Giulio Castelli

giornalista e scrittore italiano

Giulio Castelli (1938 — vivente), giornalista e scrittore italiano.

Incipit di alcune opere

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Il fascistibile

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Attraverso la vetrina della Banca Regionale Luca filtrò le immagini della strada. Le scompose fino al punto di non vedere più niente di preciso. Il suo problema immediato era di sapere che impressione le aveva fatto con la sua proposta. Pensava a Deila come a Laura ai piedi del Monte Ventoso o piuttosto come ad Ali McGraw diretta da Arthur Hiller. Lei faceva scivolare gli occhiali da sole sulla punta del naso. Sembrava divertirsi. Lo sentiva. Mentre lui, Luca Visentin, famiglia originaria di Schio con qualche goccia di sangue gotico o longobardo a giudicare dal colore dei capelli e degli occhi, si fissava sull'idea che c'era sempre da piangere su amori perduti o mai raggiunti. Quale protagonista sarebbe stato nei lacrimosi anni del futuro! Che cosa aspettava l'umanità se non tragedie spaziali? Le mogli degli astronauti sarebbero apparse in televisione, angosciate, dignitose e ben pettinate.

Imperator. L'ultimo eroe di Roma antica

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Mi accorsi di essere innamorato di Domiziana, almeno come può accadere a un bambino di sei anni, durante la villeggiatura ad Atina. Come posso descrivere la mia sorella adottiva? Quando guardo il cammeo che porto sempre con me mi pare di aver dimenticato l'espressione del suo sguardo. Eppure i suoi occhi erano grandi e iridescenti. Mi sembrava di vederli anche nel buio.
Domiziana conosceva tutti gli angoli più segreti della villa e ci guidava nel labirinto dei magazzini o a vedere i ghiri che ingrassavano nelle loro gabbie. La villa era un grande edificio rettangolare con un colonnato corinzio che abbelliva la facciata principale e quattro torri agli angoli. All'interno, il secondo dei peristili, vastissimo, racchiudeva un giardino. Era là che io, Domiziana e Vito, il figlio della mia matrigna, ci avventuravamo nelle nostre esplorazioni tra le felci intorno al ruscelletto che andava a gettarsi in una lunga piscina.
Una sera avevo approfittato dell'assenza di Vito e le avevo chiesto se voleva essere la mia fidanzata. Avevo respirato profondamente e avevo parlato tutto d'un fiato. Domiziana mi aveva squadrato. Aveva aggrottato la fronte.

Gli ultimi fuochi dell'Impero Romano

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La pergamena era scivolata a terra. A svegliarmi è stato il senso di vuoto o forse di freddo che a un tratto ho avvertito nel palmo della mano. Allora ho guardato attraverso la finestrella. La luce del giorno è fioca quanto quella della candela che tengo sempre accesa. È l'unico lusso che ancora mi concedo e talvolta mi sento in colpa per questo. Fuori vedo un grigiore deformato dalle irregolarità del vetro. È un vetro smaltato della Gallia, ma ormai anche laggiù i bravi artigiani sono quasi scomparsi.
C'e il mare sotto di me, un mare senza colori. Sta salendo una nebbia che pian piano nasconde le forme della scogliera. Sento soltanto il fragore delle onde e scorgo una nave che stenta a doppiare il promontorio. Forse mi sono già riaddormentato, ma vedo un mare più luminoso, colli di un verde più intenso. Mi pare di sentire i profumi di allora anche se sono passati quarant'anni.

