Harry Sidebottom

storico e scrittore britannico

Harry Sidebottom (... — vivente), storico e scrittore britannico.

Incipit di alcune opere

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Il guerriero di Roma

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Fuoco a Oriente

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La guerra è un inferno. La guerra civile è ancora peggio. Quella guerra civile non stava andando bene. Niente stava andando secondo i piani. L'invasione dell'Italia si era arrestata.
Le truppe avevano dovuto affrontare l'attraversamento delle Alpi prima che nei passi il sole primaverile avesse sciolto le nevi. I soldati credevano che sarebbero stati accolti come liberatori. Era stato detto che sarebbe bastato semplicemente mettere piede in Italia per vedersi correre incontro la gente che tendeva rami d'ulivo, spingeva avanti i loro figli, e implorava misericordia gettandosi ai loro piedi.
Non era successo quello che avevano sperato. Erano venuti giù dalle montagne per arrivare in un paesaggio vuoto. Gli abitanti erano fuggiti, portando via tutto quello che erano riusciti a spostare. Persino le porte delle loro case e dei templi non c'erano più. Le pianure normalmente animate erano deserte. Mentre i soldati attraversavano la città di Emona, l'unica cosa in vita che avevano incontrato era un branco di lupi.
Ora, l'esercito era rimasto accampato per oltre un mese fuori dalle mura della città dell'Italia settentrionale Aquileia. Le legioni e gli ausiliari erano affamati, assetati e stanchi. Le catene di rifornimenti, improvvisate frettolosamente, si erano spezzate. Sul luogo non c'era nulla da mangiare. Quello che i cittadini non avevano raccolto all'interno delle mura, l'avevano distrutto i soldati stessi al loro arrivo. Non avevano riparo. Tutti gli edifici della periferia erano stati buttati giù per procurare il materiale necessario per le opere di assedio. Il fiume era stato inquinato dai cadaveri di entrambi gli schieramenti.
L'assedio non faceva progressi. Non si riusciva a fare breccia nelle mura, non c'erano abbastanza macchine d'assedio, la difesa era troppo efficace. Ogni tentativo di prendere d'assalto le mura con scale e torri mobili finiva in un sanguinoso fallimento.

Il re dei re

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Cavalcavano per portare in salvo le loro vite. Il primo giorno nel deserto avevano galoppato e galoppato, ma sempre senza forzare i cavalli. Erano completamente soli, e non c'era stata traccia di inseguitori. Quella sera, accampati, tra i bisbiglii delle conversazioni stanche, c'era stato un fragile accenno di ottimismo. Che andò in frantumi, irrevocabilmente, al sorgere del sole.
Quando giunsero sulla sommità di un lieve crinale, Marco Clodio Balista, il dux ripae, tirò il suo cavallo di lato, fuori dal sentiero accidentato, e lasciò che gli altri tredici cavalieri e il cavallo da soma lo superassero. Si voltò, e guardò la strada che avevano percorso. Il sole non era ancora alto, ma i suoi raggi avevano cominciato ad allontanare il buio della notte. E lì, al centro del crescente semicerchio di divina luce gialla, proprio nel punto in cui nel giro di pochi istanti il sole avrebbe spezzato l'orizzonte, c'era una colonna di polvere.
Balista la studiò con attenzione. La colonna era compatta e isolata. Si ergeva dritta e alta, finché una brezza la spinse verso sud per poi dissolverla. Nel deserto piatto e monotono era difficile calcolare le distanze. Quattro o cinque miglia, troppo lontano per vedere da cosa fosse generata. Ma Balista lo sapeva: era una truppa. E lì in pieno deserto, doveva trattarsi di una truppa a cavallo, o sui cammelli, o tutt'e due. La distanza era troppo grande per fare una stima accurata, ma per sollevare tutta quella polvere dovevano essere quattro o cinque volte più numerosi del gruppo di Balista. Il fatto che la colonna di polvere non si inclinasse a sinistra né a destra, ma sembrava sollevarsi perfettamente dritta, indicava che li stavano seguendo. Balista accettò la cosa per quella che era: il nemico li stava seguendo, una massa di persiani sassanidi era sulle loro tracce.

