Guglielmo Massaia
missionario, arcivescovo cattolico e cardinale italiano (1809-1889)
Guglielmo Massaia, al secolo Lorenzo Antonio Massaia (1809 – 1889), missionario, cardinale e arcivescovo italiano.
I miei trentacinque anni di missione nell'Alta Etiopia
modifica- Il signor Antonio D'Abbadie rimase in Abissinia sino al 1846, mantenendo sempre una condotta veramente cristiana, studiando le lingue di quei paesi, facendo osservazioni scientifiche, e raccogliendo libri e manoscritti indigeni con grandi sue fatiche e non minori spese. Fra tutti i viaggiatori, che lo precedettero e lo seguirono, nessuno, come lui lasciò tra quei popoli memoria così cara ed edificante; e tutti ricordano le sue assidue fatiche e la sua incorrotta morale: sicché, io, assai anni dopo, nei diversi paesi ch'ebbi a percorrere, trovai che molti, parlando di lui, stentavano a credere ch'egli non fosse Monaco o Prete. (vol. primo, p. 2)
- [Sui cristiani di Alessandria d'Egitto] [...] questi benedetti Cristiani orientali, scissi dal corpo della Chiesa cattolica, sotto il ferreo gioco dei Turchi e degli Arabi, talmente si abbassarono ed avvilirono nella schiavitù, che, invece d'innalzare la loro fede religiosa, e rendersi di edificazione ai loro dominatori infedeli, come avevano fatto i Cattolici occidentali con i Goti ed altri popoli barbari, si rendettero piuttosto occasione di scandalo. Poiché, essendo quasi spenta la loro fede interiore, e mantenuta solo in alcune pratiche esteriori, in molti punti della loro morale caddero più basso degli stessi Mussulmani, i cui costumi anzi si studiavano d'imitare come il mancipio[1] suol fare col padrone. (vol. primo, pp. 12-13)
- Teodoro [...] divenuto poi Imperatore, sebbene crudele e despota feroce, si rese tuttavia assai benemerito dell'Abissinia, sradicando questa schiatta mussulmana, che vi aveva regnato più di mezzo secolo, scristianizzando e riducendo sotto il giogo dell'Islamismo quelle popolazioni. (vol. primo, p. 93)
- Oggi né in Abissinia, né in Ifagh si trova un bicchier di vino; perché la coltivazione della vite venne totalmente abbandonata sotto il regno di Teodoro. Questo Principe, divenuto padrone di quei paesi, volle per sé tutto il vino che produceva Carròda, e giunta la stagione della raccolta, vi mandava uno sciame di guardie, per invigilare il frutto, e poscia portarne via tutto il prodotto. I poveri paesani adunque non solo dovevano faticare senza aspettarsi alcun compenso, ma per maggior fastidio erano costretti a mantenere le guardie, e soffrire tutte le vessazioni e sfrenatezze, di cui quegl'indisciplinati soldati si rendono bene spesso colpevoli. Per liberarsene, fecero in maniera che le viti a poco a poco assecchissero, e così si perdette totalmente quell'industria. Quasi lo stesso avvenne del grano, che le popolazioni coltivavano, e l'Imperatore raccoglieva per isfamare i suoi soldati, talmenteché negli ultimi anni del suo dominio, l'Etiopia era afflitta da una grande carestia. (vol. primo, p. 99)
- In Abissinia ed in tutti i paesi africani, se la superstizione ed i pregiudizi dominano rispetto a qualunque malattia, pel vajolo poi in modo straordinario. Si crede da tutti che il vajolo sia un essere soprannaturale, un genio malefico, cui torna vano il resistere, e solo potrà in qualche maniera placarsi con sacrifizj ed oblazioni. (vol. terzo, pp. 11-12)
- L'Abissino poi, benché povero e pezzente, e viva in casa sua con modicissimo pasto, trovandosi fuori del suo paese ed in casa altrui, diventa incontentabile; e se non gli si dà quel cibo che domanda, e cucinato a gusto suo, mormora senza discrezione. Egli inoltre, riputandosi superiore alla razza galla, quantunque non sia né meno ignorante, né meno barbaro, anzi forse più miserabile e più corrotto, tiene quella gente per selvaggia e schiava, e non ha per essi che disprezzo. Me quest'orgoglio degli Abissini può essere tollerabile trovandosi nel loro paese, si rende ridicolo ed insoffribile quando ne vogliano fare ostentazione nei paesi altrui. (vol. quarto, p. 129)
