Gabriella Genisi

scrittrice italiana

Gabriella Genisi (1965 – vivente), scrittrice italiana.

Citazioni di Gabriella Genisi

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  • Oggi il giallo è una lente di ingrandimento sulla vita contemporanea e sulla realtà sociale. E pur non utilizzando mai un delitto realmente accaduto come caso sul quale far indagare la mia commissaria, attingo dai casi di cronaca il tema su cui incentrare il nuovo libro.[1]
  • Sin dal mio primo libro ho fatto del cibo uno degli strumenti di narrazione delle mie storie. Come ci ha insegnato Proust esiste una memoria olfattiva e del gusto, capace di ricreare ricordi e atmosfere lontane nel tempo. E cosa c'è di meglio del gusto di un ragù o dell’aroma fragrante di una focaccia per descrivere un luogo come Bari? Del resto, in una regione come la mia, i sentimenti passano anche attraverso il cibo. Va da sé che mi piace moltissimo cucinare e mangiare. Sono piaceri della vita irrinunciabili.[1]

Incipit delle sue opere

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Ciclo Lolita Lobosco

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La circonferenza delle arance

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«Lolì...?»
«Eh?»
Guardo l'assistente affacciato alla porta della mia stanza con aria interrogativa e ancora non mi capacito. Quel nome, in questa specie di caserma dove mi trovo, proprio non va. E diciamo che se mia madre non avesse amato così tanto quel film e non m'avesse chiamato Lolita, o se non avessi visto mio padre carabiniere morto ammazzato davanti alla porta di casa mia, sicuramente non sarei neanche diventata il commissario Lobosco. Ma del resto meglio Lolita che non Adolorata come mia nonna Dolò, un nome che da solo suona come una condanna.

Giallo ciliegia

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La parola amore in dialetto barese non esiste. Tanto vale chiarirlo subito.
Altrove invece ci sono certe lingue morbide, pastose come sfogliatelle alla crema, fatte apposta per parlare di sentimenti.
Prendi i napoletani, per esempio, quando dicono ammore. La bocca gli diventa un fuore e poi si schiude, tumida. Come se stessero per dare un bacio. Perché a Napoli l'ammore si respira, anche quando per strada c'è la monnezza.
Il barese no, non è adatto a parlare d'amore. È aspro, essenziale, ironico. Levantino, tout court. E come si fa allora in certi casi? Facile, si fa che non si può.
E allora si spiegano molte cose.

Uva noir

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Ci sono bambini che non crescono mai, e io sono una di quelli.
Tanto vale dirlo subito, perché appena vedo una pozzanghera non resisto alla tentazione di sguazzarci dentro, soprattutto quando sono con il Maggiolone. E allora si salvi chi può.
Il problema però è che stamattina, uscendo dal tribunale poco dopo uno di quei meravigliosi temporali di fine agosto, il poveraccio che mi capita sotto tiro è nientepocodimenocché Giovanni Panebianco, il cherubino biondo della procura. Gli ho consegnato una carta pochi minuti fa, e devo ammettere che continua a farmi un certo effetto tutte le volte che lo vedo. Calcolo male le distanze e lo schizzo d'acqua lo colpisce in pieno, ma il tutto è assolutamente preterintenzionale, si capisce. Lui invece la pensa diversamente, e vuole paglia per cento cavalli vuole, mentre mi accusa, tutto compunto, che gli ho rovinato il Burberry nuovo, gli ho.
Emmadonna quante storie, falla finita, giovane. Te lo lavo io, l'impermeabile, che ci vuole. E al caso ti pago la tintoria, dieci euro e sistemiamo la cosa. È quello che gli vorrei dire se la smettesse due minuti di inveirmi contro sostenendo di non aver mai visto un commissario della Omicidi come un teppistello da quattro soldi.

Gioco pericoloso

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Nella controra del dopopranzo barese, la città è tutta allo stadio. Quello che contano, quelli che non contano niente, le famiglie con i bambini, gli impiegati, i malavitosi e i poveri cristi. Con un caldo polveroso che ti prende alla gola e non ti fa respirare, ma questo oggi è l'ultimo dei pensieri. I veri tifosi respireranno dopo. La partita è decisiva, basteranno novanta minuti per sapere se stiamo dentro o fuori dalla Serie A, se occorre rinnovare l'abbonamento per la prossima stagione o scomunicare i patron della squadra una volta per tutte. E anche se per la salvezza è sufficiente un pareggio, ce la giocheremo fino all'ultimo sangue. Biancorosso, ci mancherebbe altro.
Fuori dai cancelli i ventilatori cinesi da due euro, insieme alle casse delle Peroni e al Caffè Borghetti, vanno via come neppure a Ferragosto sulla spiaggia di Torre Canne. Lo stadio San Nicola, dopo tanti anni, a starci dentro mostra tutte le sue magagne, ma a guardarlo da lontano mantiene sempre il suo fascino, un'astronave fantastica e piena di sogni pronta a decollare da un momento all'altro e io che da queste parti era un sacco di tempo che non venivo ancora mi incanto, come quando ero una ragazzina.
Ennò, oggi però non sto di servizio, sono venuta apposta per fare un favore all'amicamia. Sempre lei, Marietta benedetta. No, non è venuta con me, mi ha fatto avere un paio di biglietti accreditati, uno anche per il Giovannimio. Un favore dicevo, uno dei soliti.