Sole bianco

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L'imperatore strizzò gli occhi infastidito, uscendo alla luce del sole. Sembrò sussultare quando l'ufficiale di corte pronunciò il suo titolo completo, in latino: «Imperator Caesar Publius Licinius Valerianus Augustus, Pius Felix, Pater Patriae, Germanicus Maximus, Invictus, Restitutor Orbis». Al segnale, un cavallo fu fatto avanzare. I finimenti brillavano d'oro e d'argento e le bardature erano di color rosso imperiale. Senza aver bisogno di alcuna sollecitazione, il vecchio imperatore camminò verso il cavallo. Come era già accaduto molte volte negli ultimi giorni, piegò un ginocchio, poi l'altro. Dopo una breve pausa, comprensibile per qualcuno della sua età, si mise giù carponi, con i gomiti nella polvere. Trascorse un lasso di tempo che sembrò eterno. Il cavallo sfiatò e buttò l'aria dalle labbra, irrompendo nel silenzio del campo. Il sole scottava sulla schiena dell'imperatore.
Il suono dei passi di un altro uomo che procedeva verso il cavallo ruppe quel silenzio quasi totale. Con la coda dell'occhio, l'imperatore riuscì a vedere un paio di stivali color porpora. Volutamente, quello più a sinistra fu sollevato e appoggiato sul suo collo. Com'era già accaduto molte volte, colui che lo indossava fece un po' di pressione col piede, prima di parlare.
«Questa è la verità, non quella che i romani cercano di far passare con le statue e i dipinti», dichiarò, mentre si issava la sella, e il suo peso faceva forza sul suo imperiale sgabello. «Io sono il divino Shapur, l'adoratore di Mazda, re dei re degli ariani e non ariani, della stirpe degli dèi, figlio del divino Ardashir, adoratore di Mazda, re dei re degli ariani, della stirpe degli dèi, nipote del re Papak, della casa di Sasan; sono il Signore della Nazione ariana. Voi, potenti, guardate alle mie opere e tremate».
Balista, il generale romano protettore dei confini del lontano Nord, stava lungo, disteso nella polvere e osservata. La sua riluttante proskynesis, o postura di adorazione, era imposta dalle guardie, dalla minaccia di essere pestato, o peggio ancora, ed era amplificata da quello che restava dell'alto comando romano. Successiano, il prefetto pretorio, Cledonio, l'ab admissionibus, Camillo, il comandante della Legio VII Gallicana - tutti coloro che ricoprivano un ruolo di una qualche importanza ed erano stati sul campo di battaglia - erano tutti lì. Il mondo era stato capovolto, l'intero universo scosso. Per la prima volta, un imperatore romano era stato catturato dai barbari. Balista riusciva a percepire l'oltraggio e la vergogna dei suoi commilitoni che erano obbligati ad assistere all'umiliazione di Valeriano - il pio, fortunato, invincibile imperatore dei romani, il restauratore del mondo - a terra, inginocchiato e vestito come uno schiavo.

Il silenzio della spada

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Era ferito e disarcionato, ma vivo. In cima al pendio c'era un boschetto di pini di montagna. Nascondendosi, con le spalle contro un albero, l'uomo cercò di capire se lo stessero ancora inseguendo ma udì soltanto il proprio respiro rantolante.
L'asta della freccia si era spezzata quando era caduto da cavallo. La punta, però, ce l'aveva ancora conficcata nel bicipite sinistro. Il sangue gli scendeva caldo dal braccio. Il dolore arrivava a ondate insopportabili.
Era stato stupido ad accettare di partecipare a una caccia all'orso. Solitarie forre boscose, uomini armati in abbondanza: era fin troppo facile restare isolati e magari subire un incidente. Era stato stupido a fidarsi di suo fratello. C'era stato sempre qualcosa di strano nei più piccoli della famiglia. Si era fidato della presenza della sorella con la sua scorta. Se solo le fosse rimasto vicino. In tal caso, il fratello e i suoi seguaci non avrebbero tentato nulla. L'uomo sapeva di essere stato uno stupido, e di non potersi più salvare, ormai. Si disperò.
Non era giusto, soprattutto per un discendente di Prometeo. L'uomo cercò di controllare i propri singhiozzi. Sulle cime di quelle montagne, Prometeo era stato perseguitato. Il vendicativo Zeus l'aveva incatenato. Ogni giorno, al levar del sole, arrivava l'aquila - col suo crudele becco affilato che affondava nella carne morbida, strappandola e tagliandola - e trangugiava a pezzi il gustoso fegato scuro di Prometeo. Al sopraggiungere delle tenebre, l'aquila se ne andava. Mentre i venti freddi soffiavano e la neve turbinava, il fegato guariva miracolosamente. Poi, all'alba, l'aquila tornava. Trent'anni di quel tormento, finché Eracle non aveva ucciso l'aquila e liberato l'antenato dell'uomo.
Prometeo era un esempio di resistenza, di sofferenza superata, di redenzione estrema. Chi avrebbe potuto imitarlo meglio di un suo lontano discendente? L'uomo fece un respiro più lento e profondo; era ancora molto provato, ma più padrone di sé. Si sforzò di scacciare il dolore e restò immobile, in ascolto. Tutt'attorno regnava un silenzio tale da poter seguire una zanzara ascoltandone il ronzio.