476 A.D. L'ultimo imperatore

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Spesso mi interrogo sulla memoria. Ci ricordiamo di particolari insignificanti e dimentichiamo momenti cruciali della nostra vita. La memoria con il suo disordine ci rammenta che siamo mortali. I canti dei monaci di questo luogo inneggiano alla vita futura perché i santi fratelli sono certi che essa sarà senz'altro migliore grazie alla preghiera. Nessuno di loro si interessa a memorie che non siano trattate nelle sacre scritture. Sono indifferenti a chi in passato ha abitato questa antica fortezza. Io invece sono convinto che qualche grande è stato qui. Forse un usurpatore imperiale. Qualche sfortunato generale che tentò di rivestire la porpora e finì ucciso. Potrebbe essere stato Magno Massimo, lo spagnolo che si proclamò augusto e che i Britanni chiamano con il nome impronunciabile di Macsen Wledig. Oppure potrebbe essere stato il terzo Costantino che, partito da questa isola nebbiosa, per alcuni anni stabilì la sua sede imperiale ad Arles.
I monaci di Tintagel ignorano quel remoto passato. Roma ha abbandonato la Britannia da quasi un secolo. Pochi ormai capiscono il latino. Le belle città costruite da noi Romani si sono trasformate in fortezze arroccate su colline scoscese, come farfalle tornate a essere bruchi. Il monaco che poco fa mi ha consegnato la lettera che ora rigiro tra le mani aveva un'espressione sorpresa, quasi divertita, come se fosse complice di un piccolo scandalo. Le lettere possono recare parole differenti da quelle del Salvatore, ed è stato soltanto per rispetto alla mia persona che questa non è stata bruciata. O forse per quello strano sigillo con la Croce di nostro Signore.
La lettera viene dall'Italia, da Napoli, ed è stata scritta otto mesi fa. L'ho appena letta. È di Romolo, l'ultimo augusto di Roma o il penultimo se si considera il dominio di Giulio Nepote. Ricordo Romolo quando era un adolescente, oggi ha quasi quarant'anni. Mi ha scritto soprattutto di denaro. Sembra che abbia dovuto faticare per convincere il re ostrogoto Teodorico, attuale dominatore dell'Italia, a confermargli l'appannaggio di seimila solidi all'anno a suo tempo concessogli da Odoacre. Ha scritto testualmente: «Siamo stato costretti a umiliarci e mendicare quella misera somma che ci è dovuta». Non è tanto misera, per la verità. È sufficiente a pagare due reggimenti di buccellari. Romolo usa il plurale come se fosse ancora il signore del mondo. Ma come imperatore detronizzato egli corre più pericoli da parte dei Romani che da parte dei barbari. Infatti Romolo ha aggiunto che trascorre una esistenza tranquilla nella villa che gli è stata assegnata. Una residenza che appartenne a Lucullo ma che con le continue minacce dei Vandali è stata trasformata in fortilizio. Le finestre sono minuscole fessure dalle quali il panorama del golfo appare come in un dittico. Romolo passa il suo tempo nella lettura e nelle preghiere ed è confortato dalla presenza di sua madre Barbaria, la vedova di Oreste. Infatti mi ha raccontato del monastero che ha fatto costruire. Lo ha dedicato al beato Severino del Norico.
Mentre leggevo la lettera di Romolo, il «piccolo augusto», la pioggia era battente. Il suo rumore così monotono sulle tegole della cappella a fianco della mia cella mi ha quasi addormentato. Nel dormiveglia ho cominciato a ricordare gli avvenimenti di tanti anni prima. Di quell'autunno del 472 quando mi sembrava di non avere più niente da fare a Roma.