- Ora, sembra incredibile, in tempo di Teodoro, tante vittime umane furono mietute dalle guerre, e tanti animali perirono per fame, o perché abbandonati, da non trovarsi un numero sufficiente di jene, di lupi e di avoltoj da divorarli e distruggerli! (vol. settimo, p.8)
- La potenza del suo ingegno era grande: nuovo Napoleone africano, avrebbe potuto formare dell'Abissinia e degli altri confinanti regni etiopici un grande e florido impero: ma invece sembra che Dio l'avesse mandato per distruggere il paese, che gli aveva dato i natali. Ecco le principali sue doti: parola vibrata che incantava i soldati, ed alla quale nessuno osava opporsi; silenzio e mistero rispetto alle imprese che intendeva compiere, cosicché centomila uomini dovevano seguirlo, senza sapere che volesse e dove mirasse; marciate a gran corsa da giungere all'improvviso ed in un'ora od in un giorno dove prima si arrivava in due; disegni di guerra grandiosi e mirabili, e strategie sino allora ignote; imperturbabilità di animo nei cimenti, nei pericoli, nelle vittorie, nelle disfatte, e nell'applicare i rigori della sua ira contro i vinti. Tolte queste qualità, proprie di un celebre conquistatore, in fatto di Governo non valeva nulla, e nulla fece per riordinare l'Abissinia, e godere delle vittorie riportate e delle conquiste compite. Grande nel concepire ed eseguire un disegno; raggiunto l'intento, mandava a male con le sue stranezze ogni cosa. (vol. settimo, pp. 8-9)
- Finché ebbe pane e carne da mantenere l'esercito, Teodoro fu potente: ma non dandone il Beghemèder, né trovandone altrove, né avendo più la forza ed il coraggio di assalire popoli lontani, presto scese dal piedestallo, su cui erasi elevato. Abbandonato dalla maggior parte dei soldati, inviso ai popoli vicini, odiato ed esecrato dai lontani, si ritirò in Magdala, dove, come nel resto dell'Abissinia, morivasi di fame. E sopreso là dagl'Inglesi, obbrobriosamente vi perdette la vita. Se almeno si fosse umiliato alla potenza europea, forse non avrebbe perduto con la vita l'impero; e se non egli, probabilmente i suoi discendenti sarebbero rimasti sul trono etiopico. (vol. settimo, p. 11)
- [Su Menelik II] Abissino anch'esso, con pochi bisogni nel metodo di vita, ed estraneo a tutte le puerili invenzioni e ricercatezze delle mode europee, pensava e parlava come gli altri indigeni. (vol. decimo, p. 114)
Citazioni su Guglielmo Massaia
modifica- Egli voleva entrare fra i Galla[2] evitando l'Abissinia. Si trovò a viaggiare con una compagnia di mercanti musulmani, lui vescovo senza poter manifestare la sua dignità, cristiano senza poter mostrare di esserlo, mercante senza saper negoziare; obbligato ad una severità morale, tanto più necessaria quanto più insolentiva la scostumatezza dei compagni, circondato da gente mezzo selvaggia senza una persona amica. Poté farsi un po' amico un vecchio, musulmano anch'esso, che si assumeva di aiutarlo a vendere sul mercato di Luka quelle poche robe messe in mostra, e di cui – com'è facile comprendere – il nostro Missionario in veste di mercante turco, non si occupava, intento com'era a prendere informazioni sul modo di passare fra i Galla. Ma il suo imbarazzo divenne grave quando incominciarono ad accorgersi che egli era un Frangi e quando finì per essere preso a bastonate come cristiano e spia. In quel frangente invocò il nome di Kassa, il sovrano abissino, che poi fu Teodoro[3], assai temuto in paese: e tosto quella furia cessò e due soldati abissini che là si trovarono lo difesero, e furono ringraziati da un buon regalo di tabacco e di pepe, che il nostro Missionario poté offrir loro. (Cosimo Bertacchi)
Note
modificaBibliografia
modifica- Guglielmo Massaia, I miei trentacinque anni di missione nell'Alta Etiopia, vol. primo, Società Tipografica A. Manuzio, Roma, 1921.
- Guglielmo Massaia, op. citata, vol. terzo, Società Tipografica A. Manuzio, Roma, 1923.
- Guglielmo Massaia, op. citata, vol. terzo, Società Tipografica A. Manuzio, Roma, 1923.
- Guglielmo Massaia, op. citata, vol. quarto, Società Tipografica A. Manuzio, Roma, 1923.
- Guglielmo Massaia, op. citata, vol. decimo, Società Tipografica A. Manuzio, Roma, 1928.
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