Lindsey Davis

scrittrice inglese
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Lindsey Davis (1949 – vivente), scrittrice britannica.

Citazioni di Lindsey Davis

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  • Il patronato era la trama della società romana (mentre i profitti illeciti ne erano l'ordito). (In pasto ai leoni, p. 26)
  • Mio padre era un uomo tarchiato, pesante, con grigi riccioli ribelli e quello che perfino fra le donne esperte passava per un sorriso affascinante. Aveva la fama di scaltro uomo d'affari, il che significava che preferiva mentire piuttosto che dire la verità. Aveva venduto più finti vasi di ceramica ateniesi a figure nere di qualunque altro banditore in Italia. Un vasaio li fabbricava appositamente per lui.
    La gente sosteneva che io fossi uguale a mio padre, ma se notavano la mia reazione, non lo ripetevano una seconda volta. (In pasto ai leoni, pp. 32-33)
  • Con un cadavere freddo ai propri piedi, è sempre la stessa storia. Il fatto che in questo caso si trattasse di un leone non cambiava i miei sentimenti. La solita vecchia e cupa depressione per una vita sprecata per motivi futili e probabilmente per mano di un individuo spregevole che pensava di potersela cavare. La stessa collera e la stessa indignazione. E poi le stesse domande da porre: Chi è stato l'ultimo a vederlo? Come ha trascorso la sua ultima sera? Chi erano i suoi compagni? Che cos'ha mangiato durante l'ultimo pasto? Be', in realtà, chi ha mangiato? (In pasto ai leoni, p. 53)
  • [Riferendosi alla figlia Giulia Giunilla] «Voglio che cresca sapendo chi è suo padre» disse Elena.
    «Per assicurarci che sarà sgarbata e insolente verso la persona giusta?»
    «Sì. E così saprai che è tutta colpa tua. Non voglio che tu debba mai dire "L'ha cresciuta e rovinata sua madre"!»
    «È una bambina intelligente. Riuscirà a guastarsi da sola.» (In pasto ai leoni, p. 76)
  • Alcuni membri del governo ritengono che abusare della propria posizione sia il vero scopo dell'occupare una carica elevata. (In pasto ai leoni, p. 136)
  • La vita non è una favola nella quale i personaggi principali fremono di emozioni poco plausibili, le scene principali sono descritte con un linguaggio misurato e a ogni strano decesso fa seguito regolarmente un progresso con quattro indizi (uno falso), tre uomini con alibi inconsistenti, due donne con altri moventi e una confessione che spiega con chiarezza ogni minimo errore e che incrimina la persona meno probabile, un furfante che qualunque indagatore sveglio potrebbe smascherare. Nella vita reale, quando un investigatore rimane inceppato con un caso, non può aspettarsi che proprio il testimone di cui ha bisogno bussi furtivamente alla sua porta, con la conferma dei particolari che il nostro perspicace eroe ha già dedotto e immagazzinato nella sua fenomenale memoria. Quando le indagini arrivano a un punto morto è perché ormai il caso è perso. (In pasto ai leoni, p. 210)
  • Le persone mentono. Quelle in gamba lo fanno in modo così ingegnoso che per quanto le incalziate non le coglierete mai in fallo. Questo presuppone che siate almeno in grado di capire quali bugiardi dovreste incalzare. Ma è abbastanza difficile, quando nel mondo reale mentono tutti. (In pasto ai leoni, pp. 210-211)
  • Qualche volta gli assassini riescono in qualche modo ad avvicinare le loro vittime quando nessuno guarda. Uccidono in silenzio, o in un momento in cui nessuno nota i gorgoglii e i tonfi. Poi abbandonano la scena inosservati. E talvolta restano tranquilli per sempre.
    La verità è che molti assassini riescono a farla franca. (In pasto ai leoni, p. 211)

Incipit di alcune opere

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Le miniere dell'imperatore

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Quando vidi la ragazza che saliva di corsa i gradini, pensai che fosse troppo vestita.
Era estate inoltrata e Rina sfrigolava come una frittella nell'olio bollente. Pur tenendo i calzari slacciati, la gente si guardava bene dal toglierseli: neppure un elefante avrebbe osato attraversare la strada scalzo. Molti si accasciavano sugli sgabelli all'ombra degli androni, nudi fino alla cintola e con le ginocchia divaricate; nei vicoli dietro l'Aventino, dove abitavo io, stavano così solo le donne.
Io ero al Foro. Lei correva, molto accaldata e troppo coperta, ma fermamente decisa a resistere al calore e ai colpi di sole. Era lucida e appiccicosa come una pasta glassata e quando la vidi risalire di corsa la scalinata del Tempio di Saturno nella mia direzione, non feci niente per scansarla. Ma lei riuscì a evitarmi per un pelo: ci sono uomini che nascono fortunati, altri che si chiamano Didio Falco.

