Christian Jacq

scrittore ed egittologo francese
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Christian Jacq (1947 — vivente), scrittore ed egittologo francese. Ha usato anche gli pseudonimi J. B. Livingstone, Christopher Carter e Célestin Valois.

Christian Jacq al Salone del libro di Parigi del 2013

Incipit di alcune opere

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Il romanzo di Kheops

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L'inferno del giudice

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Una notte senza luna avvolgeva la grande piramide con un mantello di tenebre. Furtiva, una volpe del deserto si intrufolò nel cimitero dei nobili che, nell'aldilà, continuavano a venerare il faraone. Guardiani vegliavano sul prestigioso monumento nel quale solo Ramses il Grande entrava una volta all'anno per rendere omaggio a Cheope, suo glorioso antenato; correva voce che la mummia del padre della più alta piramide fosse protetta da un sarcofago d'oro, e lo stesso Cheope ricoperto di incredibili ricchezze. Ma chi avrebbe osato attentare a un tesoro così ben difeso? Nessuno, eccezion fatta per il sovrano regnante, poteva varcare la soglia di pietra e orizzontarsi nel labirinto del gigantesco monumento. Il reparto di élite destinato alla sua protezione tendeva l'arco senza preventiva intimazione; parecchie frecce avrebbero trapassato l'imprudente o il curioso.
Il regno di Ramses era felice; ricco e pacifico, l'Egitto splendeva sul mondo. Il faraone appariva quale messaggero della luce, i cortigiani lo servivano con rispetto, il popolo glorificava il suo nome.
I cinque congiurati uscirono insieme da una capanna di operai dove si erano tenuti nascosti durante il giorno; cento volte avevano ripetuto il loro piano per essere certi di non lasciare nulla al caso. Se avessero avuto successo, sarebbero divenuti, prima o poi, i padroni del paese, al quale avrebbero impresso il loro sigillo.
Vestiti con tuniche di lino grossolano, percorsero il pianoro di Giza, non senza gettare febbrili occhiate alla grande piramide.
Assalire i guardiani sarebbe stata una follia; se altri prima di loro avevano sognato di impadronirsi del tesoro, nessuno vi era mai riuscito.

Il testamento degli dei

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Il caldo era talmente soffocante che solo lo scorpione nero si avventurava nel sabbioso cortile della prigione. A più di duecento chilometri a ovest della città sacra di Karnak, in una zona sperduta tra la valle del Nilo e l'oasi di Kharga, i criminali recidivi scontavano terribili condanne ai lavori forzati. Quando la temperatura lo permetteva, essi venivano impiegati per curare la manutenzione della strada che univa la valle all'oasi, sulla quale, trainate dagli asini, circolavano le carovane cariche di merci.
Il giudice Pazair rivolse, per la seconda volta, la sua richiesta al responsabile del campo, un colosso lesto nel colpire gli indisciplinati.
- Non sopporto il trattamento di favore che mi viene concesso. Voglio lavorare come gli altri prigionieri.
Pazair, la cui giovinezza era svanita sotto il fardello della responsabilità, era snello, assai alto di statura, i capelli castani, la fronte spaziosa, gli occhi verdi striati di marrone, e aveva un portamento distinto che incuteva deferenza.
- Tu sei diverso dagli altri.
- Sono anch'io un prigioniero.
- Sei in isolamento, non sei un condannato. Per quanto mi riguarda, nemmeno esisti. Sul registro non compare né il tuo nome né il tuo numero di identificazione.
- Questo non mi impedisce di spaccare le rocce.
- Torna a sedere.

Il ladro di ombre

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Il tradimento rendeva. Paffuto, rosso in faccia, infiacchito, Iarrot bevve una terza coppa di vino bianco, compiaciuto della propria scelta. Quando era cancelliere del giudice Pazair, lavorava troppo e guadagnava poco. Da quando si era messo al servizio di Bel-Tran, il più accanito nemico del visir, la sua esistenza andava di bene in meglio. In cambio di ogni informazione sulle abitudini di Pazair, riceveva un compenso. Con l'appoggio di Bel-Tran e grazie alla falsa testimonianza di una delle sue guardie, Iarrot sperava di ottenere il divorzio dandone la colpa alla moglie e di tenere con sé la figlia, promettente danzatrice.
In preda a emicrania, l'ex cancelliere si era levato prima dell'alba, quando la notte ancora regnava su Menfi, la capitale economica dell'Egitto sita nel punto in cui il Delta si univa alla valle del Nilo.
La stradina, di solito tanto silenziosa, era piena di sussurri.
Iarrot depose la coppa. Da quando tradiva Pazair, beveva sempre di più, non per il rimorso ma perché poteva finalmente comprarsi ottimi vini e birra di prima qualità. Una sete inestinguibile gli bruciava incessantemente la gola.

Il grande romanzo di Ramses

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Il figlio della luce

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Il toro selvaggio, immobile, fissava il giovane Ramses.
Una bestia mostruosa: zampe grosse come pilastri, lunghe orecchie pendule, una barba dura sulla mandibola inferiore, il mantello bruno e nero. E aveva avvertito la presenza del giovane.
Ramses era affascinato dalle corna del toro, ravvicinate e rigonfie alla base per poi piegarsi all'indietro e quindi volgersi all'insù, sì da formare una sorta di casco concluso da punte acuminate, capaci di squarciare la carne di qualsiasi avversario.
L'adolescente non aveva mai visto un toro tanto enorme.
L'animale apparteneva a una razza temibile, che anche i migliori cacciatori esitavano a sfidare; pacifico nel suo clan, pronto a soccorrere i suoi simili feriti o malati, premuroso nell'educazione dei piccoli, il maschio si trasformava in tremendo guerriero quando se ne turbava la quiete. Infuriato dalla minima provocazione, caricava a velocità stupefacente e non si rabboniva se non dopo aver schiantato l'avversario.
Ramses arretrò d'un passo.
La coda del toro selvaggio frustò l'aria; l'animale scoccò un'occhiata feroce all'intruso che aveva osato avventurarsi nei suoi territori: i pascoli nei pressi di una palude da cui si levavano alte canne. Non lontano, una vacca era intenta a figliare, circondata dalle sue compagne. In quelle solitudini sulle rive del Nilo, il grande maschio regnava sulla mandria e non tollerava nessuna presenza estranea.

La dimora millenaria

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Ramses era solo, attendeva un segno dall'invisibile.
Solo di fronte al deserto, all'immensità di un paesaggio brullo e arido, solo di fronte al proprio destino la cui chiave gli sfuggiva ancora.
A ventitré anni, il principe Ramses era un atleta di un metro e ottanta, dalla splendida chioma bionda, dal volto allungato, e dotato di una muscolatura sottile e potente. La fronte larga e scoperta, l'arco prominente delle folte sopracciglia, gli occhi piccoli e vivaci, il naso lungo e lievemente arcuato, le orecchie rotonde e delicatamente orlate, le labbra alquanto spesse e la mascella forte contribuivano a dare al suo volto un piglio autoritario e seducente.
Così giovane, quanto cammino aveva già percorso! Scriba reale, iniziato ai misteri di Abido e reggente del regno d'Egitto, Sethi lo aveva associato al trono, designando così il figlio cadetto alla sua successione.
Ma Sethi, quel grandissimo faraone, quel sovrano insostituibile che aveva saputo garantire alla sua terra felicità, prosperità e pace, Sethi era morto dopo quindici anni di un regno eccezionale, quindici anni troppo brevi, volati via come un ibis nel crepuscolo di una giornata estiva.
Senza che il figlio se ne accorgesse, Sethi, padre distante, temibile ed esigente, lo aveva a poco a poco formato alla pratica del dovere, imponendogli numerose prove, a partire dall'incontro con un toro selvaggio, signore della potenza. L'adolescente aveva avuto il coraggio di affrontarlo, ma non la capacità di sconfiggerlo; senza l'intervento di Sethi, il mostro avrebbe dilaniato Ramses a colpi di corna. Fu così che si impresse nel suo cuore il primo compito del faraone: proteggere il debole dai forti.
Era il re, e il re solo, che deteneva il segreto della vera potenza; attraverso la magia dell'esperienza, egli lo aveva trasmesso a Ramses, tappa dopo tappa, senza mai svelare il suo piano. Nel corso degli anni, il figlio si era avvicinato al padre, i loro spiriti comunicavano nella medesima fede, nel medesimo slancio. Severo, riservato, Sethi parlava poco; ma aveva offerto a Ramses il privilegio straordinario di alcuni colloqui durante i quali si era adoperato a trasmettergli i rudimenti di re dell'Alto e del Basso Egitto.
Ore luminose, momenti di grazia ormai svaniti nel silenzio della morte.

