Sofia Stefan
rugbista a 15 italiana
Sofia Stefan (1992 – vivente), rugbista a 15 italiana.
Citazioni di Sofia Stefan
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Intervista di Marco Pastonesi, ilfoglio.it, 23 marzo 2024.
- Da bambina il nuoto, a livello agonistico. Da ragazzina l'atletica. Desideravo il calcio. Ma c'erano tanti pregiudizi. E non ne ebbi mai la possibilità. Finché capitai su un campo da rugby. Me ne innamorai immediatamente. Il mio primo sport di squadra. Che non cambierei con nient'altro al mondo. [...] Lo sport che mi piace di più, che sento di più, che voglio di più, che amo di più.
- Il rugby delle donne è identico al rugby degli uomini, anche se in contesti ancora diversi. Ma i motivi per cui gli uomini e le donne giocano a rugby sono gli stessi, uguali, precisi. Lo so perché ci vivo dentro: da giocatrice con le donne e da preparatrice con gli uomini.
- [«Rugby: 15 contro 15?»] Ma anche uno contro uno. Ed è questo il suo bello: l'individualità nella collettività e la collettività nell'individualità, cioè tutti per uno e uno per tutti.
- [«Mediano di mischia: che cosa significa?»] Trovarsi sempre, il più possibile, dove si trova la palla; far giocare bene le compagne; insomma, sistemare – mettere a sistema – al meglio le cose per tutti.
Mauro Mondello, ultimouomo.com, 19 aprile 2024.
- Si tratta anche di una questione culturale, in Italia si fa fatica ad accettare il professionismo nello sport femminile, e non stiamo parlando solo di soldi, quanto della creazione di un contesto in cui le ragazze possano vivere di rugby, possano comportarsi come atlete a 360 gradi. Noi abbiamo fatto dei grandi passi avanti, il movimento è cresciuto, a ogni livello, ma quella del rugby rimane comunque una strada che dobbiamo percorrere sempre in parallelo a un'altra professione, dunque non si riesce ad essere concentrate al 100% sul rugby. Nel rugby maschile non c'è la stessa problematica. Gli uomini ad alto livello non hanno contratti milionari, ma possono comunque concentrarsi in maniera più o meno esclusiva sul campo. Devono sicuramente costruirsi un futuro che guardi a fine carriera, ma possono farlo con meno angoscia, con meno pressione: in fondo non gli cambia molto se, ad esempio, invece di laurearsi in quattro anni ce ne mettono sei o sette. Per una ragazza che deve studiare, pagarsi gli studi, giocare ad alto livello, c'è una pressione molto più forte.
- Ci sono sempre meno differenze tra rugby maschile e femminile. Il modo di giocare si somiglia molto, le competenze tecniche sono simili, l'utilizzo delle forme del gioco è equivalente. Cambiano, è giusto sottolinearlo, la velocità, la forza degli impatti, la lunghezza dei calci o dei passaggi, ma è una differenza genetica, come in tutti gli sport. Oggi il movimento è cresciuto, le competenze sono molto più alte e questo ha portato a un sostanziale parità di valore tecnico con il rugby maschile. E poi [...] solo nel momento in cui smetteremo di parlare di sport maschile e sport femminile avremo finalmente superato gli stereotipi. Il rugby è rugby, si sente spesso dire che bisogna "valorizzare il rugby femminile", come fosse uno sport diverso: è lo stesso sport, è il nostro sport, senza differenze di genere.
- Una delle cose per cui mi batto è che le ragazze, quando smettono di giocare, abbiano la possibilità di restare nell'ambiente del rugby. Sono ancora troppo poche le donne parte degli staff tecnici. I giocatori di serie A, B, C, spesso quando smettono di giocare rimangono coinvolti, a qualche livello, nel rugby: per le donne capita raramente. Anche in questo caso forse c'è una questione culturale, perché per pensare di entrare in uno staff bisogna acquisire delle competenze tecniche, fare i corsi allenatore, fare i corsi da preparatore, e le ragazze fanno più fatica. Su questo siamo ancora molto indietro, molto più indietro che sulla parte sportiva. [...] E invece se una ragazza ha il desiderio di entrare in uno staff di rugby, deve poterlo fare, soprattutto deve poter immaginare di poterlo fare, di avere le stesse possibilità, e non percepirlo come un obiettivo impossibile, difficilissimo da raggiungere. Dobbiamo poter immaginare di vedere, un giorno non troppo lontano, una donna alla guida della Nazionale maschile di rugby, e non perché è una donna, ma perché è più brava.
- [...] è il mio ruolo, mediano di mischia. Giochi per far giocare gli altri il meglio possibile e poi c'è la sfida interna tua di saper cogliere le occasioni, di rimanere sempre all'erta per trovare il buco sul quale ripartire da un punto d'incontro. Si fa un sacco di fatica, perché si corre tantissimo, ma per me non c'è soddisfazione più grande di vedere che il flusso del gioco è collettivo, che la squadra sta girando con il ritmo giusto. A volte mi è venuta la curiosità di giocare in mischia, ma solo per capire cosa si prova: non li invidio per niente.
- Io sono stata capitana in tutti club in cui ho giocato e ora mi sta succedendo un po' in Nazionale. Cerco di guidare il gruppo condividendo la leadership, rendendola collettiva un po' alla volta: è molto bello perché aumenta il riconoscimento degli altri nel tuo ruolo di leader. All'inizio [...] si vuol cercare di gestire tutto, poi capisci che devi essere un riferimento naturale, e non perché fai cento cose tutte insieme: così costruisci la tua credibilità dentro la squadra. Poi sai, io vengo da sport individuali, ho iniziato a giocare tardi, sono una persona un po' timida, introversa, e nel rugby ho conosciuto un lato di me che ama il gruppo, la condivisione, che sa essere estroverso, parte integrante e attiva di un gruppo di persone: mi ha cambiato la vita.
- Io sono nata e ho vissuto gran parte della mia vita nella zona d'Italia che vive il rugby in maniera più forte, il Veneto. È vero che c'è un distacco forte, a livello nazionale, fra Nord e Sud, rispetto all'interesse e ai risultati nel rugby. Ma, di nuovo, penso sia anche una questione culturale. Sviluppare uno sport che in Italia fa fatica a essere visto come "uguale" per i due generi, in aree del paese dove la differenza di genere è ancora più marcata che nel resto del territorio, è ancora più difficile. Si deve quindi sviluppare un processo organico, bisogna avere il coraggio di farlo partire e noi dobbiamo metterci del nostro, come atlete. Mi ricordo una volta di una ragazzina quattordicenne che venne a parlarmi dopo una partita con la Nazionale, a Senigallia, e mi disse che da cinque anni giocava, ma che era l'unica ragazza: ci vuole grande forza, grande coraggio, per continuare, e in tante invece mollano.
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