Bruno Bongiovanni

storico italiano (1947-)
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Bruno Bongiovanni (1947 – vivente), storico italiano.

  • [Sui Protocolli dei Savi di Sion] Essi racchiudevano, infatti, proprio quel paradigma cospirazionista, e antiintellettuale, che dai tempi dell'abate Barruel e di Bonald costituisce la forma mentis stessa della destra controrivoluzionaria ed in genere di quanti temono l'incidere geometrico del tempo storico e dei mutamenti strutturali del mondo moderno. Non solo Hitler e Preziosi, e troppi altri razzisti d'estrema destra tra le due guerre mondiali, furono così sedotti dalla teoria del complotto ebraico, che azzerava la scena della storia per enfatizzare i fantasmi che dietro le quinte tutto muovevano, ma anche l'industriale Henry Ford e diversi altri personaggi traumatizzati dal secolo così brutalmente iniziato nel 1914. Pochi lo sanno. Ma ancora nel 1974 un sorpresissimo e imbarazzato Aldo Moro, in visita nell'Arabia Saudita, si vide offrire in dono dal re Feisal un piccolo e maledetto libriccino. Erano i «Protocolli dei Savi di Sion».[1]

Storia della guerra fredda

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  • Il 1917 era il prodotto di tre rivoluzioni (l'occidentalista-liberale di febbraio, la proletaria dei Soviet e delle città industriali, la contadina delle immense campagne, nessuna delle quali effettuata dai bolscevíchi, tutte e tre assecondate e poi affossate dai bolscevichi), ma non era riuscito a innescare la rivoluzione socialista internazionale, generando anzi la reazione internazionale e conservando, quasi per intera, l'eredità imperiale e territoriale dello zarismo. La qual cosa fu in seguito tra i fattori che costrinsero l'URSS a una politica estera dispendiosissima, sempre sproporzionata rispetto alle capacità economiche e produttive interne, com'era stata già quella zarista, ma in misura ancora maggiore. (p. 6)
  • Ma, certo, il sistema tendenzialmente bipolare del 1945 fu, pur nel contrasto tra i due, e solo due (a lungo, ma mai in modo esclusivo), centri di potere, assai più simile a quello programmaticamente unipolare di Vienna che a quello necessariamente multipolare di Versailles. Fu infatti nel complesso, con le dovute e colossali differenze tra i due blocchi, autoritario, insofferente nei confronti dei soprassalti indipendentístici o nazionali, disponibile all'intervento diretto o indiretto – si pensi alla politica lei congressi della Santa Alleanza – là dove vi erano aree li disobbedienza reale o potenziale, disponibile infine a fare dell'ideologia un potente mezzo di confronto. Eppure, come Vienna, e a differenza di Versailles, nonostante i conflitti armati nelle aree periferiche del pianeta (dovuti essenzialmente all'inserirsi nel sistema del grandioso processo della decolonizzazione), ebbe, dal punto di vista del mantenimento della pace, una tenuta tutto sommato buona. Nei due campi, e nelle metropoli, del pianeta, vi fu infatti un assetto internazionale che si può definire «pax armata sovietico-americana dei quarantacinque anni» (1946-1991), succeduta appunto alla seconda guerra dei trent'anni (1914-1945). (p. 13)
  • Dopo la fine della guerra fredda, la guerra fredda stessa, gran teatro endoconflittuale di un mondo scomparso, è diventata a sua volta ideologia; essa si è presentata come il fioco, e tuttavia al momento incancellabile, baluginare di quelle stelle ormai morte, che pure continuano a mandarci la loro luce, una luce vera e insieme, per quel che riguarda la sua fonte, ingannevole. E ciò si è verificato, come postumo contraccolpo appunto «ideologico», proprio in virtù di un unico denominatore, vale a dire in virtù dell'interpretazione del quarantacinquennio in questione come esclusivo, atletico e intrepido contrapporsi delle superpotenze: una contrapposizione senza soluzione di continuità, e senza un attimo di respiro. Il fenomeno fu subito evidente. Vennero infatti pubblicati, sin dall'inizio degli anni '90, articoli e libri che con il termine «guerra fredda» coprivano in modo totalizzante tutto l'arco di tempo che si dipartiva dal maggio del 1945 (capitolazione di Berlino) e arrivava all'agosto 1991 (fallito golpe «sovietico» nell'URSS di fatto già implosa). (p. 21)
  • È stato vero piuttosto il contrario: il bolscevismo stalinizzato, in crisi nei tardi anni '30, è uscito mondializzato e potente dalla seconda guerra mondiale; e ciò è avvenuto in conseguenza della risposta, non psicologica e ideologica, ma militare e materiale, all'aggressione hitleriana del 1941, un'aggressione seguita peraltro a un'alleanza. (p. 40)