La battaglia dei lupi

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Panticapeo, regno del Bosforo, primavera 263 d.C.

Nel cortile vuoto, l'assassino era in ascolto e fiutava l'aria. L'odore di carbone, i suoni lontani della lavorazione del metallo; non c'era niente di inconsueto. La casa, come tutte quelle della fila, era da tempo abbandonata. Eppure era valsa la pena di controllare; gli edifici deserti attraevano gli ubriachi, i vagabondi e, pensò con una smorfia l'assassino, gli amanti senza posto dove andare.
Il sole si stava spostando verso la grande Porta Occidentale, verso le doppie mura e il fossato che ripetutamente avevano fallito nel compito di proteggere la città di Panticapeo. Nella direzione opposta c'era l'acropoli. Lì, il flebile sole primaverile colpiva il Faro, che nessuno osava accendere per timore delle navi che poteva attirare, e il tempio di Apollo Iatros, la casa che il dio arciere si era dimostrato non intenzionato a difendere. Davanti a questi simboli di un ellenismo in pericolo, si ergeva, annerito dal fuoco e più volte restaurato, il palazzo del re del Bosforo. Rescuporide V, amante di Cesare, amante di Roma, si definiva Gran Re, Re dei Re e molto altro. Ai confinanti nomadi barbari era noto come il Re Straccione. L'assassino non provava altro che piacere nella dimostrazione che gli uomini malvagi attiravano il male su di sé.
Adesso sarebbe stato facile andarsene via. Ma presto sarebbe calata la notte. L'assassino sapeva fin troppo bene cosa poteva portare il buio se non avesse intrapreso le azioni necessarie. Il sedicente Segugio degli Dèi, il Flagello del Male, ritornò in casa.
Il corpo giaceva sulla schiena, nudo nel rettangolo di luce creato dalla porta. L'assassino andò alla sacca di cuoio e ne tirò fuori un pezzo di corda, un bisturi, un coltello con la lama seghettata e una grossa mannaia come quelle usate nei mercati della carne. La dura esperienza gli aveva insegnato che quei terribili oggetti erano necessari.

Il trionfo dell'impero

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Gallia Belgica, 262 d.C.
Alla fine, le città mostrano sempre le stesse cicatrici.
Era stato troppo facile, pensò Starkad. Nell'interminabile viaggio, solo una nave era andata perduta. Non avevano trovato pattuglie romane nel Canale delle Gallie né vedette sulle scogliere che bordavano l'estuario. Le capanne dei pescatori dove avevano riparato le lunghe navi erano abbandonate. Non una sola anima li aveva disturbati nelle restanti ore della giornata. Solo le loro ingombranti ombre e una volpe in caccia avevano assistito alla marcia nell'entroterra all'infida luce delle stelle. La cittadina di Augusta Ambianorum non aveva cinta muraria. Nessun'oca aveva starnazzato e nessun cane aveva tradito il loro arrivo. Nessun richiamo della natura né provvidenziale divinità aveva destato dal sonno un cittadini perché desse l'allarme. I lupi di mare avevano circondato la cittadina, un manipolo per ogni strada. Una volta soddisfatto, l'atheling Arkil aveva dato il segnale. Gli Angli si erano dati al saccheggio navigato entusiasmo e lo zelo di uomini da troppo tempo in mare. Dopo un assalto così repentino, si era prospettata una lunga notte per tante delle sventurate donne del posto, fin troppo breve e definitiva invece per alcuni dei loro uomini.