Spaghetti all'Assassina

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Ci sono storie che cominciano dalle padelle, come i grandi piatti che raccontano una città. E per preparare degli spaghetti all'Assassina come si deve, occorre che la padella sia rigorosamente di ferro, comprata dal negozio di tegami a Barivecchia. Perché solo lì, a essere fortunati, ancora si trova. Ma di questo racconterò più in là.

Mare nero

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Tutte le stazioni si assomigliano tra loro.
Almeno in Italia. Quando un paio di mesi fa, con le reni crepate dalle otto ore di viaggio, scesi dal Frecciargento delle 19.07 mi sembrò quasi di essere tornata a Bari e il cuore fece un balzo fino alla gola. Invece niente, ero arrivata a Padova nella mia nuova sede. Padova sì, perché da qualche mese sono diventata questore. Questore Lobosco Lolita, e chi lo avrebbe detto mai. Nessuno credo, manco mia madre. Forse neanch'io. Eppure è accaduto. Una promozione per meriti speciali, come ha dichiarato il presidente della repubblica. Perché che sono brava si sa, è l'amore a farmi difetto. Però magari sant'Antonio fa il miracolo e riesce laddove hanno fallito san Nicola e san Gennaro mess'insieme. Ecco perché la prima cosa che feci appena scesa dal treno fu di andare dal santo, nella basilica. No, non a pregare, a riposare. Perché a me le chiese antiche mi fanno quest'effetto. E se tengo mal di testa, là mi passa. Ad ogni modo, se avete pazienza, la storia della promozione andò così.

Dopo tanta nebbia

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Che Padova non era cosa per me c'era voluto poco a capirlo.
Sarà stato per quell'umido che mi mortificava i capelli o per le mancanze che avvertivo come un peso sul petto: il sole, l'odore della focaccia a tutte le ore, il blu oltremare di Bari.
O per il rumore bianco della mia città lontana. Quel rumore indefinito che è la somma di una lunga serie di suoni, la musica che sale alle finestre della questura e a quelle di casa mia. Una sequenza di note fatta di onde, clacson e sirene di navi giù al porto, delle grida al mercato del pesce, dei ragazzini all'uscita della scuola e dei troppi motorini con la marmitta truccata.
Senza questa ninna nanna che cullava le mie notti, non riuscivo neppure a sognare. Era dalla prima notte padovana che la mia attività onirica era cessata completamente. Un vero dramma. Un po' come se avessero chiuso l'unico cinema del paese.

I quattro cantoni

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Alle prime luci dell'alba la parete di fronte al letto si colorò di azzurro.
Nei risvegli a San Vito il mare entrava dalla finestra, si rifletteva nel grande specchio e illuminava la stanza. Giancarlo Caruso, il vicequestore con il quale avevo vissuto una mezza storia durante il mandato a Padova, e che mi aveva raggiunta in Puglia da poche settimane, aveva affittato una casa talmente vicina alla spiaggia che lo sciabordio delle onde ci cullava nelle ore notturne. La nostra relazione, nonostante le mie solite ritrosie, sembrava funzionare, e sempre più spesso, appena uscita dalla questura, lo raggiungevo nella piccola frazione a poche centinaia di metri da Polignano a Mare. Un'abbazia benedettina, un porticciolo, due ristoranti e un mucchio di vecchie case di pescatori. A volte solo per cenare e fare l'amore, ma ultimamente mi fermavo anche a dormire. Mi piaceva stare lì, in quella costruzione quadrata e bianca di calce, nella quale Caruso aveva sistemato le poche cose che aveva portato con sé da Padova: un paio di scatoloni di libri, la bici da corsa, un peluche di Snoopy, il sacco da boxe. E Buck, un cane che somigliava al suo padrone, come in una voto di Erwitt.

Terrarossa

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Nel giro di pochi giorni, senza alcun preavviso e senza che ce ne rendessimo conto, c'eravamo ritrovati in un romanzo distopico. La città di Bari, insieme al resto dell'Italia, era stata dichiarata «zona rossa» a causa di un virus che rischiava di infettare tutto il mondo. Il Covid-19 era una bomba atomica che minacciava di uccidere l'intero genere umano.
Stavo vedendo Montalbano in tv, stavo, quando il questore, con un tono che non ammetteva repliche, mi aveva chiamato per comunicazioni urgentissime.
«Lobosco, ti voglio immediatamente nel mio ufficio.»
«Un omicidio?» biascicai, ché di sera tardi non ero mai al meglio.»
«No, per fortuna. O forse per disgrazia. Sono arrivate direttive dall'alto e devo informarti sul da farsi. Im-me-dia-ta-men-te» scandì con enfasi.
«Mi scusi, signore questore, ma sono le undici! È proprio necessario? Mi stavo mettendo a letto, mi stavo.»
«Commissaria, ma stai scherzando? Non hai seguito l'edizione straordinaria del telegiornale? Quello che ha detto il presidente del consiglio?»
«Veramente no, mi sarò addormentata davanti alla televisione. Cosa succede?»
«Succede che siamo in guerra, Lobosco. E tu sei un soldato della patria. Ho già convocato tutto l'organico, dai vicequestori fino agli uscieri.»
«Non capisco ma mi dia dieci minuti. Il tempo di vestirmi e arrivo.»
«Fai presto, per favore. Ah, senti, niente tacchi. Da stasera in poi ci sarà da correre.»
«Non si preoccupi, ci sono abituata. Vorrà dire che correrò con i tacchi.»
«Vedi tu, ma muoviti.»

  1. a b Dall'intervista di Francesca Giovannetti, [1], thrillernord.it.

Bibliografia

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