La battaglia di Qadesh

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Il cavallo di Danio galoppava sulla pista ardente che portava alla Dimora del Leone, una borgata della Siria del Sud fondata dall'illustre Faraone Sethi. Egiziano da parte di padre e siriano da parte materna, Danio aveva fatto proprio l'onorevole mestiere di portalettere e si era specializzato nella consegna di messaggi urgenti. L'amministrazione egiziana gli forniva cavallo, cibo e vestiario; Danio godeva di una dimora da funzionario a Sile, città frontaliera del nordest, e alloggiava gratis nelle stazioni di posta. Insomma, una gran bella vita, continui viaggi e l'incontro con siriane poco scontrose, talvolta desiderose di sposare un funzionario il quale tagliava la corda a grande velocità non appena il legame prendeva una piega troppo seria.
Danio, di cui i genitori avevano scoperto la vera natura grazie all'astrologo del villaggio, non sopportava di restare imprigionato neppure tra le braccia di una spigliata amante. Per lui, nulla contava più dello spazio da divorare e della pista polverosa da percorrere.
Scrupoloso e metodico, il portalettere era considerato un ottimo elemento dai suoi superiori. Fin dall'inizio della sua carriera, non aveva smarrito una sola missiva e spesso aveva superato i limiti dell'orario regolamentare per accontentare un mittente che aveva fretta. Consegnare i messaggi il più presto possibile era il suo sacrosanto impegno.

La regina di Abu Simbel

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Massacratore, il leone di Ramses, lanciò un ruggito che inchiodò per la paura gli egiziani al pari dei rivoltosi. L'enorme belva che il Faraone aveva decorato di una sottile collana d'oro per i buoni e leali servigi resi durante la battaglia di Qadesh contro gli ittiti[1] pesava più di trecento chili. Era lunga quattro metri e aveva una criniera folta e fiammeggiante, rigogliosa al punto da coprirle la zona superiore della testa, le gote, il collo, in parte le spalle e il petto. Il pelo, liscio e corto, era di un bruno chiaro e lucente.
In un raggio di oltre venti chilometri restava traccia della collera di Massacratore, e non c'era chi non comprendesse che era anche quella di Ramses che, dopo la battaglia di Qadesh, era divenuto Ramses il grande.
Ma era proprio reale quella grandezza, dal momento che il faraone d'Egitto, nonostante il suo prestigio e il suo valore, non riusciva imporre la propria legge ai barbari dell'Anatolia?
L'esercito egiziano si era rivelato assai deludente durante lo scontro. I generali, vili o incompetenti, avevano abbandonato Ramses lasciandolo solo di fronte a milioni di avversari sicuri della propria vittoria. Ma il dio Amon, nascosto nella luce, aveva udito la preghiera di suo figlio e conferito al braccio del faraone una forza soprannaturale.
Dopo cinque anni di tempestoso regno, Ramses aveva creuto che la vittoria da lui riportata a Qadesh avrebbe impedito a lungo agli ittiti di rialzare la testa e che per il Medio Oriente si sarebbe aperta un'era di relativa pace.
Si era gravemente sbagliato, lui, il toro possente, l'amato della Regola divina, il protettore dell'Egitto, il Figlio della Luce. Meritava codesti nomi d'incoronazione di fronte alla sedizione che rumoreggiava nei suoi protettorati tradizionali, Canaan e la Siria del Sud? Non soltanto gli ittiti non rinunciavano alla lotta, ma avevano anzi scatenato una vasta offensiva alleandosi con i beduini, saccheggiatori e assassini che da sempre bramavano le ricche terre del Delta.

L'ultimo nemico

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I raggi del sole al tramonto rivestivano d'oro celestiale le facciate dei templi di Pi-Ramses, la capitale che Ramses il grande aveva fatto costruire nel Delta. La città di turchese, così chiamata a causa del colore delle piastrelle verniciate che ornavano la facciata delle dimore, era l'incarnazione della ricchezza, della potenza e della bellezza.
Piacevole vivervi, ma quella sera Serramanna, il gigante sardo, non si godeva né la dolcezza dell'aria né la tenerezza di un cielo che andava tingendosi di rosa. Con in testa un elmo ornato di corna, la spada al fianco, i baffi arricciati, l'ex pirata divenuto il capo della guardia personale di Ramses galoppava, di pessimo umore, verso la villa del principe ittita Uri-Teshup, in domicilio coatto ormai da parecchi anni.
Uri-Teshup, figlio decaduto dell'imperatore della terra di Hatti, Muwattali, nemico giurato di Ramses. Uri-Teshup, che aveva fatto morire suo padre per prenderne il posto, ma si era dimostrato meno astuto di Hattusil, il fratello dell'imperatore: mentre Uri-Teshup si illudeva di avere in pugno il paese, Hattusil si era impadronito del trono costringendo il rivale alla fuga. Una fuga organizzata dal diplomatico Asha, amico d'infanzia di Ramses.
Serramanna sorrise. L'implacabile guerriero anatolico, un fuggiasco! E, colmo dell'ironia, era stato Ramses, l'uomo che Uri-Teshup odiava più di ogni altro al mondo, a concedergli asilo politico in cambio di informazioni sulle truppe ittite e il loro armamento.
Quando con grande sorpresa dei due popoli, nel ventunesimo anno del regno di Ramses, l'Egitto e l'impero di Hatti avevano concluso un trattato di pace e di mutua assistenza in caso di aggressione esterna, Uri-Teshup aveva temuto che fosse arrivata la sua ultima ora. Non sarebbe stato il capro espiatorio per eccellenza, un perfetto dono offerto da Ramses a Hattusil per sugellare la loro intesa? Ma, rispettoso del diritto di asilo, il faraone si era rifiutato di estradare il suo ospite.

Il segreto della pietra di luce

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Verso mezzanotte, guidati dal loro capomastro, nove artigiani uscirono dalle mura della città e presero a inerpicarsi per uno stretto sentiero illuminato dalla luna.
Dalla cima delle colline intorno si vedeva il Luogo della Verità, il villaggio che era stato costruito nel deserto e protetto da mura perché i segreti dei suoi abitanti, i costruttori al servizio del faraone, non trapelassero all'esterno.
Nascosto dietro una roccia sulla vetta, Mehy soffocò un grido di gioia.
Da molti mesi il luogo tenente della divisione carri tentava di raccogliere informazioni sulla confraternita cui era affidato il compito di scavare e decorare le tombe della Valle dei Re e delle Regine.
Ma nessuno sapeva niente, eccetto Ramses il Grande, protettore di quel Luogo della Verità dove i maestri di bottega, gli scalpellini, gli scultori e i pittori erano iniziati alle loro funzioni, così essenziali alla sopravvivenza dello stato. Il villaggio aveva un governo e un tribunale propri, e dipendeva direttamente dal re e dal suo primo ministro, il visir.
In teoria, Mehy avrebbe dovuto preoccuparsi solo della propria carriera militare, che si annunciava brillante; ma come poteva dimenticare di aver domandato di essere ammesso nella confraternita e di essere stato respinto? Un nobile del suo rango non andava trattato con tanto disprezzo.
Indispettito, era entrato nel corpo scelto della divisione carri, dove si era imposto e dove contava di raggiungere presto un alto grado nella gerarchia.
Nel suo cuore, però, aveva cominciato a covare un odio sempre più profondo per quella maledetta comunità di artigiani da cui era stato umiliato e la cui sola esistenza gli impediva di essere pienamente felice.
Così era giunto a una decisione: avrebbe scoperto tutti i segreti del Luogo della Verità per poi sfruttarli a proprio vantaggio. Oppure, se non ci fosse riuscito, avrebbe distrutto quell'oasi tanto inaccessibile e fiera dei suoi privilegi.
Ma per raggiungere il suo obiettivo non doveva commettere errori né destare sospetti. In quegli ultimi giorni, però, era stato assalito da dubbi. E se i Servitori del Luogo della Verità, come venivano ufficialmente definiti, fossero stati solo dei volgari millantatori e i loro presunti poteri null'altro che chimere e illusioni? Se la Valle dei Re, così gelosamente difesa, avesse contenuto al suo interno soltanto i cadaveri dei monarchi congelati nell'immobilità della morte?