Il trono di Cesare

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Combatti per il potere

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Frontiera settentrionale.
Accampamento nei pressi di Mogotiacum[1]
Otto giorni prima delle Idi di marzo, 235 d.C.

Tenetemi al sicuro nelle vostre mani.
Il sole doveva essere sorto ormai da un pezzo, ma ne filtrava ben poco nel sancta sanctorum del grande padiglione.
Dèi tutti, tenetemi al sicuro nelle vostre mani. Il giovane imperatore pregava in silenzio, muovendo solo la bocca. Giove, Apollonio, Cristo, Abramo, Orfeo: fate che arrivi illeso alla fine del giorno.
Alla luce della lampada, l'eclettica gamma di divinità lo osservava impassibile.
Alessandro, Augusto, Grande Madre: vegliate sul vostro eletto, vegliate sul trono dei Cesari.
Suoni, come lo squittio di pipistrelli disturbati, al di là del piccolo santuario degli dèi domestici, al di là delle pesanti cortine di seta, interruppero le sue preghiere. Da qualche parte, negli ultimi recessi del labirinto di corridoi e spazi recintati e ombreggiati di viola, giunse lo schianto di qualcosa che si rompeva. Tutti gli attendenti imperiali erano sciocchi. Sciocchi maldestri e codardi. I soldati si erano già ammutinati in precedenza. Al pari di quei disordini, si sarebbe risolto anche questo, e a quel punto i membri del seguito che avevano abbandonato i propri doveri o approfittato del putiferio avrebbero sofferto. Se uno schiavo o un liberto aveva rubato, gli sarebbero stati recisi i tendini delle mani. In quel modo non avrebbe potuto rifarlo. Sarebbe servito da lezione. Alla familia Caesaris serviva costante disciplina.

Il prezzo del potere

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Roma. Palatino. Il giorno prima delle None di marzo, 238 d.C.

Era ancora buio. Al prefetto pretoriano piaceva passeggiare nei giardini imperiali prima dell'alba. Nessun assistente lo accompagnava e non portava con sé alcuna torcia. Era un momento di quiete e solitudine, un momento dedicato alla riflessione, prima dei doveri del giorno, i doveri che sembravano allungarsi come un viaggio seccante senza fine apparente.
Vitaliano pensava spesso di ritirarsi, di vivere in tranquillità in campagna con moglie e figlie. Immaginò la casa in Etruria. La Via Aurelia e l'operosa cittadina commerciale di Telamone erano a solo un paio di miglia al di là della collina, ma era come se appartenessero a un paese o un'epoca diversi. La villa, situata tra a costa e i pendii a terrazza, si affacciava sul mare. Era stato suo nonno a costruirla. Vitaliano aveva fatto aggiungere due nuove ali e una stanza da bagno. La tenuta adesso si estendeva nell'entroterra lungo entrambe le sponde dell'Umbro. Era ideale per la pensione, per leggere e scrivere, apprezzare il panorama, passare il tempo con sua moglie e godersi la compagnia delle figlie negli anni che restavano prima che si sposassero. Nessun luogo era più adatto per mettere da parte le preoccupazioni del lavoro.
Vitaliano si era guadagnato senz'altro il tempo del riposo. La sua carriera era stata lunga: comandante di una coorte ausiliaria in Britannia, tribuno legionario della Terza Augusta in Africa, prefetto di un'unità di cavalleria in Germania, procuratore delle finanze imperiali in Cirenaica, quattro anni con la cavalleria mauritana che aveva condotto attraverso la campagna orientale e poi sul Reno. Decenni di servizio, in lungo e largo per l'impero. Non era più giovane: aveva più di cinquant'anni e bisogno di riposare. Ma il dovere chiamava ancora e l'aumento del suo patrimonio non era stato ottenuto a poco prezzo. Bastavano ancora tre o quattro anni di stipendio e altri guadagni come prefetto pretoriano e avrebbe potuto dire basta.

