Conn Iggulden

scrittore britannico

Conn Iggulden (1971 – vivente), scrittore britannico.

Incipit di alcune opere

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Imperator

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Le porte di Roma

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Il sentiero nel bosco era un'ampia strada maestra per i due ragazzi che lo percorrevano. Entrambi erano talmente ricoperti di fango nerastro da non sembrare quasi più esseri umani. Il più alto aveva occhi azzurri che scintillavano vividi tra le striature di melma pruriginosa.
«Ci ammazzeranno, Marco» disse sogghignando. Nella mano stringeva una fionda appesantita da un ciottolo di fiume levigato.
«Colpa tua, Caio, che mi hai convinto a venire. Ti avevo pur detto che il letto del fiume non era completamente asciutto.»
Con queste parole, il ragazzo più basso rise e spinse il compagno tra i cespugli che fiancheggiavano il viottolo. Con un grido di gioia, spiccò la corsa, inseguito da Caio che faceva roteare la fionda.
«All'attacco!» gridò con voce acuta. Le percosse che li aspettavano a casa per aver rovinato le tuniche sembravano lontanissime e comunque conoscevano i trucchi per cavarsi d'impiccio... al momento opportuno. Ora la sola cosa importante era correre lungo i sentieri boscosi e spaventare gli uccelli. Le piante dei loro piedi andavano già ispessendosi, benché nessuno dei due ragazzi avesse visto più di otto primavere.

Il soldato di Roma

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Il forte di Mitilene incombeva minaccioso sulla collina. Sprazzi di luce baluginavano sulle mura mentre le sentinelle si muovevano nell'oscurità. La porta di ferro e quercia era sbarrata e l'unica strada che conduceva ai ripidi pendii pullulava di guardie.
Gaditico aveva lasciato solo venti dei suoi uomini sulla galea. Non appena era sbarcato il resto della centuria, aveva ordinato di levare il corvo e l'Accipiter si era allontanata silenziosa dall'isola buia, con i remi che fendevano appena le acque immobili del mare.
La galea sarebbe stata al sicuro da assalti durante la loro assenza. L'imbarcazione era immersa nell'oscurità ed era invisibile alle navi nemiche a meno che non si fossero addentrate nel porticciolo dell'isola.

Cesare, padrone di Roma

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Giulio, in piedi vicino alla finestra aperta, guardava le colline della Spagna. Il sole del tramonto inondava di luce una cima remota e la faceva sembrare sospesa nell'aria: una venatura d'oro in lontananza. Dietro di lui il mormorio delle voci si alzava e si abbassava senza interrompere il corso dei suoi pensieri. Il vento leggero gli portava il profumo delicato e fragrante del caprifoglio, gli sfiorava le narici e faceva sembrare più acre il suo sudore, poi si allontanava nell'aria e non c'era più.
Era stata una giornata faticosa. Si premette una mano sugli occhi e sentì montare dentro di sé come un'acqua scura, un empito di stanchezza. Nell'accampamento le voci si mescolavano al cigolio degli sgabelli e al fruscio delle mappe militari. Quante centinaia di serate aveva passato al piano superiore del forte con quegli uomini? Era un'abitudine confortante per tutti loro, alla fine della giornata, e, anche se non c'era niente di cui discutere, si riunivano a bere e a parlare. Era un modo per tenere Roma viva nella mente e qualche volta bastava a far dimenticare che da quattro anni non tornavano a casa.
All'inizio, Giulio si era immerso nei problemi delle province e per mesi interi non aveva pensato a Roma. Si alzava all'alba e andava a dormire al tramonto mentre la Decima Legione costruiva città nelle regioni lasciate allo stato selvaggio. Sulla costa, Valentia era stata trasformata con la calce, il legno, la vernice, e ora sembrava una città nuova costruita sopra la vecchia. Avevano aperto strade per collegare i territori e ponti che aprivano ai colonizzatori la via delle colline, che altrimenti sarebbero rimaste isolate. Cesare aveva lavorato con un'energia costante in quei primi anni e si era servito della stanchezza come di una droga per allontanare i ricordi. Quando si addormentava, veniva da lui Cornelia. Erano le notti in cui lasciava il letto intriso di sudore e andava a cavallo fino ai posti di guardia, sbucava dal buio, all'improvviso, finché i soldati della Decima non diventavano stanchi e inquieti come lui.
A dispetto della sua indifferenza, i suoi genieri avevano scoperto l'oro in due nuovi filoni, più ricchi di tutti quelli che avevano trovato prima. Il metallo prezioso possedeva una certa attrattiva e quando Giulio aveva visto il primo bottino rovesciarsi da una pezza sul suo tavolo, l'aveva guardato con odio per quello che rappresentava. Lui non aveva portato niente con sé in Spagna, ma quella terra svelava i suoi segreti e alla ricchezza si accompagnava il richiamo della città natale e della vita che lui aveva quasi dimenticata.
Sospirò a quel pensiero. La Spagna era un luogo straordinario dove abitare, sarebbe stato difficile lasciarla, ma sapeva che non le avrebbe dedicato molto tempo ancora. La vita era troppo preziosa e troppo breve per essere sprecata.