Il pericolo incombeva, ossessivo.
Dalla morte di Ramses il Grande, dopo sessantasette anni di regno, il Luogo della Verità viveva nell'angoscia. Situato sulla riva occidentale di Tebe, il villaggio segreto e chiuso degli artigiani, il cui compito più importante era quello di scavare e decorare le tombe dei re e delle regine, si interrogava sulla propria sorte.
Allo scadere dei settanta giorni di mummificazione dell'illustre defunto, quali decisioni avrebbe preso il nuovo faraone, Merenptah, che aveva sessantacinque anni? Figlio di Ramses, aveva fama di uomo autoritario, giusto e severo; ma avrebbe saputo sventare gli inevitabili complotti e liberarsi di coloro che brigavano per occupare il "trono dei vivi" e per impadronirsi delle Due Terre, l'Alto e il Basso Egitto?
Ramses il Grande era stato il generoso protettore del Luog della Verità e della confraternita degli artigiani, che dopendeva direttamente dal re e al suo primo ministro, il visir; aveva un tribunale proprio e beneficiava di un rifornimento quotidiano di derrate. Libero da preoccupazioni materiali, poteva dedicarsi alla sua opera, vitale per la sopravvivenza spirituale del paese.

A una sola cosa miravano i cinque uomini che erano riusciti ad avvicinarsi alla zona proibita: introdursi furtivamente nel Luogo della Verità, il villaggio segreto della riva occidentale di Tebe, forzare le porte del tempio e rubarvi un tesoro di inestimabile valore.
L'uomo che guidava il drappello di ladri sorrise pensando all'enorme ricompensa che lo aspettava: nessuno, nemmeno Sobek, il capo della polizia locale, poteva prevedere tutto, e il rischio, per loro, era ancor meno grande se si considerava che godevano della complicità di un membro della confraternita, la quale si credeva perfettamente al sicuro dietro le proprie alte mura.
Il traditore aveva il cuore in gola.
Approfittando di quel periodo d'incertezza in cui il nuovo sovrano non era stato ancora incoronato, lui e il suo alleato nel mondo esterno avevano deciso di tentare il colpo grosso e di assegnare a una banda di briganti il compito di rubare la Pietra di Luce, sulla quale vegliavano gelosamente gli artigiani incaricati di scavare e decorare le dimore dell'eternità.
Nel giro di qualche ora, il traditore avrebbe abbandonato per sempre il Luogo della Verità, dove aveva vissuto per tanti anni, imparato il mestiere e condiviso con gli altri segreti e momenti esaltanti. Perché, pur possedendo tutte le qualità necessarie, non era stato nominato capo-maestro dai confratelli?
Dopo il primo momento di rabbia aveva cominciato a provare risentimento e desiderio di vendicarsi di quell'assemblea ingrata. E quando il destino gli aveva schiuso davanti una nuova strada, non aveva esitato: portando alla rovina la confraternita sarebbe finalmente divenuto un uomo ricco, avrebbe avuto una bella casa, con un grande giardino e una schiera di servi zelanti da comandare a bacchetta. Avrebbe detto addio alle massacranti giornate di lavoro durante le quali bisognava obbedire al maestro di bottega, e smesso di assolvere compiti ingrati solo a beneficio del faraone. Di lì in avanti, si sarebbe goduto la vita dimenticando l'antico giuramento e tutto il passato.

Il Luogo della Verità, il villaggio segreto degli artigiani incaricati di scavare e decorare le tombe della Valle dei Re, era sopraffatto dall'angoscia. Dopo l'assassinio del maestro di bottega Nefer il Silenzioso, uomini, donne, bambini e persino gli animali domestici come il cane Nero o Bestiaccia, l'oca guardiana, avevano paura del tramonto.
Quando il sole sprofondava nella montagna per iniziare il suo viaggio notturno nel cuore del mondo sotterraneo, tutti gli abitanti del villaggio si rifugiavano nelle loro casette bianche. Di lì a poco un'ombra malefica sarebbe uscita dal sepolcro di Nefer, alla ricerca di una preda.
Un'adolescente le era sfuggita per miracolo, ma nessuno aveva il coraggio di importunare Claire, la donna saggia, chiusa nel proprio dolore e nella disperazione per la morte del marito. Lei e Nefer erano stati iniziati insieme ai misteri della "grande e nobile tomba dei milioni anni a occidente di Tebe", come era ufficialmente chiamata dalla confraternita, ed erano diventati il padre e la madre della piccola comunità, che comprendeva una trentina di artigiani, "quelli che avevano inteso la chiamata", e le loro famiglie.

La regina Libertà

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L'impero delle tenebre

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Immobile da più di mezz'ora, Ahotep vide l'ultima guardia passare davanti alla porta principale del palazzo. Approfittando di quel breve intervallo che precedeva il cambio, la bella ragazza bruna di diciotto anni corse verso un boschetto di tamerici dove rimase nascosta fino al calar del giorno.
Figlia della regina Tetisheri, Ahotep aveva ricevuto un nome particolare che si poteva tradurre in molti modi: "La luna è nella sua pienezza", "La luna è placata" oppure "Guerra e pace", poiché, secondo i saggi, la luna era un dio guerriero che custodiva il segreto della morte e della resurrezione.
La guerra... Non c'era altra soluzione per sbarazzarsi degli invasori hyksos che controllavano il paese, a eccezione di Tebe, la città sacra del dio Amon. Grazie alla sua protezione, il tempio di Karnak e il territorio circostante erano stati risparmiati dai barbari, ma per quanto tempo ancora?
Gli Hyksos erano arrivati dal Delta, quarant'anni prima, più numerosi di uno sciame di cavallette! Asiatici, arabi cananei, siriani, caucasici, minoici, ciprioti, iraniani, anatolici, e molte altre genti, i corpi protetti da corazze. Utilizzavano strane creature a quattro zampe con una grossa testa, più alte e più veloci degli asini, i cavalli. Essi trainavano delle grandi casse montate su ruote che avanzavano a incredibile velocità e avevano permesso agli aggressori di sterminare i soldati del faraone.
Ahotep accusava il povero esercito tebano di essere debole e codardo. Era chiaro che esso non era in grado di misurarsi con le potenti e numerose truppe dell'occupante, dotate di armi nuove e terrificanti; ma l'inazione poteva soltanto condurre all'estinzione!
Quando Apophis, il capo supremo degli Hyksos, si sarebbe deciso a radere al suolo Tebe, i soldati egiziani sarebbero scappati e la popolazione sarebbe stata massacrata, a eccezione delle belle donne - obbligate a soddisfare i piaceri della soldataglia - e dei bambini più robusti, ridotti in schiavitù.

La guerra delle corone

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Seduto alla sinistra di Apophis, imperatore degli Hyksos, il generale della divisione carri non si trovava affatto al suo agio. Eppure godeva di un onore molto ambito: assistere in compagnia del sovrano più potente del mondo alla gara del toro, di cui gli abitanti di Avaris, capitale dell'impero situata nel Delta dell'Egitto, parlavano con timore pur senza sapere esattamente di cosa si trattasse. Dall'alto di una piattaforma, i due uomini dominavano un'area e una costruzione circolare chiamata "il labirinto", da cui nessuno, stando a quello che si raccontava, poteva uscire vivo.
- Mi sembri molto nervoso - osservò Apophis con quella sua voce rauca che gelava il sangue.
- È vero, Maestà... il vostro invito qui, a palazzo... Non so come ringraziarvi - rispose l'ufficiale superiore balbettando e senza osare rivolgere lo sguardo verso l'imperatore, che era di una bruttezza impressionante.
Alto, con il naso pronunciato, le guance molli, il ventre gonfio e le gambe tozze, Apophis si concedeva solo due civetterie: uno scarabeo di ametista montato su un anello d'oro al mignolo della mano sinistra e un amuleto a forma di croce ansata al collo, gli dava il diritto di vita e di morte sui suoi sudditi. Apophis, "amato dal dio Seth", aveva proclamato se stesso faraone dell'Alto e del Basso Egitto e aveva tentato di fare incidere i suoi nomi per l'incoronazione sull'albero sacro della città santa di Eliopoli. Ma le foglie si erano dimostrate riluttanti e avevano rifiutato di accoglierli. Perciò, Apophis, dopo aver ucciso il gran sacerdote, aveva ordinato la chiusura del tempio e sostenuto che il rito si era svolto correttamente.