Il fuoco e la spada

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Africa. La città di Cartagine
Otto giorni prima delle Calende di aprile, 238 d.C.

«Deponete le armi!».
Parlando, Capeliano si voltò sulla sella ed esaminò il nemico. Su entrambi i fianchi le leve avversarie fuggivano sotto l'acquedotto, precipitandosi tra le tombe verso l'illusoria sicurezza delle mura di Cartagine. I suoi ausiliari invece, abbandonata qualsiasi disciplina, le inseguivano colpendole alle spalle inermi. Lì al centro, metà dei regolari nemici aveva deposto armi e vessilli e tendeva le mani in gesto di supplica. Solo un migliaio ancora gli si opponeva: la corte urbana e i giovani che costituivano la posticcia Guardia Pretoriana dei due usurpatori. Bastava convincerli e disarmarli e la vittoria sarebbe stata completa. L'Africa sarebbe tornata a Massimino e la rivolta dei Gordiani soffocata. Non una semplice battaglia, ma un massacro.
«Deponete le armi, compagni. La vostra lotta è finita».
Degli occhi spaventati lo fissarono oltre il muro di scudi a pochi passi di distanza. Erano sovrastati in ragione di due a uno. Questi pretoriani addestrati sul posto non erano veri soldati. Non c'era traccia del giovane Gordiano.
«Il vostro falso imperatore è fuggito. Coloro che vi hanno fuorviati sono fuggiti. Nessun ufficiale a cavallo è rimasto sotto i vostri stendardi».
Ma il nemico ancora non si muoveva.
«Rompete il vostro giuramento militare. Siete stati ingannati. La clemenza del vostro vero imperatore Massimino è infinita. Io sono misericordioso. Non ci sarà alcuna rappresaglia».
Un movimento tra le file avversarie. Un uomo alto e massiccio si fece largo verso la prima linea. Era a capo scoperto.
Capeliano comprese il suo errore. Il suo rivale non era fuggito.
Gordiano il Giovane si fece avanti, come una terribile e marziale apparizione.
Il frastuono del massacro era lontano. In quell'inquietante silenzio, lì nell'occhio del ciclone, Gordiano urlò:
«Resteremo uniti fino alla fine!».

Ombre e sangue (2.5)

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Cartagine, dieci giorni dopo le Idi di marzo, 238 d.C.

Faraxen era disteso sul tetto del magazzino. L'odore del pesce dai laghetti e dai capanni di eviscerazione gli saturava le narici.
Insieme a lui c'erano un altro centurione e Maurizio, il comandante della cavalleria. Avevano lasciato gli elmi di sotto, dove aspettavano gli altri ufficiali, e si erano avvolti in mantelli col cappuccio di colore sbiadito come i muri di fango del comprensorio. Il tetto era piatto e aveva un bordo sollevato. Se non facevano movimenti bruschi, i tre uomini erano quasi invisibili da lontano.
A sed-est, a sinistra, oltre l'acquedotto c'era la necropoli e al di là delle tombe si ergevano le porte e le mura di Cartagine. Gli alti bastioni erano gremiti di spettatori. Era una folla chiassosa, come a una festività. Musicanti e venditori di cibo si facevano largo in mezzo alla gente. Gli abitanti della città erano degli sciocchi, pensò Faraxen. Sciocchi perché consideravano l'imminente battaglia come se non fosse altro che uno spettacolo, una rappresentazione come tante all'anfiteatro o al circo, una sorta di intrattenimento organizzato per il loro svago. Menti e corpi erano stati corrotti da pace e sicurezza, dal lusso e dal vizio di quella città. Se quel giorno i Gordiani avessero perso, il popolo di Cartagine avrebbe scoperto che la guerra era ben più di uno spettacolo.
Dritto davanti a sé, la piana di fronte al guazzabuglio di muri ed edifici attorno ai laghi di pesca era vuota. Il fianco destro dell'esercito era distante circa trecento passi. Il corpo principale, una solida falange di fanteria, si estendeva parallela all'acquedotto, rivolta a ovest. L'ala sinistra era ancorata alla villa di Sesto, più a sud.
Oltre ottomila uomini, altri duemila armati di archi e fionde in prima linea. Una vista impressionante per chi non conosceva la guerra.

