Giovanni Mestica
filologo e docente universitario italiano
Giovanni Mestica (1831 – 1903), filologo e politico italiano.
Manuale della letteratura italiana nel secolo decimonono
modificaVolume I
modifica- Vincenzo Monti è stato uno de' poeti che più hanno mescolato l'arte alla politica corrente; e dacché i tempi, in cui si abbatté a vivere, furono de' più burrascosi, ed egli dalla fantasia prepotente e dal sentimento mobilissimo si lasciava condurre e aggirare in mezzo a que' vortici, nella rappresentazione che ne faceva impresse non solamente il suo genio, ma anche la variabilità appariscente del suo carattere. Nell'età posteriore, allorché preparandosi dalle generazioni novelle la redenzione d'Italia, la fermezza del carattere era più che mai necessaria, anche come poeta egli fu giudicato, più che co' criteri dell'arte, con quelli della politica, e spesso senza riguardo alle circostanze attenuanti, che si possono trarre da un esame imparziale di quelle mutazioni vertiginose, dalle condizioni particolari della sua vita, dal suo sempre vivo sentimento dell'onestà e dal suo amore costante per la grandezza e la gloria d'Italia. (vol. I, pp. 40-41)
- [Giuseppe Biamonti] Con indefessi studî riuscì dottissimo nelle lettere italiane, latine e greche, e di greco fu maestro in Roma a Vincenzo Monti, allora suo amico e fautore. Apprese anche la lingua ebraica, e nella cognizione di essa acquistò somma perizia, attestata anche dalle sue postille manoscritte alla Bibbia, e più particolarmente al libro di Giobbe. (vol. I, p. 316)
- [Giuseppe Biamonti] [...] sebbene espertissimo nella lingua e nell'arte, non essendo però sorretto abbastanza dal genio, in queste [tragedie, Ifigenia e Sofonisba] e anche in altre poesie minori non seppe levarsi generalmente sopra la mediocrità. Il suo stile di prosa è bello per semplicità ed eleganza, derivata dallo studio in ispecie de' trecentisti; salvoché vi si desidera un po' più di vivezza e calore, e talvolta vi ricorre qualche lieve forzatura. (vol. I, p. 317)
Volume II
modificaParte prima
modifica- Del titolo di conte, che essendo ereditario nella sua famiglia poteva competergli, non volle mai saperne; e quando il governo austriaco nel 1816 agli aventi titoli di nobiltà prescrisse che, se volevano che fossero riconosciuti, li denunziassero ad esso, egli si guardò bene dal registrare il suo; e se qualcuno lo chiamava con quel titolo, «Che conte! (soleva esclamare) Io sono Alessandro Manzoni, e non altro.» (vol. II, parte prima, p. 132)
- È noto che il Manzoni non fu uomo d'azione, e che non avendo preso parte viva con atti estrinseci alle rivoluzioni fatte pel risorgimento nazionale dal 1814 in poi, non ebbe mai dall'Austria dominante in Lombardia delle gravi molestie, e tanto meno persecuzioni e tormenti, come altri moltissimi, e parecchi ancora de suoi amici; ond'egli, trovandosi un giorno in mezzo a un crocchio di questi, disse con affabile ironia: «Ho vergogna di vedermi tra voialtri io che unico non sono stato in prigione»: perché essi v'erano stati tutti.[1] (vol. II, parte prima, p. 133)
- Nella terza delle cinque giornate [di Milano, Manzoni] segnò francamente il suo nome in un foglio diretto dai Milanesi al re Carlo Alberto per invocarne l'ajuto; ma poco dopo non volle sottoscrivere il plebiscito dell'unione della Lombardia col Piemonte, non già perché se la intendesse coi repubblicani, di tale unione fierissimi e clamorosi oppositori, ma perché temeva che ciò potesse guastare quella ch'egli chiamava la sua «bella utopia» dell'unità nazionale [...]. (vol. II, parte prima, p. 134)
- Pochi e valenti, disse il Manzoni nel suo romanzo, i versi di Giovanni Torti; e allora, verso il 1826 quando si stampavano quelle parole, essi erano pochi davvero; ma poi col divenir molti (poiché il Torti continuò a verseggiare fin nella tarda vecchiezza) scaddero generalmente dal pregio, non insigne, di quei pochi. (vol. II, parte prima, p. 269)