La spada di luce

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La matricola 1790 crollò.
Con il viso nel fango, Grandi Piedi non aveva più voglia di vivere. Dopo tanti anni passati nel campo di prigionia di Sharuhen, in Palestina, le sue ultime forze si erano esaurite.
Sharuen, la base di appoggio degli Hyksos, che occupavano l'Egitto da oltre un secolo e avevano stabilito la loro capitale ad Avaris, nel Delta. Il loro capo supremo, l'imperatore Apophis, non si accontentava di fare regnare il terrore per mano del suo esercito e della polizia. Approvando una intrigante trovata del gran tesoriere Khamudi, suo fedele braccio destro, aveva creato un campo di prigionia ai piedi della fortezza di Sharuhen, in una zona paludosa e malsana. Durante l'inverno soffiava un vento gelido, mentre in estate picchiava un sole micidiale. Inoltre, la zona era infestata da moscerini e tafani.
- Alzati - lo supplicò la matricola 2501, uno scriba sulla trentina che, in tre mesi, aveva perso dieci chili.
- Non ne posso più... Lasciami stare.
- Se ti dai per vinto, Grandi Piedi, morirai. E non vedrai mai più le tue mucche.
Grandi piedi desiderava morire, ma ancora più grande era il desiderio di rivedere la sua mandria.
Nessuno sapeva prendersene cura come lui.
Come tanti, aveva creduto alla propaganda hyksos: "Portate le vostre bestie troppo magre a pascolare nei terreni erbosi del Nord" avevano proposto. "Quando avranno ritrovato il loro vigore, tornerete a casa vostra."
Gli Hyksos avevano rubato le mandrie, ucciso i bovari che protestavano con veemenza e gettato gli altri in quell'anticamera della morte che era Sharuhen.
Grandi Piedi non li avrebbe mai perdonati per averlo separato dalle sue mucche. Piuttosto avrebbe accettato un sovraccarico di incombenze, i lavori forzati, marce faticose nei territori inondati, un reddito minore, ma non questo.

I misteri di Osiride

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L'albero della vita

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Iker aprì gli occhi.
Impossibile muoversi. Era saldamente legato mani e piedi all'albero maestro di una grande imbarcazione che navigava a tutta velocità su un mare calmo.
La passeggiata lungo la riva al termine di una giornata di lavoro, i cinque uomini che si scagliavano su di lui colpendolo con un bastone, il vuoto... Il suo corpo era dolorante, la testa in fiamme.
«Slegatemi» implorò.

La cospirazione del male

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L'acacia di Osiride stava morendo.
Se l'albero della vita si fosse spento, i misteri della resurrezione non avrebbero più potuto essere celebrati e l'Egitto sarebbe scomparso. Incapace di diffondere il segreto essenziale, sarebbe diventato un Paese come tutti gli altri, abbandonato all'ambizione di pochi, alla corruzione, all'ingiustizia, alla menzogna e alla violenza.
Ecco perché il faraone Sesostri, il terzo a portare questo nome, si sarebbe battuto fino all'ultimo per preservare l'inestimabile eredità dei suoi antenati e per trasmetterla al suo successore. Alto più di due metri, un colosso di cinquant'anni dallo sguardo penetrante, conduceva una difficile battaglia dalla quale, nonostante l'innata autorità, il coraggio e la determinazione, non sarebbe forse uscito vincitore.
Gli occhi sprofondati nelle orbite, le palpebre pesanti, gli zigomi sporgenti, il naso dritto e sottile, la bocca ricurva, Sesostri aveva un volto indecifrabile. Non si diceva che, grazie a quelle sue grandi orecchie, riuscisse a percepire anche una parola pronunciata nel fondo di una grotta?

Il cammino di fuoco

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Il proprietario della piccola carovana si rallegrava di aver scelto la soluzione più pericolosa deviando dalla pista controllata dalla polizia del deserto. Certo, temeva i predoni del deserto, briganti che si aggiravano per tutta la Siro-Palestina a caccia di una preda, tuttavia la sua conoscenza del territorio gli permetteva di evitarli. Poiché la protezione delle forze dell'ordine non era gratuita, avrebbe dovuto cedere loro una parte del carico, dopo un accurato controllo per verificare che non trasportasse armi. Insomma, un sacco di noie e una sostanziale riduzione dei suoi introiti!
La carovana si dirigeva verso la città principale della regione, Sichem, residenza del rude Nesmontu, generale capo dell'esercito egiziano, fortemente deciso a lottare contro inafferrabili gruppuscoli di rivoltosi che seminavano il terrore. Pericolo vero, o semplice invenzione di Nesmontu per giustificare l'occupazione militare? Sichem aveva sì tentato di ribellarsi, ma il suo accesso febbrile era sfociato in una brutale repressione e nell'esecuzione dei sobillatori.

Il grande segreto

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L'alba nasceva su Abido, la Grande Terra di Osiride. Un'alba sperata e temuta, poiché si trattava di quella dell'anno nuovo. Questa giornata eccezionale avrebbe segnato l'inizio della piena da cui dipendeva la prosperità dell'Egitto? Malgrado lo studio approfondito degli archivi e le prime misure approntate dagli esperti di Elefantina, nessun tecnico si riteneva capace di fornire una previsione degna di fede. Il flusso delle acque sarebbe stato benefico, devastante o insufficiente? L'angoscia attanagliava i cuori, ma tutti continuavano ad avere fiducia in Sesostri. Da quando governava le Due Terre, gli assalti del male si infrangevano contro questo gigante impassibile. Non aveva forse sconfitto l'egoismo dei governatori di provincia, ristabilito l'unità del Paese e la pace nella Nubia?
Il comandante delle forze speciali incaricate di garantire la sicurezza del posto non provava alcun timore. Secondo il suo capo, il vecchio generale Nesmontu, il re dominava il genio del Nilo. Grazie ai rituali e alle offerte, l'inondazione si sarebbe compiuta in maniera armoniosa. Questa certezza non impediva all'ufficiale di esercitare la sua funzione con severità controllando, ogni mattina, i lavoratori temporanei ammessi a oltrepassare la frontiera del luogo sacro. Dai fornai ai birrai, dai falegnami ai tagliapietre, li controllava uno per uno e annotava i loro giorni di presenza. Tutti coloro che non giustificavano la loro assenza venivano cancellati immediatamente dall'elenco.
Si presentò un uomo dal cranio rasato, imberbe, di statura alta e vestito con una tunica di lino bianco.

Il figlio di Ramses

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La tomba maledetta

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Il Vecchio era nato vecchio e la cosa lo lasciava indifferente. Discendente di una lunga stirpe che alcuni facevano risalire al regno del primo faraone, disponeva di un elisir di giovinezza: il buon vino. Un bianco secco e fruttato al risveglio, un rosso corposo a pranzo, un frizzante leggero nel pomeriggio e un vino pregiato per accompagnare il pasto serale. Garantendo l'idratazione, quei magnifici prodotti, frutto dell'incontro perfetto tra natura e intelligenza umana, erano il rimedio ideale per qualunque malattia.
Quanti erano i giovani che bevevano acqua e a cui mancavano le forze? Sicuramente la birra non era da disdegnare, soprattutto nella stagione calda, ma niente poteva sostituire il vino. Proprietario di una vigna nei dintorni di Menfi, la capitale economica d'Egitto, il Vecchio ne aveva affidato la coltivazione a due specialisti che sorvegliava da vicino. Le anfore, tutte ben contrassegnate, venivano conservate in una cantina chiusa da una doppia porta con solidi chiavistelli, al riparo dai predoni.
Costretto a lavorare per pagare i dipendenti, il Vecchio aveva trovato un posto da intendente presso un ricco notabile che abitava in un'immensa villa con una miriade di lavoratori. Un piccolo mondo da tenere costantemente sotto controllo e in cui era necessario andare a caccia di eventuali scansafatiche pronti ad approfittare della minima distrazione. Ma lui non permetteva a nessun giovane di lasciarsi andare!

Il libro proibito

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Il Vecchio assaggiò il piatto di carne preparato dal cuoco e sputò tutto il boccone.
«Mi prendi in giro? È disgustoso!»
«Ho fatto del mio meglio. Ho...»
«Hai perso la testa e pure la mano! Come osi presentare quest'indecenza al nostro padrone?»
«Con tutto quello che sta succedendo è impossibile mantenere la calma e...»
«Che scusa patetica! Ti do un'ultima possibilità: prepara un pranzo degno di tale nome, altrimenti ti sbatto fuori.»
Il cuoco rinunciò a far valere le proprie ragioni e ritornò in cucina per soddisfare l'irascibile intendente che, qualunque fossero le circostanze, non era mai disposto a passare sopra a nulla. Essere al servizio di Keku, supervisore dei granai reali di Menfi e futuro ministro dell'Economia, era una sorta di privilegio cui i suoi dipendenti non erano disposti a rinunciare. A fronte di condizioni di lavoro alquanto rigide, il salario era elevato, il cibo di qualità, l'alloggio piacevole e le vacanze lunghe. L'unico problema era il Vecchio, intrattabile e attento al minimo dettaglio: sempre pronto a dare l'esempio, suscitava una forma di timore misto a rispetto e nessuno avrebbe mai osato metterne in discussione l'autorità.