Segreti e bugie (3.5)

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A nord di Roma, poco dopo Ponte Milvio, la strada si biforcava. Con la città alle loro spalle, la Via Flaminia attraversava un paesaggio scandito dalle tenute di grandi ville. Sulla destra, le pecore pascolavano su prati ricchi d'acqua. Nei punti cui facevano capolino tra un bordo di salici, le acque del Tevere erano verdi e placide. C'erano anatre che volavano sul fiume.
Giulio Burdone osservava la scena pastorale senza però distogliere del tutto l'attenzione dal suo compagno di viaggio. Aveva superato la cinquantina e un frumentarius non viveva tanto a lungo se si abbandonava con la mente a oziose fantasie. Non quanto era in missione.
Il sicario Castricio sedeva in silenzio, guardando il nulla, immerso in se stesso. Aveva il braccio sinistro fasciato e stringeva in grembo uno zaino di tela.
Burdone si sistemò la cintura della spada. Gli affondava nella pancia. Si era appesantito con l'età. Era stanco. I suoi sogni non erano stati propizi. La notte prima aveva sognato di essere di nuovo giovane, nella fattoria di suo padre in Pannonia, presso il Danubio. Una nidiata di quaglie aveva attraversato il fango del cortile. Era un brutto segno. Le quaglie significavano cattive notizie da oltremare. Da oltremare perché provenivano dall'estero, brutte perché gli uccelli sono bellicosi ma pusillanimi. Nel caso di collaborazioni professionali, matrimoni e transazioni finanziarie, sono simboli di discordia e contesa. E sono infausti nel caso di viaggi all'estero. Poiché indicano trappole, insidie, imboscate.
Castricio si mosse impercettibilmente, tastandosi la fasciatura. Burdone si irrigidì e fece scivolare la mano verso l'elsa. Castricio posò lo zaino accanto a sé sul sedile, tornò ad appoggiare la testa ai cuscini e chiuse gli occhi. Burdone non si rilassò subito.

L'ultimo giorno dell'impero

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Mausoleo di Adriano
Il giorno prima delle calende di aprile

«L'ultima ora». Il moribondo giaceva a terra, appoggiato al muro, con le mani premute sulla ferita al ventre.
Balista si chinò su di lui. «L'ultima ora di cosa?»
«Domani. L'ultima ora del giorno. Uccideranno l'imperatore quando lascerà il Colosseo».
Un rumore giunse da qualche parte sotto di loro, nelle profondità della tomba.
Balista andò alla porta, scavalcando con cautela i due cadaveri.
Suono di stivali, suole chiodate sulla pietra, sferragliare di armi. Uomini armati all'entrata del mausoleo. Erano numerosi. Stavano salendo su per le scale.
Balista tornò nella stanza.
«Aiutami», disse l'uomo ferito.
Balista lo schiaffeggiò. «Chi?»
«Non l'hanno detto».
Balista lo colpì di nuovo.
«Per favore. Non lo so».
Balista gli credette.
«Non lasciarmi qui».
Balista aveva ucciso i due sicari quando aveva fatto irruzione dalla porta, ma era stato troppo tardi per salvare l'informatore. Tuttavia aveva scoperto l'ora e il luogo.
«Per favore».
La missione non era fallita, non se Balista fosse riuscito a fuggire. Si alzò.
«Mi uccideranno».
Balista andò alla porta. I rumori erano più vicini.
«Non puoi lasciarmi».
Non c'era modo di scendere. Doveva salire. Balista girò a sinistra e prese le scale due gradini alla volta.
«Bastardo di un barbaro!».
Balista salì come un forsennato.
«Bastardo!».