- [Giovanni Torti] Questo poeta, lodato troppo, nella rappresentazione dei teneri e miti affetti e anche delle norme dell'arte per lo più riesce felicemente, con purezza di lingua e castigatezza di forma, ma gli avviene di guastare ciò che fa bene, cadendo ad ora ad ora nel prolisso e nel prosaico; quando poi tenta d'inalzarsi dà nello sforzo; lavora sopra ideali angusti, l'ascetico sentimento religioso non sa ritemprare nel civile ed umanitario, e difetta d'ispirazione profonda. La sua non è vena poetica, ma un rivoletto. (vol. II, parte prima, p. 269)
- La poesia di Giovanni Berchet, quanto agli effetti che produsse per l'eccitazione del sentimento nazionale, può in qualche modo paragonarsi al libro delle Mie Prigioni: ché se questo ebbe efficacia largamente anche fuori d'Italia, quella in Italia la ebbe fors'anco maggiore. (vol. II, parte prima, p. 326)
- Fra i poeti della scuola romantica della prima maniera il Berchet si distingue per l'ideale patriottico dominante ne' suoi versi. Il sentimento religioso egli lo ha, ma nelle sue poesie apparisce appena; il cattolicismo del Manzoni, del Grossi, del Torti e del Pellico non v'è punto; l'ardimento, che è spesso aspra fierezza nell'espressione del patriottismo, lo avvicina piuttosto al Niccolini, al Guerrazzi ed al Giusti. Fu detto che la poesia del Berchet deriva dall'ode manzoniana Marzo 1821; ma è un'esagerazione, se non anche un errore. (vol. II, parte prima, pp. 326-327)
Parte seconda
modifica- [Giovanni Battista Niccolini] Ebbe animo altero e sdegnoso, grande amore e fede nella patria, nella virtù e in Dio; trattò la letteratura come un sacerdozio, e cercò che dalla sua vita, per quanto la fragilità umana e le miserie dei tempi lo consentirono, non fossero smentiti gli scritti. Bramoso anch'egli di gloria, non la riponeva però nelle onorificenze dei governi, le quali, non che mai cercasse, rifiutò sempre, e quelle ancora che ultimamente gli furono offerte dal nuovo governo italiano di Vittorio Emanuele, a cui s'era sì volontariamente inchinato. (vol. II, parte seconda, p. 357)
- In questo dramma [I Cesenati del 1377] il poeta [Edoardo Fabbri] meglio che in qualunque altro ha saputo rappresentare con alcuni de' caratteri generali e peculiari un'età storica, riuscendo senza sforzo ad infondere in un fatto municipale un interesse più largo fino ad abbracciare tutta la nazione; il che se per quel fatto è conforme alla storia, non però è facile all'arte. Vediamo nell'azione drammatica operare il popolo nelle sue varie condizioni, vediamo il parlamento tumultuoso dei Comuni d'allora; bellissima la scena delle donne raccolte insieme durante la battaglia tra i popolani e i mercenarî del papa, e impensierite pei loro cari; vi campeggiano le compagnie di ventura dei Brettoni, degl'Inglesi e degl'Italiani coi loro capi, Malastretta, Aguto, Alberigo da Barbiano, e nell'ultimo atto una badia di monaci, partecipanti alla vita pubblica; la politica pontificia è dipinta qual era, massimamente in quegli anni, a neri colori: spira per tutto l'amor patrio, e con temperatezza anche il sentimento religioso. (vol. II, parte seconda, pp. 408-409)
- Mentre Ugo Foscolo rimaneva come tragico nella scuola dell'Alfieri, Eduardo Fabbri cominciava ad uscirne, e senza rinunziare all'arte dell'Astigiano si faceva più moderno; inferiore negli spiriti tragici al Niccolini, va però innanzi al Pellico; men patetico di questo sa trattare con gentilezza severa i teneri affetti, non si abbandona mai al lirismo: il suo stile è semplice e robusto senza lo splendido movimento di quello del primo, senza le mollezze di quello del secondo; l'elocuzione sempre italiana, e, se non sempre ricca delle proprietà più elette, animata spesso dalla felice riproduzione della viva favella dantesca; il ritmo conveniente alla tragedia, non scevro però di qualche negligenza e durezza. Le buone qualità del poeta splendono meglio e meno si sentono i suoi difetti nella tragedia dei Cesenati, che insieme con la Stefania dee porsi vicino alle più belle del nostro teatro moderno. (vol. II, parte seconda, p. 409)