La caduta dell'aquila

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Pompeo parlava martellando le parole a una a una, ritmicamente. «Per avere così agito, Cesare è da oggi dichiarato nemico di Roma. Gli sono revocati titoli e onori; non è ha più il diritto di comandare le legioni. Pagherà il fio con la vita. È la guerra.»
Il silenzio era piombato sulla Curia dopo il tempestoso dibattito; i senatori apparivano tesi in viso. I messaggeri che avevano sfiancato i cavalli per raggiungerli non avevano modo di sapere a quale velocità avanzassero le legioni della Gallia che, attraversato il Rubicone, procedevano rapide verso meridione.
Dopo due giorni di fatiche Pompeo era visibilmente provato, eppure si ergeva diritto nell'aula del Senato, perché l'esperienza gli dava la forza di tenere a bada l'assemblea. Fissava i senatori che a poco a poco abbandonavano l'espressione irrigidita, e li vide e a dozzine si scambiavano occhiate lanciandosi messaggi. Molti di loro ancora gli rimproveravano i disordini scoppiati in città tre anni prima. Le sue legioni non avevano saputo mantenere l'ordine e da quel conflitto era scaturita la sua nomina a dittatore. Sapeva che non poche voci rumoreggiavano perché rinunciasse al potere e si ripristinassero le elezioni dei consoli. L'edificio stesso in cui si trovavano riuniti rappresentava con il suo odore di calcina fresca e di legno un costante monito. Le ceneri della vecchia Curia erano state rimosse, ma restavano le fondamenta a muta testimonianza delle distruzioni e delle rivolte in città.

Il sangue degli dei

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Non tutti erano sporchi di sangue. Il cadavere giaceva sul freddo marmo, rivoli rossi si disegnavano e gocciolavano sui gradini di pietra. Chi si allontanava si girava almeno una volta, quasi incapace di credere che il tiranno non si sarebbe più rialzato. Cesare aveva lottato, ma i suoi assalitori erano stati troppi e troppo decisi.
Il volto non era visibile. Nei suoi ultimi momenti il signore di Roma aveva afferrato i lembi della toga e se li era tirati sul capo, coprendosi. Era stato agguantato, pugnalato e sul tessuto candido si erano aperte delle bocche dalle quali erano fuoriuscite le viscere squarciate mentre Cesare si afflosciava e cadeva di lato. Il fetore si era diffuso nel teatro. Nessuna dignità per quella cosa a brandelli che era opera loro.
Più di venti uomini apparivano imbrattati da quella violenza, alcuni ancora ansanti, affannati. Intorno al gruppo, due volte più numerosi, si ammassavano coloro che non avevano estratto il pugnale ma erano rimasti a guardare senza fare un gesto per salvare Cesare. Quanti avevano preso parte attiva all'azione apparivano ancora storditi per l'atto cruento e per la sensazione di sangue caldo sulla pelle. Molti di loro avevano prestato servizio nell'esercito e avevano già visto la morte, ma in terre straniere e in città lontane, non a Roma, non qui.