Gli ultimi eroi di Roma

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Castello del silenzio

Nessuno aveva mai fatto ritorno dal Castello del silenzio.
La torre oscura, con le sue alte mura esterne, sorgeva su una stretta rupe tra i monte Elburz. La remote prigione-fortezza era inespugnabile. Non si sapeva più nulla dei prigionieri che ne varcavano le porte. Perfino fare i loro nomi era un reato capitale. I greci lo chiamavano il Luogo dell'Oblio.
Barbad l'eunuco osservava l'orribile scena. Dapprima, sui contrafforti montuosi, avevano viaggiato attraverso boschi di faggi e querce. Cervi brucavano nelle radure. Il convoglio aveva diviso la strada con i pastori che guidavano il bestiame verso gli alti pascoli sotto il sole di primavera. Adesso si trovavano in un mondo diverso. Gli unici alberi erano rachitici ginepri, le sole creature viventi gli avvoltoi incuranti dei venti gelidi, che sferzavano i frastagliati precipizi grigi. In lontananza, le vette più alte mostravano ancora un cappuccio nevoso.
Barbad si rimise a sedere e lasciò ricadere la cortina sull'apertura del carro. Il freddo gli mordeva la pelle avvizzita, gli faceva dolere le vecchie ossa. Lanciò un'occhiata al principe Sasan. Il ragazzo sedeva con la schiena dritta e immobile. I suoi occhi scuri non tradivano alcuna emozione. Barbad era fiero di lui. Il giovane era stato cresciuto per cavalcare, tirare con l'arco e aborrire la Menzogna scura dell'infedeltà. Niente l'aveva preparato a questo. Non era colpa sua. Nessuno avrebbe dovuto biasimare suo padre. Il principe Papak non era stato un senza fede. Barbad conosceva la verità. Barbad era stato presente, aveva visto tutto con i suoi occhi.

Il ritorno del centurione

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609 Ab Urbe Condita (145 a.C.)

Solo un pazzo o un uomo stanco di vivere si sarebbe avventurato da solo nella foresta della Sila.
Paolo fece fermare i muli. Il terreno lì era ancora pianeggiante. Il grano era quasi pronto per la mietitura, solo qualche punta di verde macchiava ancora le spighe dorate. I campi si stendevano a perdita d'occhio. Nessuna minaccia in agguato. Se non quella che aveva di fronte.
Legò i muli uno dietro l'altro, lasciando le redini a terra. Erano animali ubbidienti, nono sarebbero scappati via a meno che qualcosa non li avesse spaventati. Paolo scrutò attentamente il paesaggio che aveva intorno. Una brezza gentile faceva ondulare con dolcezza le spighe. Era l'unico movimento che riusciva a scorgere. Non un solo uccello solcava il cielo. Sotto il sole di un torrido mezzogiorno, tutto sembrava sonnecchiare placidamente.
Paolo controllò il carico del primo mulo. Gran parte del bottino era lì, coperto con cura per non dare nell'occhio. Quando fu soddisfatto, passò all'altra bestia. A parte pochi oggetti preziosi, ben nascosti, questo mulo trasportava il bagaglio abituale: qualcosa da mangiare e da bere, abiti di ricambio, lo scudo nella custodia da viaggio in pelle legato a un fianco dell'animale, e i suoi giavellotti (un pilum leggero e uno pesante) avvolti in teli sull'altro fianco. Il carico si era spostato troppo in avanti.