Misteri imperiali

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Non appena imboccai il vicolo fui assalito da un odore intenso. Eravamo verso la fine di maggio e il tempo a Roma si era messo al caldo. Da una settimana un sole energico batteva senza interruzione sul tetto dei magazzini facendo fermentare tutto quello che c'era dentro. Nei vasti capannoni l'aria era pregna dei grevi odori delle spezie d'Oriente, e il cadavere che eravamo venuti a seppellire, gonfio per i gas della decomposizione, era probabilmente tutto un formicolio di vermi.

La Venere di rame

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I ratti sono sempre più grossi di quanto uno si aspetti.
Lo sentii prima ancora di vederlo: il sinistro strisciare di una presenza indesiderata, troppo vicino per stare tranquilli nella cella angusta di una prigione. Alzai la testa.
I miei occhi si erano abituati alla semioscurità. Quando si mosse di nuovo lo vidi: un maschio color polvere, con le zampette rosa che somigliavano in modo impressionante alle manine di un bambino. Era grosso come un coniglio. Mi vennero in mente parecchie taverne alla buon di Roma dove i cuochi non si sarebbero fatti troppi scrupoli a buttare nelle loro pentole quel grasso mangiatore di rifiuti. Una volta stufato con l'aglio, chi se ne sarebbe accorto? In una bettola per i lavoratori delle fornaci in un misero quartiere dalle parti del Circo Massimo, ogni osso che avesse intorno un po' di carne avrebbe aggiunto un gusto piacevole al brodo...
L'angoscia mi rendeva famelico, ma tutto quello che riuscivo a mandar giù era la rabbia per essere lì.

La mano di ferro

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«Una cosa è certa» dissi a Elena Giustina. «Non andrò in Germania!»
Mi accorsi subito che stava già pensando a cosa mettere nei bagagli per il viaggio.
Eravamo a letto nel mio appartamento, in cima all'Aventino. Una vera e propria tana di cimici al sesto piano, solo che la maggior parte delle cimici si stancava di salire le scale ancora prima di arrivarci. A volte le sorpassavo, distrutte di stanchezza sui pianerottoli intermedi, con le antenne flosce e le zampe esauste...
Di quel posto si poteva solo ridere, altrimenti lo squallore vi avrebbe spezzato il cuore. Perfino il letto era malfermo. E questo dopo che ci avevo messo una gamba nuova e avevo teso la rete del materasso.

L'oro di Poseidone

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Una notte buia e tempestosa sulla Via Aurelia: gli auspici erano sfavorevoli al nostro ritorno a Roma.
Partiti dalla Germania, avevamo viaggiato in febbraio e marzo, percorrendo circa mille miglia. Le cinque o sei ore dell'ultimo tratto, da Veii a Roma, furono le peggiori. Gli altri viaggiatori si erano già rintanati da un pezzo in qualche locanda lungo il cammino e noi eravamo gli unici sulla strada. La decisione di affrettarsi per raggiungere la città quella sera stessa era stata avventata. Lo sapevano tutti nel mio seguito, e sapevano che il responsabile ero io, Marco Didio Falco, l'uomo al comando. Probabilmente i miei compagni di viaggio, stizziti, si lamentavano, ma io non potevo sentirli. Dentro la carrozza, con l'umidità nelle ossa, scomodi, erano però in grado di vedere che esistevano condizioni assai peggiori: a cavallo, io ero completamente esposto alla violenza del vento e della pioggia.
Le prime abitazioni comparvero all'improvviso: alti e popolosi caseggiati che avrebbero fatto da sfondo al nostro cammino attraverso i disgustosi bassifondi di Trastevere. Edifici fatiscenti, senza balconi né pergolati, sorgevano addossati gli uni agli altri in cupe file interrotte solo da vicoli bui, dove spesso si appostavano i furfanti, in attesa di qualche sprovveduto appena giunto a Roma. Forse quella sera perfino loro avrebbero preferito starsene al sicuro, rintanati al calduccio nei loro letti. O forse speravano che le intemperie rendessero incauti i viaggiatori. Sapevo che il momento più pericoloso di un lungo viaggio può essere l'ultima mezz'ora. Nelle strade apparentemente deserte il rumore degli zoccoli e le ruote sferraglianti della carrozza annunciavano la nostra presenza.