- [Carlo Marenco] Nelle prove giovanili aveva seguito la scuola e l'arte dell'Alfieri; ma dopo letto il Carmagnola e l'Adelchi di Alessandro Manzoni, prese anch'egli a coltivare il dramma storico, cercando di temperare il concetto alfieriano con quello della nuova scuola romantica. Togliendo da questa l'ampio svolgimento dell'azione senza tener conto delle unità convenzionali di tempo e di luogo, evitò la troppo studiata semplicità e parsimonia dell'Alfieri nei personaggi e nelle particolarità varie, non senza però trascorrere talvolta nel vizio opposto; ma restò a lui fedele nell'arte di formare, avviluppare e scioglier l'intreccio. (vol. II, parte seconda, p. 424)
- [Carlo Marenco] Non ebbe dell'Alfieri la forza dei concetti, l'impeto delle passioni e la nervosità dello stile; né ebbe, quanto è necessario, il profondo senso storico più proprio del genere drammatico a cui s'era messo; ma seppe dare esplicazione all'elemento popolare, ben rappresentare gli aspetti, specialmente nelle donne, e lumeggiare il patriottismo temperato per lo più nel sentimento domestico e religioso, con intento morale cercato spesso anche a scapito degl'intrinseci pregi dell'arte. All'altezza veramente tragica non salì; le sue produzioni più che tragedie son drammi nel senso comune della parola. L'ingegno di lui era per questo genere medio; e migliori sono le sue produzioni, dove l'argomento meglio a ciò rispondeva. Anche lo stile è piuttosto per dramma che per tragedia; nell'elocuzione poi spiacciono certi latinismi, arcaismi[2] e durezze varie, stonanti con l'ordinaria andatura piana di essa. (vol. II, parte seconda, pp. 424-425)
- [Giovanni Giraud] Egli romano conosceva più specialmente il linguaggio romano, e quello adoperò, senza aggraziarlo, né sceverarlo da francesismi appartenenti più alla parte cólta della cittadinanza che alla plebe; se avesse avuto egual pratica e familiarità col linguaggio toscano, senza dubbio avrebbe formato un'elocuzione più spigliata e briosa e più schiettamente italiana. (vol. II, parte seconda, pp. 439-440)
- [Giovanni Giraud] Poteva anche riuscire a ben maggiore eccellenza, se avesse studiato nei libri le finezze dell'arte che non s'imparano pienamente con la sola osservazione della natura; onde, benché dotato di felicissimo ingegno drammatico, rimase molto addietro al Goldoni e specialmente al Molière, da lui tenuti a modelli. Dove dice: «Non vanto letture, non millanto erudizione», dà per un rispetto una lode a sé stesso, e per l'altro un biasimo anche maggiore. (vol. II, parte seconda, p. 440)
Studi leopardiani
modifica- Allargatasi la grande rivoluzione[3] in Italia per la forza delle idee e delle armi insieme, sui primi del 1797 penetrò anche nelle Marche; e in Recanati, come in altre città, fu proclamata (27 gennajo 1798) una forma di repubblica democratica, ed anche un po' demagogica, alla francese. L'abolizione dell'ordine nobilesco, e conseguentemente dei titoli e dei privilegi, irritò vivamente il giovin signore [Monaldo Leopardi]; e, facendone egli aperta dimostrazione, per sentenza di un comandante militare francese, nel giugno del 1799 fu condannato a morte, dalla quale a stento, con moneta e intercessioni autorevoli, poté scampare. (Giacomo Leopardi (1880), p. 1)
- [Monaldo Leopardi] Assunto a diciott'anni, essendogli morto il padre quand'egli era bambino, il governo della casa, ben presto, per la sua generosità innata, per l'inesperienza, per la boria di voler mantenuto il lustro della famiglia e anche per le vicende politiche suaccennate, condusse il ricco patrimonio quasi a rovina. Interdetto perciò legalmente, si ritrasse nel 1803 dall'amministrazione della cosa domestica, e, benché prosciolto nel 1820, non la riprese mai più. (Giacomo Leopardi (1880), p. 2)