Il diario segreto di Marco Aurelio

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I miei occhi non sono più in grado di distinguere facilmente le pietre che cospargono la piccola spiaggia grigia di fronte alla mia casa. Un sasso aguzzo o una pomice spugnosa che rotola portata dalla risacca. Oppure quello che sto cercando: un ciottolo piatto da far rimbalzare sulla superficie del mare più volte possibile. Mi accade di trascorrere perfino un'ora a lanciare sassi oppure mi sforzo di esaminare le conchiglie e gli ippocampi essiccati dal sole, o a seguire i granchi che corrono a ritroso e si nascondono nella sabbia.
È il tempo che passa, mi ripeto. I gabbiani sembrano sospesi nell'aria. Tutto scivola verso un nulla popolato di ombre. A volte questi fantasmi prendono le sembianze di uomini e donne veri. Talmente veri che io parlo con loro fino a quando impallidiscono svanendo e lasciano vedere al loro posto gli oggetti consueti. Sono le allucinazioni di un vecchio di settantasette anni. Età difficile da raggiungere e che, però, mi pare soltanto un momento di passaggio verso un futuro imperscrutabile. I filosofi hanno tentato per secoli di squarciare quel velo ma nessuno ci è mai riuscito e dubito che qualcuno ci riuscirà. Mio padre si piccava di essere un seguace di Agrippa, lo scettico. Diceva che è inutile perdere il proprio tempo immaginando qualche cosa al di là della nostra comprensione umana. Lui dubitava perfino che ne fossero capaci gli dèi immortali.
Mio padre era un liberto imperiale e doveva il suo affrancamento al divino Adriano. Sosteneva di non avere fatto niente di speciale per ottenere la libertà. L'imperatore gliela aveva concessa per la sua simpatia nei confronti dei Greci. Nonostante si dicesse scettico, era curioso della matematica. Anzi, era incerto tra i principi dello scetticismo e l'astrattezza dei numeri. Sarebbe stato felice di trovare una conciliazione tra loro, ma non era tanto sapiente per poterlo fare, caso mai sia possibile.
Ho sempre avuto il sospetto che da giovane credesse in altre verità. Il mio nome è Isidoro, un nome bastardo, un po' greco e un po' egizio, che rivela qualche adesione al culto di Iside. Per conto mio non credo in quella divinità che tanto appassiona il mondo odierno. Preferisco riservare il mio incenso - che è terribilmente costoso - per i Lari della famiglia o per le effigi degli dèi dell'Olimpo. Essi ci hanno protetto da secoli e continueranno a farlo. Forse.

L'imperatore guerriero

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Spalato, anno 1066 dalla Fondazione dell'Urbe (313 d.C.)

È ormai la dodicesima ora e il sole illumina con gli ultimi raggi la grande galleria. Da lì posso scorgere le isole che chiudono il golfo di Salona. La luce si riflette sulle statue. Nelle nicchie lungo la parete, di fronte a ogni vetrata, ciascuna divinità appare circondata dalla sua aureola. Tavolta mi accade di accarezzare il marmo come per convincermi che si tratta soltanto di fredda pietra. Atenio non rinuncia mai alla sua dotta pedanteria e mi ripete per l'ennesima volta che si tratta di copie dal bronzo. Eppure io sono convinto che il talento degli artisti stia proprio in queste trasparenze, nelle vene che si intravedono sotto la pelle, nel colore diafano delle iridi. Non mi interessa che siano copie: oggi nessuno è più in grado di creare simili capolavori. Di recente ho visto alcuni dei gruppi in bronzo dedicati a noi tetrarchi. Uomini goffi, somiglianti a nani massicci, sculture nelle quali l'armonia delle proporzioni è perduta.
Con la coda dell'occhio scorgo Atenio che si avvicina. Anche lui è provato dall'età. Era vigoroso, e ora è emaciato come un ramo che si sta seccando. Era alto, e adesso è curvo, quasi incapace di guardare dritto davanti a sé. Il suo passo era rapido e silenzioso. Ora, invece, trascina i piedi, ansima ed è costretto a fermarsi. Atenio è molto più che il mio liberto preferito. È un amico da tanti anni. È il mio confidente. Mi ha conosciuto quando ancora non avevo indossato la porpora e mi è sempre rimasto fedele. Durante il mio dominio e, ora, negli anni vuoti del ritiro.
Questa sera incomincerò a leggergli le mie memorie. Sono certo che mi darà un parere sincero. Ma soprattutto potrà correggere i miei errori. Oltre a essere esperto in un gran numero di discipline, Atenio è anche un grammatico e, senza dubbio, è più erudito di me.