La stirpe di Gengis Khan

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Il figlio della steppa

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Nevicava. Quando gli arcieri mongoli circondarono l'accampamento dei razziatori tartari la visuale era ridottissima. I guerrieri guidavano i piccoli ma robusti cavalli della Mongolia soltanto con le ginocchia, sollevandosi sulle staffe per scoccare una freccia dopo l'altra con impressionante precisione.
Cavalcavano in silenzio, determinati. Quello dei cavalli al galoppo era l'unico suono che sfidava le grida dei feriti e l'ululare del vento. I Tartari non avevano modo di sfuggire alle mortali saette che scaturivano dalle ali oscure della battaglia. I destrieri crollavano sulle ginocchia senza un lamento, con un fiotto di sangue che sgorgava dalle narici.
Dall'alto di un affioramento di rocce giallastre, Yesugei scrutava la battaglia imbacuccato nella pelliccia. Il vento spazzava la steppa come un demonio ruggente, mordendolo nelle zone in cui il grasso di montone se n'era andato lasciando apposta la pelle, eppure la sua espressione non tradiva il minimo accenno di disagio. Erano così tanti anni che sopportava quel clima inclemente, che ormai non ci prestava più attenzione. Era soltanto un dato di fatto nella sua vita, come i cavalieri che obbedivano ai suoi ordini o i nemici da trucidare.

Il volo dell'aquila

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Il khan dei Naiman era vecchio, e il vento che soffiava gelido sulla collina lo faceva rabbrividire. A valle, l'esercito che aveva radunato per combattere l'uomo che si faceva chiamare Gengis Khan teneva la posizione. Erano più di una dozzina le tribù che si erano unite alla sua e che ora combattevano fianco al fianco contro il nemico che a ondate si riversava su di loro. L'aria cristallina della montagna portava fino a lui grida di guerra e lamenti di feriti ma, ormai quasi cieco, non era in grado di vedere la battaglia. «Dimmi che cosa sta succedendo» sussurrò allo sciamano. Kokchu non aveva ancora compiuto trent'anni e la sua vista era acuta.
«I Jajirat hanno deposto archi e spade, mio signore» rispose il giovane, mentre un'ombra di rammarico gli offuscava lo sguardo. «Hanno perso il coraggio, proprio come avevi pronosticato tu.»
«Gli tributano un grande onore, dimostrando di temerlo» commentò il khan dei Naiman, stringendosi addosso la deel, la tipica veste mongola. «Dimmi dei miei guerrieri... stanno ancora combattendo?»
Kokchu rimase a lungo in silenzio, osservando la massa vorticante di uomini e cavalli che guerreggiavano ai piedi della collina. Gengis li aveva colti di sorpresa, sbucando nella pianura all'alba, benché, secondo i migliori esploratori mandati in ricognizione, dovesse essere ancora a centinaia di miglia di distanza. Erano piombati sui Naiman e sui loro alleati con tutta la ferocia di guerrieri abituati a vincere, eppure l'occasione di infrangere il loro impeto c'era stata, pensò Kokchu, maledicendo in cuor sui i Jajirat, che si erano aggiunti alla coalizione così numerosi da illuderlo che avrebbero potuto vincere. All'inizio quell'alleanza era parsa una cosa grandiosa, un successo che anche solo pochi anni prima sarebbe stato impensabile; ma aveva resistito solo al primo scontro, dopodiché la paura l'aveva fatta vacillare... e alla fine di Jajirat si erano ritirati.

Il popolo d'argento

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Il fuoco ardeva al centro del circolo, e le ombre si agitavano mentre buie figure saltavano e danzavano brandendo le spade. Le tuniche turbinavano intorno ai loro corpi e il canto si alzava in un ululato. Altri uomini sedevano con degli strumenti a corda sulle ginocchia, dai quali traevano melodie e ritmi cadenzati dal battere dei piedi.
Poco lontano dal fuoco c'era una fila di guerrieri mongoli in ginocchio, a petto nudo e con le mani legate dietro la schiena. Come un sol uomo, mostravano ai nemici trionfanti la faccia di pietra, quell'espressione imperscrutabile che tutti i Mongoli imparavano fin da bambini. Il loro ufficiale, Kurkhask, era stato brutalmente ferito durante la battaglia; aveva la bocca incrostata di sangue e l'occhio destro così gonfio che non riusciva ad aprirlo. Altre volte gli era andata anche peggio, pensò. Era orgoglioso di come i suoi uomini si rifiutassero di lasciar trapelare la paura. Osservò i guerrieri del deserto, con la loro pelle scura, mentre gridavano e cantavano alle stelle, agitando le spade ricurve macchiate con il sangue dei suoi compagni caduti. Strana gente, pensò Kurkhask: avevano il capo avvolto da molti strati di stoffa e larghe tuniche svolazzanti indossate su ampi pantaloni. Portavano quasi tutti la barba, da cui spuntava la bocca come uno squarcio rosso. Erano più alti e muscolosi dei Mongoli, puzzavano di spezie sconosciute e molti di loro masticavano delle radici rossastre, che poi sputavano a terra in grumi marroni. Kurkhask mascherò il disgusto mentre quelli saltavano, si contorcevano e danzavano con sempre maggior frenesia.