  • Nel lungo periodo della pax armata sovietico-americana, l'URSS, sino al 1989, nell'area centro-est-sud-europea, in modo certo imperfetto – si pensi ai Balcani riottosi, e cioè alla Jugoslavia, all'Albania, ma anche alla Romania –, e giovandosi di un consenso non sempre del tutto inesistente, ma certo tutt'altro che solido – si pensi a Berlino nel 1953, a Budapest nel 1956, a Praga nel 1968, alla Polonia del 1956, del 1970, del 1980, e oltre –, ha svolto un ruolo di contenimento e di organizzazione dello spazio, percorso nei secoli da faide turbolente e da appetiti contrapposti, non dissimile da quello svolto in passato dagli imperi di Antico Regime crollati nel 1918. (p. 41)
  • Sin dalle prime riunioni, che si tennero a Londra nel gennaio del 1946, l'Assemblea generale e il Consiglio di Sicurezza, più che efficaci strumenti di risoluzione operativa e di disinnesco dei molteplici conflitti, si rivelarono invece una cassa di risonanza, un mezzo di esplicitazione, e a suo modo di razionalizzazione «discorsiva» e «argomentativi», dei conflitti stessi. Questo fatto, benché i risultati non fossero all'inizio rilevanti sul piano pratico, ebbe un significato estremamente positivo. Gli Arcana Imperii vennero, infatti, progressivamente meno. Discutere con animosità in pubblico i conflitti fu del resto certo un modo di surriscaldarli, ma anche di esibirli, di sottrarli in parte alla diplomazia segreta, e di renderli, per quel che era possibile, trasparenti all'opinione pubblica. (pp. 45 sg.)
  • Il Manifest Destiny degli Stati Uniti, d'ora in poi, avrà tuttavia a che fare con il ruolo di superpotenza planetaria. La dottrina Monroe, a ben guardare, nella sua versione primigenia, si stava infatti rivelando esaurita. La dottrina Truman la stava sostituendo. La dottrina Truman, tuttavia, poteva anche essere considerata una trasformazione semimondializzata e obbligatoriamente imperiale della dottrina Monroe stessa. In luogo dell'«America agli americani», il principio guida, davanti all'assolutizzarsi autarchico dello spazio sovietico, poteva infatti ora essere «l'Occidente agli occidentali». E al centro dell'Occidente si situava, e non poteva non situarsi, la superpotenza americana. (p. 52)
  • L'URSS, nella dispendiosa guerra fredda di movimento, fino al Natale del 1979 (invasione dell'Afghanistan), trovò cioè sempre soggetti che, per la natura stessa della loro battaglia, combattevano, in massa, e in prima persona, la battaglia anticolonialistica e nazionalistica. Gli USA, per contrastare l'indiretto avanzamento dell'URSS, dovettero invece esporsi in modo visibile e diretto. Il fardello dell'uomo bianco, incarnatosi nel colonialismo, fu, tra i peccati originali dell'Occidente, quello che, nella sua lunghissima ed estenuante fase terminale, contribuì a rafforzare e consolidare l'URSS, una potenza, altrimenti, già giunta nel 1945 (e formalmente nel 1949), dal punto di vista strutturale-economico e territoriale-militare, al limite estremo delle proprie possibilità espansive. E con l'URSS l'agonia del colonialismo, dopo quella del fascismo, contribuì a potenziare il cosiddetto «comunismo». La prima (l'URSS) e il secondo (il «comunismo») cominceranno a declinare, e poi, in maniera straordinariamente precipitosa, a scardinarsi, per ragioni, come vedremo, senza dubbio molteplici. Tra queste certamente ci fu anche, e non tra le minori – nella seconda metà degli anni '70 –, l'esaurirsi «territoriale» e «meccanico» del processo della decolonizzazione. (p. 82)
  • Era, in effetti, entrato in azione quel fenomeno che alcuni storici hanno ritenuto di definire la «legge di Tocqueville»: tutte le volte, infatti, che un potere autoritario-dispotico e comunque arcaico (monarchia assoluta e Ancien Régime nel 1789), o anche totalitario, ma sarebbe meglio dire «imperfettamente totalitario» (fascismo mussoliniano nella catastrofe politico-militare del 1943), o «post-totalitario» (Chruščëv, nel 1956, e Gorbačëv, nel 1985-1989), cerca, in una situazione ritenuta difficile (altrimenti nulla verrebbe toccato), di mutare direzione e di attuare trasformazioni e riforme, spalanca attese e speranze che si rovesciano in una eterogenesi dei fini; proprio le attese e le speranze finiscono non già per rafforzare (se si esclude un momento liminare, come nella prima metà del 1956, o gli anni 1986-1987), ma per minacciare (1956), o addirittura demolire (1989-1991), l'impalcatura politica esistente. Quanto al totalitarismo, considerato nella sua fase «perfetta», disperata e tragica, l'unica esperienza che si ha del suo crollo (Germania nazionalsocialista, 1945) dimostra che esso può avvenire non assecondando un tentativo di autoriforma, ma in concomitanza con la guerra totale e con un parallelo processo di inarrestabile autodistruzione, alla guerra totale strettamente connesso. (p. 96)