- Donna di senno virile, austera, inflessibile, [Adelaide Antici Leopardi] si propose di restaurare lo sconquassato patrimonio, e non dubitando di vendere anche le sue gioje e di lasciare mal soddisfatti per lunghissimo tempo i legittimi desideri de' figli, e scarso a denari anche il marito, dopo una trentacinquina d'anni riuscì nell'intento. Il patrimonio era già rimesso nel pristino fiore, quando Giacomo venne a morte. (Giacomo Leopardi (1880), p. 2)
- Si disputa, da un po' in qua, del verismo con tanto calore, come se si trattasse di materia del tutto nuova. Nuova è bensì la parola, ma la cosa è antica quanto ogni arte bella e le letterature in ispecie; che fin da Omero (per non risalire anche più addietro) vi sono stati sempre scrittori, che hanno tolto i soggetti e le ispirazioni direttamente dalla natura, come ve ne sono stati sempre, e in maggior copia, dei pedissequi agli altri, o accademici, o comunque s'abbia a chiamarli. La novità sta in questo; che gli odierni seguaci e sostenitori del verismo vogliono che l'arte debba rappresentare tutta e sola la natura, qualunque essa sia, e specialmente la natura materiale e sensuale. Per quanto un tale concetto venga a restringere miseramente l'ufficio dell'arte, pure v'è di buono, che la richiama al culto della natura; e perciò il ragionare che si fa oggi del verismo non può dirsi inutile. La critica se ne avvantaggia e progredisce, e, ciò che soprattutto rileva, probabilmente ne guadagnerà l'arte stessa. (Il Verismo nella poesia di Giacomo Leopardi (1880), p. 191)
- È invalsa, a proposito dei sentimenti politici del Leopardi, l'opinione che esso, divenuto scettico, non ebbe più a cuore il risorgimento d'Italia. Tutt'altro provano gli scritti suoi. Dopo le due prime canzoni, ne fa documento solenne quella Ad Angelo Mai che compose quando era già pessimista; la quale spira tutta quanta un amore ardente alla patria, e pungendo la viltà degli Italiani, li infiamma ad insorgere; onde l'Austria ne proibì la diffusione nelle province italiane da essa occupate. (Lo svolgimento del genio leopardiano (1898), pp. 498-499)
- Nonostante la sua filosofia negativa, il Leopardi quanto a cose d'ordine estetico fu, come ho notato dianzi, tutt'altro che pessimista, quanto a cose d'ordine morale e civile non fu pessimista in tutto. E se, esagerando, disse «che il mondo è una lega di birbanti contro i buoni», non però disamava gli uomini, e anzi augurava che si collegassero fraternamente insieme, per opporsi ai mali inerenti alla vita e per mitigarli. Nella negazione troppo assoluta del progresso, rispetto alla felicità delle masse tanto vantata ne' suoi tempi, esprime un concetto profondamente umanitario e moderno, e possiamo dire insito nei principii del socialismo, dicendo di non saper comprendere come quella felicità si possa conseguire senza la felicità degl'individui. (Lo svolgimento del genio leopardiano (1898), p. 533)
Note
modifica- ↑ Cantù, Cronistoria della indipendenza italiana, vol. II, parte I, pag. 234. Torino, Unione tipografico-editrice, 1873. [N.d.A.]
- ↑ Eccone un saggio. Indulge, deriso (sostantivamente per derisione), effrene (sfrenato), enerve (snervato), antiste (vescovo), decoro (decoroso), quandunque (ogni qualvolta), grandisce (grandeggia). [N.d.A.]
- ↑ La rivoluzione francese del 1789.
Bibliografia
modifica- Giovanni Mestica, Manuale della letteratura italiana nel secolo decimonono, vol. I, G. Barbèra Editore, Firenze, 18862.
- Giovanni Mestica, Manuale della letteratura italiana nel secolo decimonono, vol. II, parte prima, G. Barbèra Editore, Firenze, 1885.
- Giovanni Mestica, Manuale della letteratura italiana nel secolo decimonono, vol. II, parte seconda, G. Barbèra Editore, Firenze, 1887.
- Giovanni Mestica, Studi leopardiani, Successori Le Monnier, Firenze, 1901.
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