Il ladro di anime

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Setna rifiutava di morire in quel modo. La tempesta era di una violenza inaudita e l'imbarcazione che lo portava a Copto minacciava di affondare, anche se per il momento resisteva.
Un'onda rabbiosa si era abbattuta sul ponte, e quattro marinai si erano gettati sul figlio di Ramses, la cui presenza a bordo alimentava la collera del fiume.
Gli alberi si stavano spezzando, le vele si squarciavano; se il giovane scriba dallo sguardo profondo e dal portamento maestoso non fosse stato eliminato, sarebbero morti tutti. Impossessandosi del Libro di Thot, proibito agli uomini, non aveva forse provocato il furore degli dei?
Setna non resistette a lungo agli aggressori, energumeni sovreccitati; due di essi gli bloccarono le braccia, altri due lo sollevarono e lo gettarono nelle acque agitate del Nilo.
Il capitano e il suo equipaggio sarebbero stati concordi nel dichiarare che il malcapitato era caduto in acqua. Viste le circostanze, impossibile ripescarlo.
La testa dello scriba non riapparve, l'imbarcazione si allontanò. Una volta scomparso il responsabile di tutti i problemi, sarebbe tornato la calma.

La città sacra

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Alzatosi subito prima dell'alba, il Vecchio era di pessimo umore. Una nottataccia, le articolazioni che gli dolevano e la sensazione che sarebbe stata una brutta giornata. Una catastrofe sembrava imminente.
Eppure all'interno del tempio della dea leonessa regnava una calma assoluta, anche se, dietro le sue alte pareti, la ricca città di Menfi, "Bilancia delle Due Terre", era percorsa da mille dicerie inquietanti. Ramses il Grande non era forse malato? Degli assassini non minacciavano la sicurezza della popolazione?
Il Vecchio diede da mangiare al suo asino, Vento del Nord, il cui sguardo profondo esprimeva inquietudine. Aveva un'espressione niente affatto rassicurante, e il Vecchio preferì non parlare con quell'animale che non si sbagliava mai. Portò del latte fresco e del pane caldo alla sua protetta, la giovane Sekhet, che presto avrebbe aperto l'ambulatorio per ricevere la sua prima paziente.
Lì, sotto la sorveglianza del cane Geb, era al sicuro degli assalti del padre, l'importante Keku, che aveva incaricato invano dei sicari di eliminarla e che non avrebbe esitato a uccidere sua figlia: Sekhet sapeva troppe cose e rifiutava di collaborare con quel mostro, tanto abile nell'imbrogliare le autorità.

Per amore di Iside

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Le stelle danzavano in un cielo blu oltremarino. Iside, la superiora delle sacerdotesse del tempio di Philae, ne contemplava il chiarore scaturito dal fondo dell'universo. Un chiarore che rivelava la presenza, nel cuore dell'aldilà, dei re resuscitati; l'anima dei faraoni sconparsi continuava a proteggere il santuario dove la grande dea vegliava sui propri ultimi seguaci, una cinquantina tra uomini e donne che, sei secoli dopo la nascita di Cristo, vivevano la fede degli egizi nella purezza di una regola immutata, nonostante la nuova religione che aveva conquistato l'intero paese.
Sola resisteva la montagna sacra di Philae, rischiarata dalle luci a levante, al centro di un caos di scogli, l'isola sacra di Iside appariva come un paradiso verdeggiante cinto da late mura. Secondo una leggenda, osservare quella fortezza apriva la porta che conduceva agli dei.
La giovane donna, vestita con la tradizionale tunicabianca, udiva il cinguettio degli uccelli nella voliera ombreggiata dalle acacie. La luce non avrebbe indugiato ancora a lungo prima di sopraffare le tenebre. Sul basamento di granito, la cui asprezza era addolcita da una vegetazione lussureggiante da cui emergevano palme da dattero, l'isola sfidava il potente vescovo Teodoro, al tempo stesso padre spirituale e capo temporale di quella regione sperduta del sud dell'Egitto, ai confini dell'Impero. Oltre quei luoghi c'era l'ignoto, il pericolo e le genti barbare.

Il ragazzo che sfidò Ramses il Grande

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«Io qui sono a casa mia!» proclamò a gran voce un uomo sulla quarantina, di costituzione robusta. «Ordini del Faraone.»
Quel terribile personaggio si chiamava Setek. Portava alla cintola una spada di bronzo. Una corazza di cuoio gli ricopriva il petto, rendendolo spaventoso come un demone della notte.
«È impossibile» ribatté Geru. «Mia moglie Nejemet, la padrona di casa, può giurarglielo.»
Geru, "il silenzioso", e Nejemet, "la dolce", erano sposati da molti anni. Avevano avuto un unico figlio, che ora aveva quindici anni ed era la speranza della loro vecchiaia. Con la forza del loro lavoro avevano acquistato un campo, un frutteto, e molti orticelli sulle sponde del Nilo.
Fino a quel momento la loro vita era stata felice.

L'affare Tutankhamon

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George Edward Stanhope Molyneux Herbert, visconte Porchester, soprannominato "Porchey" dai suoi pochi intimi e ritenuto dagli invidiosi il furuto Lord Carnarvon, piantò un cazzotto in faccia al marinaio greco che si rifiutava di obbedire ai suoi ordini. A bordo del suo yacht, l'Aphrodite, era signore e padrone e non ammetteva che gli si mettessero i bastoni tra le ruote, anche se una violenta tempesta diffondeva il panico tra l'equipaggio.
Il greco si rialzò stordito.
"Il suo cuoco è fottuto, farebbe meglio a reggere il timone".
"Un attacco di appendicite non è una condanna a morte. E tu dovresti sapere, amico mio, che Afrodite è una dea del mare, ed è a lei che affido battello ed equipaggio durante l'operazione".
Indifferente all'incredulità del marinaio, Porchey discese nella sua cabina, dove fece portare il malato; teneva molto a quel cuoco brasiliano che aveva assoldato in occasione del suo ultimo giro del mondo.
L'uomo si torceva in preda ai dolori.
Sul ponte, gran parte dei marinai si erano gettati in ginocchio a pregare dio. Porchey detestava esibizioni del genere, tipiche di mancanza di autocontrollo. Quando aveva imparato a navigare nel Mediterraneo, di fronte alla villa che suo padre possedeva a Portofino, il visconte Porchester non aveva mai invocato l'Onnipotente: o ce la faceva da solo, o sarebbe annegato senza dar fastidio a una celeste assemblea che aveva cose ben più importanti a cui badare che non prestare assistenza a un velista in difficoltà.

Il faraone nero

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Quando vide suo marito tornare dal tempio, la moglie del sindaco tentò di convincersi che portasse sulla spalla un sacco di grano. Il giorno prima avevano festeggiato il compleanno della loro figlioletta, entusiasta del regalo che aveva ricevuto: una bambola di stracci che le aveva fabbricato suo padre. Con le amiche sue coetanee, giocava in mezzo alla strada che attraversava il Poggio degli Uccelletti, un villaggio della provincia di Herakleopolis nel Medio Egitto. L'uomo gettò a terra il suo sacco vuoto.
- Non c'è più niente. Gli stessi sacerdoti rischiano di morire di fame, e gli dei non tarderanno a tornare in cielo perché nessuno si sogna di rispettare le leggi dei nostri antenati. Menzogne, corruzione, egoismo: questi sono i nostri nuovi signori.
- Rivolgiti al visir e poi al faraone, se occorre!
- Non c'è più un faraone; ci sono soltanto capiclan che combattono tra loro e pretendono di esercitare il potere supremo. Il nord del paese è sotto il giogo dei principi libici che si compiacciono dell'anarchia e delle diatribe intestine.
- E il faraone nero?
- Ah, quello! Ha lasciato un esercito a Tebe per proteggere la città santa del dio Amon dove regna sua sorella, la Divina Adoratrice, e si è chiuso nella sua capitale, Napata, in fondo alla Nubia, lontanissimo dall'Egitto che ormai da un pezzo ha dimenticato!