  • [...] la Cina, un paese «comunista» nella forma e in fase di rapidissima espansione mercantile e di fatto capitalistica: un paese, oltre tutto, in cui la decolonizzazione non è stata un processo interno al comunismo, come avevano pensato, gli uni contro gli altri armati, comunisti e anticomunisti, ma un paese in cui, al contrario, il comunismo è stato un processo interno alla decolonizzazione e a una lunghissima, quasi secolare, talvolta confusa e «anarchica», e a più riprese estremamente autoritaria, rivoluzione repubblicana e nazionale (1911-1997). Pare cioè di poter affermare che in Cina, a differenza che nella poi disintegratasi Unione Sovietica, ciò che è stato definito appunto «comunismo» sia sempre stato, in forme sin dall'inizio peculiari, non un fine, ma un mezzo. (p. 107)
  • Né la paura della bomba sembrava poter turbare i sonni della giovane generazione. Quest'ultima, per nulla sedotta da Mosca, ma talvolta disponibile a lasciarsi ipnotizzare dalla mitizzatissima e ideologicamente fantasticata rivoluzione culturale di Pechino (un processo di lotta politica interna gestito con atroci metodi squadristici e oscurantistici), aveva creduto di poter individuare opportunità positive nell'impossibilità, o quanto meno nella realistica improbabilità, dell'olocausto nucleare. Ci si poteva cioè muovere, e cercare di mettere a frutto, di socializzare, lo straordinario sviluppo economico e culturale dei due decenni precedenti, senza rischiare di fare esplodere il mondo. La guerra fredda, da situazione di stallo, poteva cioè anche diventare, nel ribollire delle nuove mentalità collettive, occasione e stimolo di movimento come era avvenuto e stava avvenendo nell'ambito del poderoso processo della decolonizzazione. (p. 126)
  • A Helsinki, poi, l'URSS aveva di fatto ottenuto, con il consenso degli Stati occidentali (nessuno escluso), tutto ciò per cui la guerra fredda era iniziata: l'egemonia totale e indiscussa, oltre che da tutti riconosciuta, sull'Europa dell'Est. Eppure, la guerra fredda, nelle sue forme «classiche» (1946-1953), e «movimentistiche» (1954-1975), era stata probabilmente l'unico ambiente in cui l'URSS imperiale del dopoguerra, una creatura abnorme rispetto alla propria base produttiva e amministrativa di partenza, poteva vivere e sopravvivere. Vincendola, o dando l'impressione di averla vinta, l'URSS aveva perduto se stessa e stava per abra finita, così almeno si pensava, e così verosimilmente era, appunto la guerra fredda (ma non certo la divisione in blocchi e il confronto Est-Ovest). [...] Eventi di enorme portata politica e geopolitica stavano per accadere, in quel dopo-guerra fredda che si manifestò come reale e ancor più apparente ripresa della guerra fredda (1979-1985), e come reale e ancor più apparente ripresa della distensione (1985-1989).
  • Le rivoluzioni pacifiche del 1989 nell'Europa centro-orientale, rivoluzioni che portarono non già alla fine della guerra fredda, se non nel senso generico del termine, giacché le guerre fredde erano già finite nel 1953 e nel 1975, condussero tuttavia alla fine di quei blocchi che alla guerra fredda erano stati consustanziali. L'URSS subì allora, con oltre settant'anni di ritardo, una sorta di Versailles «etno-nazionale» che demolì l'ultimo impero sopravvissuto alla prima guerra mondiale, un impero che, per ben due volte nel secolo (nel 1918-1921 e nel 1942-1945), aveva dimostrato straordinarie, e a priori impensabili, capacità di resurrezione. Il referto di morte del comunismo e del suo apparente universalismo fu dunque notarilmente firmato, nell'agonia finale, da quello che nella cosiddetta «guerra civile europea» era sembrato essere il suo avversario principale, vale a dire il nazionalismo particolaristico, o meglio, entro i confini dell'URSS, la pletora dei nazionalismi grandi e piccoli emersi dopo secoli di dominazione imperiale autocratico-zarista e sovietico-comunista. (pp. 146 sg.)
  • La guerra fredda «classica», e i suoi continui e periodici revival (con tanto di false partenze), lungo tutti i quarantacinque anni della pax armata sovietico-americana, da questo punto di vista, ha fornito una fortissima spinta – la spinta finale – al processo di globalizzazione politica; esso, a sua volta, ha reso possibile la globalizzazione economica, salvo poi essere messo in pericolo proprio dalla globalizzazione economica stessa, portatrice ovunque di tentazioni localistiche e talvolta secessionistiche. (p. 148)

Bibliografia

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  • Bruno Bongiovanni, Storia della guerra fredda, Laterza, Roma-Bari, 2005. ISBN 8842063436

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