Ultimo atto a Palmira

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«Qualcuno qui potrebbe lasciarci la pelle!» esclamò Elena.
Feci un sorriso, osservando avidamente l'arena. «È proprio quello che dovremmo augurarci!» Interpretare la parte dello spettatore assetato di sangue è facile per un romano.
«Sono preoccupata per l'elefante» mormorò lei. L'animale avanzava con passo esitante ed era ormai sulla rampa, all'altezza delle nostre spalle. Un domatore si arrischiò a pungolargli le zampe.
Io mi preoccupavo di più per l'uomo rimasto a terra, che avrebbe avuto la peggio se l'elefante fosse caduto. Non mi preoccupavo troppo, però. Ero contento, una volta tanto, di non essere io la persona in pericolo.
Sedevo al sicuro con Elena in prima fila nel Circo di Nerone, poco oltre il fiume, fuori Roma. Quel luogo vantava una storia cruenta, ma ormai era utilizzato per corse di bighe relativamente tranquille. Il lungo anello era dominato dall'enorme obelisco di granito rosso che Caligola aveva fatto venire da Eliopoli. Il Circo era situato nei giardini di Agrippina, ai piedi del Colle Vaticano .Senza la folla e senza i cristiani che venivano trasformati in torce, regnava un'atmosfera quasi serena, rotta solo dai secchi "hop!" degli acrobati e dei funamboli che si allenavano e dai misurati incoraggiamenti degli addestratori di elefanti.
Eravamo gli unici due spettatori ammessi a questa prova piuttosto tesa.

Fuga o morte

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«Non riesco ancora a credere di essere riuscito a liquidare quel bastardo!» mormorò Petronio.
«Non si è ancora imbarcato» lo corresse Foscolo. Il più ottimista della ronda, evidentemente!
Eravamo in cinque appostati sulla banchina. Metà ottobre. Un'ora prima dell'alba. L'aria pungente ci gelava il volto mentre stavamo raggomitolati nei mantelli. Da qualche altra parte d'Italia la vita stava già per riprendere, mentre qui al Portus, il nuovo porto di Roma, era ancora buio pesto. Vedevamo ondeggiare l'enorme fiamma accesa alla sommità del faro, scorgevamo le minuscole figure che alimentavano il fuoco; di tanto in tanto i pallidi bagliori delle fiamme illuminavano la statua di Nettuno che sorvegliava l'ingresso dell'approdo. In quello scenario il tronco illuminato del dio del mare appariva bizzarro. Solo dall'odore di vecchie gomene indurite e di scaglie di pesce marcio si capiva che ci trovavamo nel grande bacino del porto.

Notte a Corduba

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I cittadini di Corduba, a qualunque condizione sociale appartenessero, si sforzavano di essere più romani degli stessi romani. Non vi sono testimonianze circa l'esistenza di una coscienza nazionale tra i concittadini di Seneca il Vecchio, sebbene sia lecito supporre che, quando si incontravano a Roma, fra gli originari di una tale città si sviluppasse una certa complicità... romana. Nessuno finì avvelenato al banchetto della Società dei produttori di olio d'oliva della Betica. Con il senno di poi, devo riconoscere che la cosa rappresentò una sorpresa. Se avessi saputo che fra i presenti c'era anche Anacrite, Prima spia, avrei provveduto io stesso a portare una boccetta di sangue di rospo, ben nascosta nel tovagliolo e pronta all'uso. D'altra parte, Anacrite di nemici ne aveva parecchi e probabilmente ingeriva antidoti ogni giorno, nell'eventualità che qualche sciagurato che aveva cercato di fare uccidere gli versasse essenza di aconito nel vino. Se solo ci fossi riuscito io. Almeno quello, Roma me lo doveva.

