Maurizio Maggiani: differenze tra le versioni

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*A un certo punto della mia vita non sono stato più quello che andava a [[Genova]], ma che era di Genova. [...] Essere parte della sua propensione al declino senza fine, e essere parte della sua inesausta genetica resistente. Parte della sua riservata probità e delle sue smanie di conservazione, del suo conformismo in gramaglia e della follia dei suoi pensieri difformi. Parte di un immenso organismo vivente che non finirà mai, perché non esistono volontà tanto potenti e persistenti da annientare le sue ragioni soggiacenti.<br>Parte di una "superbità" che non è, non solo e non soprattutto, spoglia di fasti ormai perduti o mai esistiti, ma coscienza di una ragione di essere così come ha scelto di essere per propria volontà e non per altrui arbitrio. Non è così di tutte le città, non è così di tutte le comunità, non nel modo così interiore che è per Genova, città luterana in un paese controriformato.<ref name=belloperdersi>Da ''Come è stato bello perdersi a Genova'', ''Il Secolo XIX'', 16 settembre 2012, p. 44</ref>
*Ecco, c'è stato là, tra la montagna Apua e quel poco di piana di qua dai canneti versigliani, un paese di contadini senza terra, di manovali e cavatori, un paese da niente di gente da niente, in mezzo a quel paese stava una casa, una casa da niente e dentro quella casa viveva una famiglia, una famiglia da niente ma grande, riempivano quella casa, in mirabile equilibrio di vuoti e di pieni, quello che rimaneva di quattro generazioni di miserabili contadini, e manovali e cavatori, si era nel mezzo degli anni '50, quella casa era abitata da superstiti, scampati alla disgrazia e alla tragedia della Guerra, sopravvissuti alla distruzione, la casa stessa era un superstite, sopra le sue fondamenta passava il fronte della Linea Gotica.<ref>Da [https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2018/12/23/news/maggiani_natale-214986231/#audio-target ''Storia vera di un Natale da niente''], ''Rep.repubblica.it'', 24 dicembre 2018.</ref>
*E poi sono vissuti felici e contenti, tanto da fare una figlia e poi un’altra, e l’altra è la signora Teresa che non ha mai conosciuto sua madre e quello che sa di lei sono le fotografie e i racconti. Che è quello che so io e che ora sapete voi. E tutti quanti sappiamo da quelle fotografie un’altra cosa, sappiamo che persino nella più vigilata fortezza dell’inumanità, nel più schifoso tabernacolo del sadismo, nel tempo dove niente di buono è ammissibile e plausibile, ecco che anche lì non tutto è perfettamente e eternamente predisposto e stabilito. Questo nel caso che al tempo presente dovessimo sentirci deprimevolmente impotenti.<ref>Da ''Storia di una foto L’amore partigiano nel campo nazista'', ''la Repubblica'', 24 agosto 2019, pp. 36-37.</ref>
*Gli [[angeli del fango]]. Un'immagine di irresistibile fascino evocativo, un ossimoro di straordinaria bellezza e pregnanza. Così somiglianti a noi da poterli scambiare nella penombra delle nostre anime confuse a dei figli, a dei fratelli, a dei vicini di casa, eppure così diversi da noi, candidi e puri nella marea nera dell'impurità.<ref>Da ''Angeli'', op. cit., p. 23</ref>
*Ho scelto di vivere a [[Genova]] da adulto, in un singolare momento di grande libertà e privilegio in cui avrei potuto vivere ovunque nel mondo. Ho scelto questa città non per ragioni di lavoro o familiari o affettive, come capita a moltissime persone, ma per puro piacere, considerando la possibilità di sceglierla come il più grato dei privilegi di cui la fortuna mi aveva favorito. Ho scelto quella che è sempre stata ai miei occhi, più di qualunque altra città del mondo che mi è capitato di conoscere, la città della meraviglia e della bellezza. Dello stupore che non finisce mai. E della complicazione: la città dove non basta mai un solo sguardo, una sola idea, un solo concetto, una sola parola, per contenerla tutta, descriverla senza banalizzarla, decidere se volerle bene o volerle male.<ref name=belloperdersi/>