La città bianca

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Avanzò faticosamente tra le ger che costellavano il paesaggio come conchiglie sporche sulla riva di un mare antico. Tutto parlava di un'estrema povertà: dal feltro ingiallito, rattoppato e rammendato infinite volte nel corso delle generazioni ai capretti ossuti e alle pecore che gli correvano intorno belando mentre si avvicinava a casa. Batu inciampò in uno degli animali, imprecando quando l'acqua traboccò dai pesanti secchi. Nell'aria aleggiava l'odore pungente di urina, che non aveva avvertito sulla riva del fiume, dove spirava una fresca brezza. Si accigliò pensando che aveva trascorso tutta la giornata a scavare una latrina per la madre. Si era eccitato quando le aveva mostrato il risultato delle sue fatiche, ma lei si era limitata a stringersi nelle spalle, dicendo che era troppo vecchia per allontanarsi durante la notte quando c'era tanta buona terra intorno alla ger.
A trentasei anni ,era già consumata dalle malattie e dal passare del tempo. Aveva parecchi denti marci e camminava come una vecchia, curva e zoppicante. Eppure era ancora abbastanza forte da picchiarlo nelle rare occasioni in cui Batu si azzardava a menzionare suo padre. L'ultima volta era successo quella mattina, prima che scendesse al fiume.
Arrivato davanti alla porta della ger, posò a terra i secchi e si massaggiò le mani indolenzite. Tese l'orecchio in ascolto e sorrise, sentendo la madre fischiettare una vecchia canzone della sua giovinezza. L'arrabbiatura era svanita in fretta, come sempre.

Il signore delle pianure

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La tempesta ruggiva sulla città di Karakorum, e nell'oscurità le strade sferzate dalla pioggia si erano trasformate in torrenti. Fuori dalle mura migliaia di pecore si stringevano l'una all'altra nei recinti. La sostanza oleosa che ricopriva il vello le proteggeva dalla pioggia, ma non erano state condotte al pascolo e continuavano a belare e a lamentarsi per la fame. Di quando in quando alcune di loro si impennavano, incuranti delle compagne, formando cumuli di zampe scalcianti e occhi stralunati prima di tornare a confondersi con la massa in continuo movimento.
Il palazzo del khan era illuminato da lampade che sfrigolavano e crepitavano sui muri e sui cancelli esterni. All'interno, il rumore dell'acqua che scrosciava sui porticati pareva un cupo brontolio che cresceva e diminuiva in intensità. I domestici, riuniti in piccoli gruppi che odoravano di lana e seta bagnante, avevano abbandonato le loro occupazioni e ammiravano in silenzio cortili e giardini, in attesa che il temporale passasse.
Per Guyuk il rumore della pioggia era soltanto una seccatura, come il fischiettare di una persona che interrompesse le sue riflessioni. Versò del vino al suo ospite e si fermò lontano dalla finestra aperta dove il davanzale di pietra si era già scurito con la pioggia. L'uomo che aveva convocato si guardò intorno, nervoso. Le dimensioni della sala delle udienze erano tali da intimorire chiunque fosse abituato alle basse ger delle pianure. Lo stesso Guyuk, la prima notte che aveva trascorso a palazzo, si era sentito terrorizzato al pensiero che il soffitto potesse crollare sotto il peso di tutta quella pietra. Ora l'idea lo faceva sorridere, ma notò che lo sguardo del suo ospite guizzava spesso verso l'imponente soffitto. Suo padre Ogedai aveva sognato in grande quando aveva costruito Karakorum, considerò tra sé mentre posava la caraffa del vino e tornava dal suo ospite, con le labbra serrate in una linea sottile. Suo padre non aveva dovuto corteggiare i principi della nazione, né corrompere, pregare e minacciare solo per farsi dare il titolo che gli spettava di diritto.