Tre mani nella fontana

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La fontana non funzionava. Non che ci fosse qualcosa di insolito: dopotutto, eravamo sull'Aventino.
Doveva essere fuori uso da parecchio tempo, perché l'abbozzo di conchiglia che fungeva da getto, di cui una ninfa nuda tutt'altro che attraente faceva sfoggio, era imbrattato di guano di piccioni. La vasca invece era pulita, l'ideale per appoggiarsi senza sporcare la tunica e per vuotare in pace un'anfora di vino ispanico che aveva patito un po' il viaggio. Quando Petronio e io saremmo tornati alla festa che si teneva nel mio appartamento, nessuno avrebbe capito dov'eravamo stati.
Avevo appoggiato l'anfora nella vasca vuota della fontana, con la punta verso l'interno, così da poterla inclinare facilmente oltre il bordo per riempire le coppe che ci eravamo portati di nascosto. Rimanemmo lì per un bel po' di tempo, tanto che, al momento di tornare a casa, saremmo stati troppo ubriachi per preoccuparci delle chiacchiere, a meno che, certo, qualcuno non ci avesse accolto a male parole. Cosa tutt'altro che impossibile, se Elena Giustina si era accorta che ce l'eravamo svignata, lasciandola da sola.

In pasto ai leoni

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Io e il mio socio ci eravamo organizzati nel modo migliore per guadagnare una fortuna finché non venimmo a sapere del cadavere.
Occorre dire che la morte era sempre presente in quell'ambiente. Anacrite e io lavoravamo in mezzo ai fornitori di animali selvatici e di gladiatori per i Giochi dell'arena a Roma. Ogni volta che andavamo in loco, portandoci appresso le nostre tavolette da appunti per le verifiche contabili, trascorrevamo la giornata circondati da chi era destinato a morire in un futuro molto prossimo e da chi sarebbe sfuggito alla morte soltanto se avesse ucciso per primo. Nella maggior parte dei casi la vita, l'obiettivo principale dei vincitori, sarebbe stata un premio solo temporaneo.
Ma fra gli alloggi dei gladiatori e le gabbie dei grossi felini, la morte era normale amministrazione. Le nostre vittime, i pingui uomini d'affari dei quali così premurosamente esaminavamo la situazione finanziaria come parte della nostra nuova carriera, aspiravano a un'esistenza lunga e confortevole, benché la definizione ufficiale della loro attività fosse "strage". Le loro scorte mercantili erano misurate in unità di omicidio di massa e il loro successo dipendeva dalla possibilità che quelle unità soddisfacessero la folla in semplici termini di volume, oltre che dalla capacità di escogitare metodi sempre più sofisticati per spargere sangue.

Una vergine di troppo

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Ero appena arrivato a casa dopo aver riferito alla mia sorellina prediletta che il marito era stato divorato da un leone, quindi non ero affatto in vena di accogliere un nuovo cliente.
Forse ci sono investigatori che accettano di buon grado qualunque opportunità di aggiungere un altro incarico alla lista. Io desideravo soltanto silenzio, oscurità e oblio. Inutile sperarlo, visto che ci trovavamo sull'Aventino, nell'ora più frenetica di una calda sera di maggio, in cui tutta Roma si apriva ai commerci e alla connivenza. Be', se non potevo attendermi la pace, mi meritavo almeno una coppa di vino. Ma la bambina aspettava fuori dal mio appartamento situato quasi al centro della Corte della Fontana e non appena la individuai sul ballatoio intuii che l'agognato ristoro avrebbe dovuto aspettare.

Ode per un banchiere

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La poesia non dovrebbe comportare rischi.
«Portati nella nostra nuova casa le tue tavolette per scrivere» suggerì Elena Giustina, l'elegante compagna della mia vita. Io ero ancora alle prese con la violenta emozione e lo sfinimento fisico che mi ero procurato durante un drammatico salvataggio sotto terra. Pubblicamente, il merito se l'erano preso i vigili, ma ero io il volontario pazzo che era stato calato a testa in già e legato con delle corde dentro un pozzo. Questo aveva fatto di me un eroe per circa un giorno, e il mio nome era stato citato (con la grafia scorretta) negli Acta Diurna. «Siediti e rilassati in giardino» mi blandì Elena, dopo che da alcune settimane mi aggiravo infuriato per il nostro minuscolo appartamento romano. «Puoi sorvegliare gli imprenditori edili che devono costruire i bagni.»