Salomone - Il tempio segreto

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Salomone fece scorrere amorevolmente la mano sull'Arca dell'Alleanza.
Solo lui, tra i figli del re Davide, era capace di compiere questo gesto senza essere fulminato dalla misteriosa energia che emanava dal santuario dove erano conservate le Tavole della Legge.
Per qualche giorno l'Arca sarebbe rimasta a Silo, nel cuore della Giudea, la provincia del re, dove Abramo aveva venerato il vero dio, l'Unico, che aveva cambiato il destino dell'umanità scegliendo Israele come terra eletta. Silo era stata la prima capitale di Davide prima che egli si stabilisse a Gerusalemme. Il vecchio sovrano esigeva che l'Arca viaggiasse periodicamente, ricordando agli ebrei che sarebbero sempre stati dei nomadi in cerca del Signore.
Salomone era stato incaricato di proteggere il più prezioso dei tabernacoli.
Alla testa di un drappello formato da soldati scelti, aveva lasciato Gerusalemme, si era fermato presso la caverna di Macpela dove riposavano i patriarchi, aveva camminato tra le vigne cariche di grappoli d'uva, contemplato le coltivazioni a terrazze che aggredivano i pendii secchi e rocciosi. In Giudea non vi era nulla che limitasse lo sguardo. L'orizzonte appariva fulvo, abitato da un sole instancabile.
Mentre camminava, il suo passo sollevava una polvere rossa che si depositava sul fango rappreso.
Meta della spedizione era Silo. La piccola città, costruita sul territorio della tribù di Efraim, era orgogliosa di avere accolto l'Arca, all'epoca della famosa battaglia contro i filistei. Il santuario di Yahweh era stato portato nel mezzo della mischia, affermando la presenza divina e donando la vittoria a Israele, in un gran concerto di urla di dolore e di grida di esultanza.
Grida e urla ossessionavano Salomone. La guerra, la violenza, il sangue... Il suo popolo era dunque condannato a queste calamità? Yahweh sarebbe sempre stato un dio vendicatore, avido di conflitti?
Strani pensieri tormentavano il cuore di Salomone, giovane principe ventenne dalla bellezza ammaliante. Alla sua nascita, gli indovini avevano predetto che la sua grande fronte sarebbe stata la sede della Saggezza, che il suo viso non sarebbe stato solcato dalle ruche e i suoi lineamenti non sarebbero mai invecchiati. Sin dall'adolescenza, Salomone aveva dimostrato una forza serena e un'autorevolezza naturale, capace di soggiogare i suoi interlocutori.
Chi avrebbe immaginato l'intensità della tempesta dentro la quale si agitava invano, come una barca priva di timone; Salomone non riusciva più a prendere sonno. E col passare del tempo perdeva il suo gusto innato per lo studio della poesia. Nemmeno la preghiera riusciva più a rasserenarlo.

L'architetto

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Parigi, una viuzza della XVIIIème arrondissement, una notte del marzo 1944.

Piovineggiava. La luna era coperta a tratti dalle nuvole.
François Branier, dopo essersi accertato che nessuno lo stesse seguendo, avanzò nell'androne di un palazzo fatiscente. Il medico cinquantacinquenne, dalla chioma argentea, aveva conservato il fisico massiccio e solenne che gli dava un aspetto rassicurante, severo ma al tempo stesso affabile.
Quando il portone si richiuse alle sue spalle attese qualche istante nell'oscurità. Cautela indispensabile. Branier si trovava a vivere l'avventura più pericolosa della sua vita. Per la prima volta dopo molte settimane aveva convocato i fratelli per un'importante riunione di lavoro massonico, in gergo iniziatico una tenuta. C'erano parecchie decisioni da prendere, e dovevano essere prese all'unanimità, come stabiliva la Regola.
La loggia Conoscenza, all'obbedienza (aderente alla federazione di logge) del Grande Oriente di Parigi, era accusata dalla polizia segreta del Reich di attività sovversive e di collusione con la Resistenza, e i suoi membri erano stati decimati da una serie di retate. Erano rimasti solo in sette a lavorare per la gloria del Grande Architetto dell'Universo, e ogni volta che dovevano indire una tenuta erano costretti a nascondersi e cambiare il luogo di convegno. Quando il nazismo aveva trionfato in Germania, i massoni di quel paese erano stati tra i primi a essere perseguitati dal regime. Ritenute un pericolo per la sicurezza del Reich, le logge erano state sciolte d'autorità. Numerosi fratelli tedeschi erano stati arrestati, condannati senza un processo pubblico e deportati.

Cleopatra. L'ultima regina d'Egitto

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La regina era nuda.
Dalla terrazza in cima al suo palazzo Cleopatra contemplava, per l'ultima volta, la sua amata capitale, la magnifica Alessandria.
Il vento dolce della notte non riusciva a calmarla; lei, sovrana dell'Egitto, aveva creduto di conquistare quella terra prediletta degli dei, che invece le sfuggiva; lei, padrona assoluta di un paese ricco, era ridotta alla solitudine e all'impotenza.
La fiamma che brillava in cima al faro rischiarava il mare, celebrando la gloria della città fondata da Alessandro Magno[2], dopo aver sconfitto i persiani e liberato il paese dei faraoni da una terribile occupazione. La biblioteca, il Museo, i templi, il teatro, i palazzi, il porto, il faro... Luoghi meravigliosi dei quali era diventata la legittima proprietaria alla morte di suo padre, durante l'eclissi totale di luna del 7 marzo del 51 a.C.
Suo padre, il dodicesimo della stirpe dei Tolomei, era un vigliacco corrotto ossessionato dal sesso che aveva venduto l'Egitto ai romani. Soprannominato «il flautista»[3] dal popolo, amava suonare quello strumento durante le orge in cui si esibiva senza un briciolo di dignità. Cacciato da Alessandria, aveva ripreso il potere corrompendo soldati romani a prezzo d'oro, e scatenando una crisi economica. Molti mercenari, in particolare germani e galli, appartenevano ora all'esercito egizio che Cleopatra non controllava più.
La ventenne, furente, si strappò la collana di perle, si tolse i braccialetti d'argento e li gettò alla città ingrata che voleva sbarazzarsi di lei e affidarsi alla cupidigia di una banda di cospiratori.
Cleopatra, nata ad Alessandria nel gennaio del 69 a.C. negli appartamenti delle concubine del padre, era salita al trono d'Egitto a 18 anni. Trono che, secondo la tradizione dei Tolomei, avrebbe dovuto dividere con il fratello di dieci anni. Eppure la prima Cleopatra, nata nel 180 a.C., aveva regnato sola dopo la morte del marito.
La settima Cleopatra, il cui nome significava «Gloria del padre», l'aveva imitata, relegando nell'ombra Tolomei XIII, il piccolo prepotente che tanto detestava. Adottando, non senza ironia, il soprannome di «colei che ama suo padre»[4], gli preferiva però il titolo di «colei che ama la sua patria», quell'Egitto dal passato prestigioso, oggetto di tutti i suoi sogni.
Ma quei sogni si stavano trasformando in un incubo.

Nefertiti. La regina del sole

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L'oro del sole al tramonto inondava l'Ombra del Sole, la residenza dove si era ritirata Nefertiti, a debita distanza dal centro della nuova capitale creata dal marito, il faraone Akhenaton. Aveva sperato che, isolandosi, avrebbe recuperato le forze, ma lo sfinimento cresceva inesorabilmente.
Quanto amava la fine del giorno, quell'ora tanto serena. Le sommità delle colline si tingevano di un colore rossiccio, il Nilo scintillava, gli animali rientravano dai campi, le melodie dei flauti deliziavano i raccolti. Poi sarebbe calata la notte, sinonimo di una morte che al sole divino sarebbe spettato sconfiggere.
Un sole che Nefertiti non avrebbe più contemplato su quella terra.
«È arrivato lo scultore Thutmose» l'avvertì il Vecchio, suo fedele servitore fin dall'infanzia.
«Che entri pure.»

Il mago del Nilo: Imhotep e la prima piramide

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Imhotep contemplava il deserto, regno proibito popolato da bestie feroci e spettri crudeli. Al cadere della notte il giovane uomo di vent'anni avrebbe dovuto allontanarsi da quel territorio pericoloso e tornare a casa. Ma all'indomani della morte del padre sentiva il bisogno di stare da solo, lontano da un mondo la cui ingiustizia lo opprimeva troppo.
Sino alla tragedia, l'esistenza gli era sembrata quasi facile. I suoi genitori, semplici contadini, si erano ripromessi di offrire al loro unico figlio una vita migliore. Quando Imhotep, cinque anni prima, era stato accettato come apprendista scultore di vasi in pietra nel laboratorio reale di Menfi, il loro sogno si era realizzato.
Un padre non ha il diritto di morire.
Perché gli dei si mostravano così crudeli? Perché avevano colpito una famiglia così unita? Mille pensieri turbinavano nella mente di Imhotep, che si ribellava a quell'ingiusto destino.
La sabbia scricchiolava sotto i suoi sandali mentre lui camminava dritto davanti a sé, nella notte. Non curandosi della fatica, Imhotep faceva affidamento sulle sue gambe instancabili per giungere sino al cuore di quella immensità, sperando così di consumare l'insopportabile dolore.