La battaglia sulla montagna di Dio

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Milano, 1898

Quel pomeriggio, uscito dalla casa di Carolina, mi resi conto di non sapere che cosa fare né dove andare. Ero stato seduto per più di un'ora sul divano foderato di cretonne, un viola pallido arabescato. Più che seduto avevo avuto la sensazione di starmene rannicchiato nell'angolo più lontano da quello dove si trovava la mia fidanzata. Lei aveva il viso affilato e le punte dei piedi unite. Davanti a noi era sua zia Bice. Una donna alta con il viso disegnato da un reticolo di rughe. Sembrava a disagio senza uno dei suoi grandi cappelli guarniti di fiori e nastrini di raso e senza la veletta. Era un po' come se, così a volto scoperto e con i capelli tenuti uniti a crocchia dietro la nuca da spille di madreperla, si sentisse esposta a misteriose insidie.
Il padre di Carolina era apparso soltanto dopo un bel po' che mi trovavo lì. Mi aveva chiesto di seguirlo e io avevo notato lo sgomento sul viso di Carolina. Era impallidita e aveva rivolto uno sguardo alla zia. Come se implorasse conforto.
In realtà quanto suo padre mi aveva detto no mi aveva completamente sorpreso anche se, come si dice, la speranza è l'ultima a morire. Semplicemente, mi aveva comunicato che il fidanzamento poteva considerarsi concluso. Anzi che neppure di fidanzamento si poteva parlare. Non c'era mai stato. Gli dispiaceva dirlo ma la mia richiesta della mano di sua figlia era stata respinta.
Le ragioni? Non certo perché fossi un poco di buono o un persona indegna. Niente affatto. Sulla sua scrivania erano ancora aperti alcuni album per francobolli da collezione e io stavo a fissare i quadratini colorati mentre l'avvocato Radaelli me le elencava. Aveva esordito affermando che io ero senza dubbio un eccellente giovane ma altrettanto evidente era che la mia posizione mancava di alcuni requisiti. Il padre di Carolina appariva un po' imbarazzato. Continuava a lisciarsi il ricciolo dei baffi tenuto in su dalla ceretta. Dopo un arzigogolato giro di parole aveva ammesso che, sì, io ero davvero una persona a modo ma che la mia futura carriera non prevedeva una sufficiente base economica per una famiglia che mantenesse il tenore di vita al quale Carolina era abituata. La mia laurea era dignitosa e i miei studi lodevoli ma orientati a qualche cosa di troppo teorico ora che i tempi stavano mutando così rapidamente.

Il guerriero del mare

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Anno DXXXII dalla Fondazione dell'Urbe, 221 a.C.

