 1879

Caro signor direttore,
Le mando due lettere che ho ricevute dall'America a circa un anno di distanza l'una dall'altra. La seconda è un seguito affatto impreveduto della prima; ed entrambe riusciranno certo più interessanti ai lettori del suo Fanfulla, che non sarebbe riuscita quella tale mia novella che vado promettendo da tanto tempo e non scrivo mai.

Riccardo Cuor di Leone

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Riescivo bene nella composizione, ed i miei compagni del collegio militare erano convinti che sarei diventato un grande scrittore.
Io però della poesia amavo sopra tutto quella epica, e la mia ambizione era d'essere un eroe. Tutte le manifestazioni della forza fisica mi entusiasmavano.

Storia di una Viola

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Erano parecchi mesi che stavo sul lago di Como, passando il giorno a ciel sereno fra i semplici piaceri della villeggiatura, e la sera ad ascoltare della buona musica. E quelle armonie belle dell'arte, unite alle armonie della natura, avevano per me tale incanto, che non pensavo più a scrivere; o, se ci pensavo un momento, mi ravvedevo subito, perché m'accorgevo che le mie parole messe in fila sopra la carta, erano una povera cosa al confronto di quella meraviglia di lago e di monti; e le mie rime appaiate avevano un misero suono al confronto di quelle musiche melodiose.

Una piccola vendetta

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Nel salotto della contessa Ipsilonne era rimasta una sola visitatrice, quando entrò la signora Icchese tutta accesa in volto.
— Così tardi? — disse la contessa — Non ti aspettavo più.
— Sta zitta; non contavo di venire prima di pranzo, perché ti ho destinata tutta la sera. Ma sai, al solito; ho dovuto salire per forza.

La gente per bene

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In tutte le leggi umane, ad ogni diritto fa riscontro un dovere. Ma il bimbo, piccino, inconsapevole, fragile come il vetro, ed imperioso come un sultano, fa eccezione alla legge generale.
Per lui tutto è diritto, nulla è dovere.
Gli inglesi, più serî, più freddi di noi, malgrado le loro esclamazioni continue sulla famiglia, sull'Home, passano metà dell'anno girovagando in paesi stranieri, e pel poco tempo che rimangono at home, hanno provato il bisogno di inventare la nursery, una camera a parte, dove relegano i bambini colle nutrici e le bambinaie.

Prima morire

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Signora.

Nel muro di contro al suo gabinetto da bagno, fra i rami della glicina, c'è una finestra; e non appartiene ad un solaio, ma ad una camera abitata.
Perdoni, la prego, se oso scriverle senza avere il bene di conoscerla; ma, in coscienza, mi credo obbligato di avvertirla.

UN VICINO DI CASA.

Senz'amore

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Il pollaiolo fece entrare il cuoco di casa Trestelle nella retrobottega, a vedere il suo nuovo apparecchio per l'ingrassamento meccanico dei volatili. Lo aveva fatto venire da Parigi; una riduzione di quello inventato da Odile Martin; costava cinquecento lire. Era una grande stìa, o piuttosto un piccolo carcere cellulare di forma cilindrica. I polli avevano una cella per ciascuno; erano incatenati pei piedi al fondo; non si potevano muovere, né vedevano nulla a destra né a manca. Udivano gli altri prigionieri gorgogliare qualche cocò-cocò, o mandare una specie di rantolo; e sporgevano il capo curiosamente dal vano dinanzi della stìa; ma non vedevano che la penombra vuota della stanzaccia, che era quasi una cantina, perché si dovevano scendere parecchi scalini per arrivarci, ed era debolmente rischiarata da due fori aperti nell'alto della parete.

Serate d'inverno

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Teste alate

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Nell'autunno del 1869 mi trovavo a villeggiare ad Intra sul lago Maggiore.
In una gita ad Arona, fra le solite figure straniere che sembrano darsi convegno da tutti i paesi d'Europa sul ponte di quel battello a vapore, avevo incontrato un giovinotto lombardo, col quale avevo stretta relazione.

La prima disgrazia

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M'era caduta addosso quasi colla vita, la mia prima disgrazia, e da quel giorno fummo inseparabili, immedesimati l'uno coll'altra; io ero essa ed essa era me; mi chiamavo Eustacchio.
Eppure passarono degli anni assai, prima che m'accorgessi che quella era una disgrazia.

Impara l'arte e mettila da parte

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Odda aveva ventotto anni. Era orfana e senza marito. Abitava sola una sua villa ad Ameno sul lago d'Orta. Sola, coi suoi pennelli che sapeva adoperare maestrevolmente, colle massime del suo babbo, e con un'illusione tutta sua.

Fiore d'arancio

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Da quanto più lontano risalgono le mie memorie, mi ricordo di aver aperta la corolla alla scossa di una brezza mattinale, e d'essermi trovato ad un'altezza straordinaria. Ero proprio sulla punta d'un ramo che si slanciava verso il cielo, e vedevo il terreno del giardino, al di sotto, molto al di sotto di me.

In provincia

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l nonno era stato farmacista in una piccola città della Lombardia. Sua figlia, il cui marito era succeduto a lui nell'esercizio della sua professione, come egli stesso tanti anni innanzi era succeduto al suo babbo, sua figlia aveva obbedito fedelmente al precetto delle sacre scritture, che dice alla sposa: «Sarai feconda come una vite... senza crittogama».

Un velo bianco

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La vidi la prima volta nella Galleria Subalpina dai signori Baratti e Milano. Ero entrato per pigliare una soda water, che mi aiutasse a digerire la colazione, e mi desse appetito pel pranzo. Ero già a questi termini.
Lei era con un'altra signora, ed io non osavo guardarla in viso, per non mostrarmi indiscreto. Stavo voltato verso lo specchio, e la vedevo in effigie. Che effigie, signori pittori! Che effigie! Se loro fossero mai riusciti a farne una simile!

Tempesta e bonaccia: romanzo senza eroi

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I.

AVV. MASSICO GUISCARDI
Milano, Piazza del Duomo, N. 10.

II.

I LETTORI
In hac lacrymarum valle.

III.

Ed ora, signori lettori, che ci siamo reciprocamente presentati scambiandoci le carte da visita, come si usa tra le persone ammodo quando non hanno la fortuna di potersi vedere, tiro via colla mia storia.
Non vanto illustri avi, né sono figlio di paltonieri. Appartengo all'umile classe dei borghesi. Non sono né ricco né povero. Ho trent'anni.

Un matrimonio in provincia

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È difficile immaginare una gioventú piú monotona, piú squallida, piú destituita d'ogni gioia della mia. Ripensandoci, dopo tanti e tanti anni, risento ancora l'immensa uggia di quella calma morta che durava, durava inalterabile, tutto il lungo periodo di tempo, da cui erano separati i pochissimi avvenimenti della nostra famiglia.
Non conobbi mia madre, che morí nel primo anno della mia vita. La famiglia si componeva del babbo, notaio Pietro Dellara; d'una vecchia zia di lui, una zitellona piccola, secca come un'aringa, che dormiva in cucina dove aveva messo un paravento per nascondere il letto, e passava la vita al buio dietro quel paravento; di mia sorella maggiore Caterina, che si chiamava Titina; e di me, che avevo ereditato dal mio compare il nome infelice di Gaudenzia, ridotto, per uso di famiglia, al diminutivo ridicolo di Denza.

Bibliografia

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