I ribelli di Roma

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265 d.C., 5 novembre

Il sapore della vendetta era dolce. Rosso come il fuoco rovente. E ora che aveva dato il primo morso, la fame era diventata insaziabile. Ma più di ogni altra cosa, bramava la libertà. Finalmente aveva di nuovo una spada in mano, e non avrebbe esitato a uccidere chiunque si fosse messo tra lui e la sua libertà.
Avvolto dal calore della notte siciliana, Croco ripensò ai suoi cinque lunghi anni di schiavitù. Tanto era passato da quando gli Alemanni erano stati sconfitti in battaglia alle porte di Mediolanum: cinque anni di amara schiavitù sotto il giogo romano. L'avevano portato su quell'isola, incatenato nella stiva fetida di una nave insieme ad altri uomini della tribù. Al molo, erano stati venduti all'asta a uno a uno, costretti a rimanere nudi e inermi. All'inizio il suo padrone, un uomo di nome Bicono, l'aveva messo a lavorare nei campi. Giornate infinite passate a faticare sotto il sole cocente, più caldo di quanto avrebbe mai potuto immaginare quando era ancora un uomo libero, nelle sue terre d'origine a nord del Reno. Una volta aveva provato a fuggire, ma l'avevano catturato e marchiato come una bestia: una F impressa sulla fronte, a indicare che era un fugitivus. E la pella gli puzzava ancora di carne bruciata, quando gli avevano rasato i lunghi capelli, l'orgoglio di qualsiasi guerriero nordico, e l'avevano rinchiuso a lavorare nel mulino.
Tre anni spesi lì, a faticare come un mulo insieme agli altri derelitti: con i ferri alle caviglie e le cicatrici delle frustate sulla schiena, tutto il giorno a girare in tondo spingendo una pertica per far ruotare la pesante macina di pietra. La pelle del colore della cenere, il volto pallido, dimentico della lcue del sole, gli occhi così infiammati da riuscire a malapena a vedere di fronte a sé. Non tutti erano sopravvissuti a quei tre anni. I morti erano stati rimpiazzati, e quattro dei nuovi arrivati erano pastori alemanni accusati di furto. Nemmeno un di loro era stato liberato: né gli Alemanni, né gli altri.
Ma quella sera, ala mulino, era arrivata l'ora della vendetta. Approfittando di un momento di confusione, Croco aveva strangolato con le sue stesse catene il primo guardiano, e con la spada tolta al cadavere ne aveva stesi altri due. Il loro sangue aveva macchiato di rosso la farina nella macina. Da quanto tempo Croco non provava quel piacere...
«Soter ci aspetta», disse una voce nel buio. «È ora di andare».

Bibliografia

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  • Harry Sidebottom, Il guerriero di Roma. Fuoco a Oriente, traduzione di Susanna Scrivo, Newton Compton, 2009. ISBN 978-88-541-1700-6
  • Harry Sidebottom, Il guerriero di Roma. Il re dei re, traduzione di Susanna Scrivo, Newton Compton, 2010. ISBN 978-88-541-1657-3
  • Harry Sidebottom, Il guerriero di Roma. Sole bianco, traduzione di Elisabetta Bertozzi, Newton Compton, 2011. ISBN 978-88-541-2815-6
  • Harry Sidebottom, Il guerriero di Roma. Il silenzio della spada, traduzione di Giampiero Cara, Newton Compton, 2012. ISBN 978-88-541-3968-8
  • Harry Sidebottom, Il guerriero di Roma. La battaglia dei lupi, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton, 2014. ISBN 978-88-541-6034-7
  • Harry Sidebottom, Il guerriero di Roma. Il trionfo dell'impero, traduzione di Rosa Prencipe e Francesca Noto, Newton Compton, 2017. ISBN 978-88-227-1139-7
  • Harry Sidebottom, Il trono di Cesare. Combatti per il potere, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton, 2014. ISBN 978-88-541-6934-0
  • Harry Sidebottom, Il trono di Cesare. Il prezzo del potere, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton, 2015. ISBN 978-88-227-0526-6
  • Harry Sidebottom, Il trono di Cesare. Il fuoco e la spada, traduzione di Lucilla Rodinò, Newton Compton, 2017. ISBN 978-88-227-0068-1
  • Harry Sidebottom, Il trono di Cesare. Ombre e sangue, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton, 2016. ISBN 978-88-227-0526-6
  • Harry Sidebottom, Il trono di Cesare. Segreti e bugie, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton, 2017. ISBN 978-88-227-0272-2
  • Harry Sidebottom, L'ultimo giorno dell'impero, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton, 2018. ISBN 978-88-227-1949-2
  • Harry Sidebottom, Gli ultimi eroi di Roma, traduzione di Rosa Prencipe, Newton Compton, 2019. ISBN 978-88-227-3038-1
  • Harry Sidebottom, Il ritorno del centurione, traduzione di Vittorio Ambrosio, Newton Compton, 2020. ISBN 978-88-227-4064-9
  • Harry Sidebottom, I ribelli di Roma, traduzione di Vittorio Ambrosio, Newton Compton, 2022. ISBN 978-88-227-6338-9
  1. Magonza

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