Il faraone

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Il fulmine cadde a tre passi dal Vecchio. Se il suo asino, Vento del Nord, non l'avesse protetto, il furore del cielo gli avrebbe tolto il gusto del vino.
Una palla di fuoco attraversò il sentiero e tracciò un solco nel campo di grano. Poi un diluvio si abbatté su Tebe, la grande città nel sud dell'Egitto.
«L'acqua è pericolosa» balbettò il Vecchio correndo verso casa, situata al centro di un vigneto che produceva un grande vino, destinato alla tavola dei faraoni.
Una donna Faraone agonizzante. La Grande sposa reale Hatshepsut, vedova e successivamente reggente, era assurta alla funzione suprema, ma il suo regno stava giungendo al termine.
Dopo avere preservato la pace e la prosperità, aveva governato con autorità benevola. La sua scomparsa era sinonimo di disastro, perché il suo successore, secondo il parere generale, non sarebbe stato all'altezza del compito.
Un successore particolare, oltretutto: Thutmose III era stato designato Faraone dal consiglio dei Saggi a soli otto anni. Secondo un uso ancestrale, sua zia Hatshepsut aveva assunto la reggenza fino a un evento straordinario: l'oracolo del dio Amon, a capo del ricchissimo tempio di Karnak, le aveva accordato la sovranità. Per la prima volta nella sua esistenza, l'Egitto si ritrovava con due sovrani contemporaneamente.
Come reagì l'adolescente Thutmose? Si tenne in disparte. Il giovane non si interessava al potere. Appassionato di testi antichi e rituali, studioso di botanica, si accontentava di vivere lontano dai fastidi della vita quotidiana, e di apparire durante le principali cerimonie ufficiali alle spalle di colei che governata con mano ferma lo Stato.
La tempesta era sempre più violenta, decine di lampi attraversavano il cielo. La collera del dio Seth spaventava il Paese, che presto sarebbe stato affidato a un incapace. E la sua rovina sarebbe stata terribile.
Regnava un'afa soffocante nonostante la pioggia violenta, il frastuono era incessante, risultava persino difficile respirare.... Era impossibile dormire. Vento del Nord, di solito tanto calmo, era vigile e nervoso, come se presagisse una catastrofe.
L'indomani il Vecchio avrebbe dovuto consegnare una decina di giare di un vino rosso con la scritta «Molto, molto buono» per un banchetto celebrato in onore della donna Faraone. Ma i festeggiamenti sarebbero stati annullati. Secondo le voci che circolavano, la sovrana non sarebbe sopravvissuta fino al sorgere del sole. Un sole che non avrebbe rischiarato l'Egitto in lutto, colpito dal cielo. Nei campi, come nelle città e nei villaggi, i danni si preannunciavano considerevoli. E non ci sarebbe stato nessuno per comandare e decidere l'avvenire.

Il ritorno della luce. Horemheb: scriba, generale, faraone

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Il sole bruciava, mancava l'aria. Ma il ragazzino doveva correre in fretta, molto in fretta. A quattordici anni, non aveva voglia di morire per le bastonate delle guardie. Siccome conosceva a menadito la città del sole, Saby credeva di riuscire a farla franca. Purtroppo, invece, gli erano ancora alle calcagna. Rifiutando di farsi requisire per la corvée, l'adolescente era diventato un fuorilegge.
Emerse da un quartiere popolare, imboccò il viale dove un tempo Akhenaton e sua moglie Nefertiti andavano in carro dal palazzo al grande tempio, tra le acclamazioni della folla, costretta a manifestare la propria gioia.
Dalla morte della regina, seguita a breve distanza da quella del re, la capitale viveva nell'angoscia. Dopo dieci anni di tirannia, l'Egitto non era forse sul'orlo del precipizio? Profondamente divise e indebolite, le Due Terre sarebbero sopravvissute all'anarchia e alla guerra civile? Consacrandosi al culti di un dio unico, Aton, una coppia di fanatici non aveva minato definitivamente le basi dell'istituzione faraonica?
Saby, però, aveva un solo obiettivo: salvare la pelle. E per questo, gli era venuta un'idea temeraria: nascondersi nel grande tempio a cielo aperto, dove non si celebrava più nessuna cerimonia. Quante migliaia di animali erano stati abbattuti e disposti sulle centinaia di tavoli delle offerte, ormai abbandonati?

La regina d'oro: La storia di Hatshepsut, la donna che diventò faraone

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Per gli dèi, com'è bello il mio Paese!, pensò la giovane. Dalla terrazza della grande villa di famiglia osservò l'alba. Dopo una notte piena di pericoli, infestata dai demoni, l'astro della vita, avendo sconfitto il mostruoso serpente distruttore, rinasceva per spandere la propria luce.
Un momento magico, un miracolo rinnovato dalle formule dei sacerdoti che il faraone concretizzava celebrando il rituale dell'alba.
Hatshepsut avvertiva quel momento di grazia nell'intimo. Lei era la «Prima tra i venerabili», il nome segreto che le aveva dato un mago dalla nascita, e che i genitori le avevano rivelato il giorno dei suoi sedici anni.
Un nome difficile da portare, il cui significato la turbava. Alludeva senz'altro a Hathor, dea del cielo e della gioia, alla quale effettivamente rivolgeva un culto particolare.
Occhi verde chiaro a mandorla, naso sottile, zigomi poco pronunciati, bocca piccola, labbra disegnate alla perfezione, mento sottile, capelli ramati, Hatshepsut non era solo graziosa ma bella, molto bella. Il suo corpo somigliava a quello delle dee che i migliori artigiani scolpivano e dipingevano sui muri dei templi e sulle pareti delle dimore dell'eternità.
Molti spasimanti non si consideravano all'altezza. Superba, ricca, colta, appassionata di musica, la «Prima tra i venerabili» non era alla portata di chiunque. Neanche i più affascinanti tra i seduttori osavano avvicinarsi a lei.

Le indagini dell'ispettore Higgins

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Il segreto di Mac Gordon

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The Slaughterers, piccolo villaggio del Gloucestershire, era uno dei luoghi più tranquilli della vecchia Inghilterra e quindi dell'universo. Ospitava la dimora di famiglia dell'ex ispettore capo Higgins che, in pensione, trascorreva felicemente le sue giornate. Aveva lasciato senza rimpianti New Scotland Yard e i suoi locali di cemento e di acciaio, consacrati alla polizia scientifica.
Quella mattina, come la maggior parte delle altre giornate, pioveva. Occasione eccellente per accendere il fuoco nel grande camino del salone, per sonnecchiare una mezz'oretta sognando i bei vecchi tempi in cui gli aerei, le automobili, la televisione, i cellulari e i computer non esistevano. Con la mano sinistra, Higgins accarezzò le orecchie di Trafalgar, un superbo siamese dagli occhi azzurri, disteso sulla poltrona più soffice; poi mise qualche rametto nel camino. Le vecchie braci, ancora calde, sarebbero state sufficienti per accenderlo. Higgins utilizzò un soffietto. Ma smosse solo del fumo denso che lo fece tossire. I rametti erano troppo verdi.

Assassinio tra i druidi

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In quella notte d'estate, la processione entrò con lentezza e solennità nella magica cinta di pietre di Stonehenge. Era guidata dal grande druido, seguito dal druido giudice, dal druido sacrificatore, da una druidessa, da un bardo, da una bardessa e da un vate. I druidi indossavano una veste bianca, simbolo di verità e purezza, i bardi una blu, colore del cielo sereno, e il vate una verde, simbolo della scienza di cui era depositario. Tutti avevano testa e piedi nudi, per essere a perfetto contatto con la terra madre e le potenze celesti. Secondo le più antiche tradizioni, tenevano un bastone, di quercia per i druidi, di betulla per i bardi e di tasso per il vate.
Fecero il giro della cinta di pietre erette e accesero alcuni fuochi, creando così una barriera magica che nessun profano avrebbe potuto superare. La cerimonia alla quale si accingevano a partecipare rivestiva un'importanza tale che dovevano essere prese le più eccezionali precauzioni.
Al chiarore delle fiamme, gli enormi massi di Stonehenge, trasportati all'alba dei tempi da giganti dotati di poteri sovrannaturali, si tinsero di bagliori rossastri tremuli e inquietanti. Il grande druido, Georgius Mac Reod, si fermò su una piccola collinetta erbosa, senza oltrepassare la cerchia esterna, là dove vita e morte vengono a contatto. Vi raccolse per un lungo momento, circondato dagli altri membri della processione, prima di mettersi in movimento verso il centro del santuario.
I visi erano gravi, quasi ansiosi. Malgrado la profonda conoscenza dei riti, mai questi cinque uomini e queste due donne avevano partecipato a un avvenimento che rischiava di compromettere il destino dell'intero druidismo. Con la gola stretta e il passo esitante, raggiunsero la famosa Heel Stone, la «pietra del tallone» o «pietra del sole», alta cinque metri.