Dall'Iberia è appena giunta la notizia della morte di Asdrubale Barca, il genero del mio vecchio amico e avversario Amilcare. Pare sia stato trafitto da uno schiavo che voleva vendicare il suo padrone, un principe indigeno che si era ribellato ed era stato crocifisso nella nuova Cartagine fondata proprio da Asdrubale sei anni prima. Al contrario di suo suocero non l'ho mai incontrato ma la sua uccisione mi ha ugualmente preoccupato. Anche se ho ormai settant'anni ho sempre la sensazione di essere chiamato a decidere dei destini della nostra Repubblica. Per fortuna Roma può contare su giovani valorosi che non temono nulla. Ma la gioventù può essere un'arma a doppio taglio. Abbiamo infatti appreso che la signoria sull'Iberia è stata ereditata dal figlio di Amilcare. Si chiama Annibale e ha appena ventisei anni. Comandava già la cavalleria punica e si era distinto in molti combattimenti vittoriosi contro gli Iberici.
Come avevo previsto all'epoca della pace con Cartagine, la riduzione dei tempi di pagamento dei danni di guerra non era stata una buona idea. Sono sempre i demagoghi a fare i danni più gravi e i demagoghi allora avevano festeggiato l'umiliazione della crudele nemica. Invece, contrariamente a quanto essi avevano immaginato, i punici si erano risollevati più rapidamente e già da nove anni non hanno più debiti con noi. Grazie ad Amilcare Barca si sono impossessati di quasi tutta l'Iberia, un vasto paese ricco di pascoli e di miniere, abitato da uomini che in parte assomigliano ai Galli e in parte ai Mauri. Negli ultimi vent'anni, quindi, l'impero di Cartagine si è accresciuto a dismisura. È grande il doppio dell'Italia e ha dato ai punici un'enorme quantità d'argento. Asdrubale è stato abile nello sviluppare le coltivazione e l'allevamento e anche a stringere amicizia con la maggior parte dei capi locali. Lo stesso Annibale, suo cognato, è stato indotto a sposare una principessa iberica.
Il risultato di tutto ciò è che l'ambizione del giovane Annibale Barca poggia ora su una ricchezza incommensurabile. Mi vengono i brividi, ricordando le tante armate mercenarie messe in campo dai nostri nemici durante la guerra, al pensiero di quanti soldati il figlio del mio vecchio amico potrebbe schierare contro di noi. Ora immagino che Annibale prenderà possesso del grandioso palazzo fatto costruire da suo cognato nella nuova Cartagine sull'isola che separa una grande palude dal mare. Si dice che esso assomigli più a una reggia dei successori del divino Alessandro che a una casa punica.
Qui nell'Urbe ascolto quanto si dice in Senato dove mi reco per le occasioni più importanti, nonostante mi costi fatica perfino sollevarmi dalla lettiga o dal mio seggio nella Curia. Sento ripetere che il trattato di cinque anni fa impedirà qualsiasi futuro conflitto tra noi e loro. Che il confine sul fiume Ibero salvaguarderà la pace. Debbo confessare che in questa fase avanzata della mia vita non coltivo più certezze se non nei sacri dèi e nella imprevedibilità del Fato.

La battaglia del leone di Venezia

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Pireo, fine settembre 1687

Questa volta sono stato visitato da un medico vero, non da uno dei soliti barbieri che curano i feriti a bordo delle galee, ognuno con i suoi decotti, i suoi impiastri, i suoi filtri, tutti diversi l'uno dall'altro e tutti quasi sempre inefficaci. Il medico mi è stato mandato dallo stesso Francesco Morosini, il Marte vendicatore degli oltraggi subiti per secoli dal Turco. Ha avuto il tempo e la benevolenza di pensare a un suo sottoposto infermo mentre sta assediando ad Atene la guarnigione ottomana. Per fortuna il medico ha escluso che si tratti di peste. Ce ne sono stati alcuni casi tra gli oltramontani tedeschi, forse perché contagiati da prigionieri turchi o dai miasmi provocati dal gran numero dei cadaveri di nemici rimasti insepolti. Sono assistito da un nobile, uno dei giovani patrizi imbarcati sulla mia galea. È riuscito a procurarmi cibo fresco acquistato dai contadini che affollano il porto per vendere i loro prodotti ai marinai. Inoltre, il capitano da mar mi ha fatto portare una tazza di brodo cucinato dal cuoco di bordo della sua capitana.
Per quanto mi senta ancora debole, spero di essere sulla via della guarigione, perciò incomincio di nuovo a preoccuparmi di cose estranee alla mia salute. Infatti ho appena inviato a Morosini e al suo luogotenente svedese, il conte Von Königsmarck, un messaggio urgente per segnalare loro quanto ho appreso da un bombardiere. Sulla collina del Filopappo sono stati piazzati alcuni mortai predisposti per colpire la polveriera turca che si trova sull'Acropoli a meno di un miglio di distanza. Secondo quanto si dice, le polveri sarebbero in gran parte immagazzinate proprio all'interno del Partenone, che riesco ad ammirare in queste limpide giornate di primo autunno, distante soltanto poco più di quattro miglia dal Pireo.
Non so come i nostri condottieri reagiranno leggendo quanto ho scritto. Ho usato una certa enfasi nel ricordare la bellezza di quel celebre monumento che si erge sulla città da duemila anni, ammirato nei secoi da imperatori, re, filosofi e artisti. Insomma, ho finto di informarli circa un pericolo che, sospetto, conoscono bene. Ecco perché potrebbe anche darsi che questa mia missiva non sia accolta con la sperata benevolenza.
Intanto godo della brezza pomeridiana. Porta i profumi dei frutti autunnali frammisti all'odore di salsedine. Con gli occhi chiusi vado a ritroso nel tempo. Le immagini si moltiplicano nel mio ricordo finché qualcuna svanisce e qualche altra diviene più nitida. Ecco allora che rivedo alcune figure di ragazzi in un pomeriggio assolato e uno di loro sono proprio io. Ho diciotto anni.