Assassinio alle terme

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Se non fosse stato per Rea Favonia probabilmente avremmo continuato a sopportarla.
«C'è una puzza! C'è una puzza spaventosa. Lì dentro non ci entro!»
Non occorreva essere un investigatore per rendersi conto che c'era ben poco da fare. Quando una bambina di quattro anni pensa di avere scoperto qualcosa di brutto, bisogna arrendersi e iniziare a cercarlo. La mia nipotina non si sarebbe avvicinata alle terme finché non avessimo dimostrato che non c'era niente di spaventoso nel calidarium. Più la prendevamo in giro e le spiegavamo che il calidarium puzzava soltanto a causa dell'intonaco nuovo, più Rea strillava come un'isterica non appena arrivava l'ora del bagno. Dato che in apparenza non si vedeva nulla, tutti noi cercavamo di ignorare la cosa. Ma l'insistenza della bambina ci scombussolava tutti.
In effetti si sentiva un leggero odore. Se cercavo di distinguerlo, però, spariva. E quando decidevo che non era niente, immediatamente tornavo ad avvertirlo.

Il mito di Giove

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«Dipende dal significato che vogliamo dare a "civilizzazione"» rifletteva il procuratore.
Guardando il cadavere, non ero dell'umore giusto per parlare di filosofia. Eravamo in Britannia, dove la legge era amministrata dall'esercito.
Certo, in un posto così lontano da Roma la giustizia funzionava in modo rozzo e spiccio, ma la situazione particolare indicava che questo omicidio sarebbe stato difficile da archiviare.
Eravamo stati chiamati da un centurione del piccolo distaccamento di truppe locali. La presenza dell'esercito a Londinium serviva più che altro per proteggere il governatore Giulio Frontino e il suo vice, il procuratore Ilare, ma siccome le province non erano presidiate dai vigiles, i soldati dovevano occuparsi anche delle attività di polizia ordinaria. Per questo il centurione che presenziava alla scena del crimine cominciava veramente a preoccuparsi: la morte violenta di uno del posto, in apparenza ordinaria, stava avendo degli "sviluppi".

Bibliografia

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  • Lindsey Davis, Le miniere dell'imperatore, traduzione di Maria Luisa Vesentini Ottolenghi, Il Giallo Mondadori n. 2360, Mondadori, Milano, 1994.
  • Lindsey Davis, Misteri imperiali, traduzione di Maria Luisa Vesentini Ottolenghi, Il Giallo Mondadori n. 2378, Mondadori, Milano, 1994.
  • Lindsey Davis, La Venere di Rame, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 1991. ISBN 9788843803507
  • Lindsey Davis, La mano di ferro, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 1992. ISBN 9788843803705
  • Lindsey Davis, L'oro di Poseidone, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 1993. ISBN 9788843804108
  • Lindsey Davis, Ultimo atto a Palmira, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 1994. ISBN 9788843803354
  • Lindsey Davis, Fuga o morte, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 1995. ISBN 9788843805464
  • Lindsey Davis, Notte a Corduba, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 1996. ISBN 9788843805853
  • Lindsey Davis, Tre mani nella fontana, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 1997. ISBN 978-88-438-0620-1
  • Lindsey Davis, In pasto ai leoni, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 1998. ISBN 978-88-558-0057-0
  • Lindsey Davis, Una vergine di troppo, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 1999. ISBN 978-88-558-0140-9
  • Lindsey Davis, Ode per un banchiere, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 2000. ISBN 978-88-558-0169-0
  • Lindsey Davis, Assassinio alle terme, traduzione di Maria Elena Vaccarini, Marco Tropea Editore, Milano, 2001. ISBN 9788855802154
  • Lindsey Davis, Il mito di Giove, traduzione di Laura Cianfriglia, Kogoi Edizioni, Milano, 2002. ISBN 9788898455386

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