La maledizione di Tutankhamon

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Furibonda, Jenniferr Stowe rovesciò la tazza di tè sulla tastiera del computer. Si era alzata con il piede sinistro, aveva l'emicrania, si era infilata la camicetta a rovescio, si era tagliata un indice nell'imburrare una fetta di pane tostato e aveva dovuto chiamare l'idraulico a causa di una perdita d'acqua, senza contare un mucchio di barbosa corrispondenza amministrativa e una cinquantina di e-mail da cestinare.
Era una di quelle giornate da dimenticare. Tuttavia l'esperta di biologia molecolare, di origine australiana ma ormai stabilita a Londra, non era affatto superstiziosa. Divenuta luminare nella ricerca sul DNA, si era infuriata nel consultare gli studi recenti sulla mummia di Tutankhamon, un faraone che l'affascinava sin dall'infanzia: protocolli aberranti, esperimenti frettolosi, conclusioni dubbie, benché non fossero state identificate con certezza numerose mummie invocate per fare di Tutankhamon il figlio del mistico re Akhenaton, ipotesi che nessun documento egizio confermava. Sempre alla ricerca del sensazionale, con l'aiuto di pseudoscienziati al soldo degli americani.
Questa volta restare inerte era escluso. Con il suo gruppo, composto di tre collaboratori di alto livello, Jennifer Stowe intendeva riprendere l'indagine dall'inizio. Non voleva abbandonare Tutankhamon a imbonitori pronti a tutto pur di pavoneggiarsi nei docu-drama televisivi. Il giorno prima, con il sostegno delle autorità, aveva annunciato il lancio del Progetto Tutankhamon. Infischiandosene della propria fama, aveva fretto di volare in Egitto con il proprio gruppo per lavorare rispettando criteri seri e inoppugnabili. Dato che provvedeva lei stessa al finanziamento e al materiale, le porte si erano aperte.

  1. I lontani antenati dei turchi.
  2. Nel 331 a.C.
  3. Aulete in greco.
  4. Filopatore.

Bibliografia

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  • Christian Jacq, Per amore di Iside, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani, 1997. ISBN 88-452-3552-1
  • Christian Jacq, Il ragazzo che sfidò Ramses il Grande, traduzione di Michela Finassi Parolo, Piemme (Il battello a vapore), 1997. ISBN 978-8838477041
  • Christian Jacq, L'affare Tutankhamon. Mezzo secolo di drammi e passioni, traduzione di Francesco Saba Sardi, Bompiani, 1997. ISBN 978-8845231490
  • Christian Jacq, Il romanzo di Ramses. Il figlio della luce, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, 1997. ISBN 8804430303
  • Christian Jacq, Il romanzo di Ramses. La battaglia di Qadesh, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, 1997. ISBN 880443581X
  • Christian Jacq, Il romanzo di Ramses. La dimora millenaria, traduzione di Maria Pia Tosti Croce, Mondadori, 1997. ISBN 8804432470
  • Christian Jacq, Il romanzo di Ramses. La regina di Abu Simbel, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, 1997. ISBN 8804437952
  • Christian Jacq, Il romanzo di Ramses. L'ultimo nemico, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, 1998. ISBN 8804448121
  • Christian Jacq, Il romanzo di Kheops. L'inferno del giudice, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, 1998. ISBN 978-8804452768
  • Christian Jacq, Il romanzo di Kheops. Il testamento degli dei, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, 1998. ISBN 978-8804452850
  • Christian Jacq, Il romanzo di Kheops. Il ladro di ombre, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, 1998. ISBN 978-8804452867
  • Christian Jacq, Il faraone nero, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, 1999. ISBN 978-8804453833
  • Christian Jacq, Salomone - Il tempio segreto, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, 1999.
  • Christian Jacq, L'architetto, traduzione di Francesco Saba Sardi, Mondadori, 2000. ISBN 978-88-04-49535-9
  • Christian Jacq, Il segreto della pietra di luce. Nefer, traduzione di Laura Serra, Mondadori, 31 marzo 2000, ISBN 978-8804491224
  • Christian Jacq, Il segreto della pietra di luce. Claire, traduzione di Mario Morelli, Mondadori, 1° giugno 2000, ISBN 978-8804482987
  • Christian Jacq, Il segreto della pietra di luce. Paneb, traduzione di Laura Serra, Mondadori, 31 agosto 2000, ISBN 978-8804482963
  • Christian Jacq, Il segreto della pietra di luce. Maat, traduzione di Mario Morelli, Mondadori, 30 novembre 2000, ISBN 978-8804499244
  • Christian Jacq, La regina Libertà. L'impero delle tenebre, traduzione di Cristiana Latini, Corriere della Sera, 2004, ISBN
  • Christian Jacq, La regina Libertà. La guerra delle corone, traduzione di Maddalena Mendolicchio, Corriere della Sera, 2004, ISBN
  • Christian Jacq, La regina Libertà. La spada di luce, traduzione di Maddalena Mendolicchio e Nicolina Pomilio, Corriere della Sera, 2004, ISBN 978-0743480505
  • Christian Jacq, I misteri di Osiride. L'albero della vita, traduzione di Maddalena Mendolicchio e Sara Arena, Corriere della Sera, 2004
  • Christian Jacq, I misteri di Osiride. La cospirazione del male, traduzione di Cristiana Latini e Chiara Santoriello, Corriere della Sera, 2004
  • Christian Jacq, I misteri di Osiride. Il cammino di fuoco, traduzione di Valeria Fucci e Nicolina Pomilio, Corriere della Sera, 2004
  • Christian Jacq, I misteri di Osiride. Il grande segreto, traduzione di Giorgia Cappelli ed Elisabetta Ercolini, Corriere della Sera, 2004
  • Christian Jacq, Il figlio di Ramses. La tomba maledetta, traduzione di Stefania Barontini Conversano, Tre60, 2016, ISBN 978-88-6702-305-9
  • Christian Jacq, Il figlio di Ramses. Il libro proibito, traduzione di Stefania Barontini Conversano, Tre60, 2016, ISBN 978-88-6702-306-6
  • Christian Jacq, Il figlio di Ramses. Il ladro di anime, traduzione di Maddalena Togliani, Tre60, 2016, ISBN 978-88-6702-327-1
  • Christian Jacq, Il figlio di Ramses. La città sacra, traduzione di Maddalena Togliani, Tre60, 2016, ISBN 978-88-6702-328-8
  • Christian Jacq, Cleopatra. L'ultima regina d'Egitto, traduzione di Maddalena Togliani, TEA, 2017. ISBN 978-88-6702-436-0
  • Christian Jacq, Nefertiti. La regina del sole, traduzione di Maddalena Togliani, TEA, 2017. ISBN 978-88-6702-390-5
  • Christian Jacq, Il mago del Nilo: Imhotep e la prima piramide, traduzione di Marcella Umberti-Bona, Tre60, 2017. ISBN 8867023853
  • Christian Jacq, Le indagini dell'ispettore Higgins. Il segreto di Mac Gordon, traduzione di Marcella Rostagny Maggio, TEA, 2017. ISBN 978-88-502-4873-5
  • Christian Jacq, Le indagini dell'ispettore Higgins. Assassinio tra i druidi, traduzione di Marcella Rostagny Maggio, TEA, 2017. ISBN 978-88-502-4921-3
  • Christian Jacq, Le indagini dell'ispettore Higgins. La maledizione di Tutankhamon, traduzione di Alessandro Zabini, TEA, 2017. ISBN 978-88-502-4640-3
  • Christian Jacq, Il faraone, traduzione di Maddalena Togliani, Tre60, 2019. ISBN 978-88-67025480
  • Christian Jacq, Il ritorno della luce. Horemheb: scriba, generale, faraone, traduzione di Maddalena Togliani, Tre60, 2020. ISBN 978-88-670-2598-5
  • Christian Jacq, La regina d'oro: La storia di Hatshepsut, la donna che diventò faraone, traduzione di Maddalena Togliani, Tre60, 2021. ISBN 978-88-670-2690-6

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