Un solo re

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ANNO XXXVII DALLA FONDAZIONE DI ROMA

Himelqart di Auza, scriba fenicio

Domani il re passerà in rassegna l'esercito nella vasta pianura nell'ansa del Tevere. Sempre che durante la notte la pioggia non trasformi quei campi dedicati a Mamers in un acquitrino Se ciò accadesse sarebbe di cattivo auspicio, perché qui a Roma si crede che il dio presieda anche alla pioggia e alla fertilità. Quindi, inondando la piana, egli mostrerebbe una sua volontà ostile.
Dal mio cubicolo sul retro della casa del re ascolto il vento lamentarsi e scuotere gli alberi. I rami dei pini sono fragili e possono spezzarsi. Io sono sdraiato supino sulla stuoia e, mentre sono sveglio, penso ai tredici anni che ho trascorso in questa città. Quando arrivai era poco più di un gruppo di pagi sparsi su alcuni rupi giallastre, ma in tutto questo tempo si è ampliata a dismisura. Si è arrampicata sui colli e ha invaso le valli dove d'estate scorrono rigagnoli che con l'autunno possono trasformarsi in torrenti vorticosi.
Per quanto tutto ciò desti meraviglia nei viandanti, interessa ben poco me. Io sono ancora adirato con Maarbaal, il padrone della nave sulla quale era imbarcato, quando decise di lasciarmi in questo luogo di pastori ignoranti per ingraziarsene il sovrano. Perché da allora sono impegnato molte ore al giorno a registrare quanto lui mi racconta. Qui, infatti, nessuno conosce i segni che permettono di leggere e scrivere. Nessuno si è mai allontanato più di qualche migliaio di passi e non si è neppure trattato di veri viaggi, ma del pigro seguire le greggi durante la transumanza. Nessuno ha idea di che cosa sia una bella città quasi circondata dal mare come è Auza, dove ho imparato l'arte dello scriba, che là è rispettata da tutti. Auza, la sentinella di noi Sidonii verso il sole che tramonta, costruita tra le acque per impedire ai selvaggi Libi di importunarci.

Bibliografia

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  • Giulio Castelli, Il fascistibile, Bompiani, 1973.
  • Giulio Castelli, Imperator. L'ultimo eroe di Roma antica, Newton Compton, 2008. ISBN 978-88-541-1019-9
  • Giulio Castelli, Gli ultimi fuochi dell'Impero Romano, Newton Compton, 2009. ISBN 9788854115613
  • Giulio Castelli, 476 A.D. L'ultimo imperatore, Newton Compton, 2010. ISBN 9788854122246
  • Giulio Castelli, Il diario segreto di Marco Aurelio. L'imperatore che disprezzava il potere, Newton Compton, 2013. ISBN 978-88-541-4985-4
  • Giulio Castelli, L'imperatore guerriero. Il romanzo di Diocleziano, il persecutore, Newton Compton, 2014. ISBN 978-88-541-6731-5
  • Giulio Castelli, La battaglia sulla montagna di Dio, Newton Compton, 2016. ISBN 978-88-541-9509-7
  • Giulio Castelli, Il guerriero del mare, Newton Compton, 2017. ISBN 978-88-227-3190-6
  • Giulio Castelli, La battaglia del leone di Venezia, Newton Compton, 2021. ISBN 978-88-227-4846-1
  • Giulio Castelli, Un solo re, Newton Compton, 2022. ISBN 978-88-227-5848-4

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