La guerra delle rose

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Stormbird

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Anno Domini 1377
Ciotole di scuro sangue reale erano rimaste sotto il letto, dimenticate dal medico. Alice Perrers, seduta su una sedia, riprese fiato dopo lo sforzo fatto per rivestire il re d'Inghilterra con la sua armatura. Nella stanza l'aria era greve per l'odore di sudore e di morte mentre Edoardo giaceva, effigie di se stesso, pallido e con la barba bianca.
Negli occhi di Alice brillavano le lacrime mentre lo contemplava. Il colpo che aveva atterrato re Edoardo era piombato come un fulmine da un limpido cielo primaverile, imprevisto e terribile. Con delicatezza si chinò su di lui pe rasciugargli la saliva su un angolo del labbro cadente. Era stato un uomo così forte fino a poco tempo prima, capace di combattere dall'alba al tramonto. L'armatura scintillava e tuttavia era ammaccata e segnata come la carne che copriva, muscoli e ossa ormai consunti.

Trinity

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Il visconte Michel Gascault non era certamente una spia. Avrebbe disprezzato quella parola se qualcuno l'avesse usata nei suoi confronti. Naturalmente era sottinteso che l'ambasciatore francese al suo ritorno alla corte d'Inghilterra avrebbe riferito al suo sovrano qualsiasi fatto ritenuto interessante. Inoltre, Gascault aveva una notevole esperienza nei palazzi reali d'Europa, così come dei campi di battaglia . Sapeva su che cosa Carlo VII avrebbe voluto essere informato, così prendeva nota accuratamente di tutto ciò che accadeva intorno a lui, per quanto poco fosse. Le spie erano individui spregevoli, di basso ceto, che si nascondevano nei portoni e sibilavano parole d'ordine. Il visconte Gascault d'un autre côté, d'altro canto, era un gentiluomo francese, non si abbassava a quel livello.
Nelle ore di ozio erano quelli i pensieri con i quali si dilettava, l'unico modo che aveva per combattere la noia. Certamente non avrebbe mancato di accennare al re come fosse stato ignorato per tre giorni interi, lasciato a spassarsela in una camera sontuosa nel palazzo di Westminster. Pareva che i servitori che erano stati assegnati alla sua persona non si fossero lavati, anche se accorrevano abbastanza prontamente.

Bloodline

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Il vento li aggrediva come una cosa viva e malevola, ghiacciando le loro bocche e riempiendo i loro polmoni con folate violente e improvvise. I due tremavano sotto la sua sferza ma continuavano a salire, con le dita intirizzite aggrappate ai pioli di metallo gelido. Anche senza guardare a terra avvertivano la presenza della folla che seguiva l'arrampicata.
Entrambi erano cresciuti al Sud, in un villaggio della contea di Middlesex. Erano molto, molto lontani da casa, ma si trovavano lì per ordine della regina Margherita, che aveva affidato al loro signore quel compito. E, al momento, solo questo contava. Si erano diretti a nord dal castello di Sandal, lasciandosi dietro il campo di battaglia intriso di sangue e disseminato di cadaveri ormai illividiti e spogliati di tutto, per arrivare nella città di York con un fagotto sulle spalle e accompagnati dalla bufera.
Sir Stephen Reddes li osservava dal basso, con una mano alzata davanti al volto per schermare gli occhi dagli aghi di ghiaccio trascinati dal vento. Non gli importava che la grandine martellasse i suoi uomini, o che un'oscurità densa come la fuliggine li avvolgesse; avevano una missione da compiere, un ordine da eseguire, e tutti e tre erano fedeli alla Corona. E non avevano scelto il torrione della Micklegate Bar a caso: da sempre i re inglesi usavano quella parta per entrare a York dal Sud.
Godwin Halywell e Ted Kerch raggiunsero uno stretto cornicione di legno, alto sopra la folla, e cominciarono a percorrerlo, addossandosi il più possibile alla parete mentre il vento minacciava di catapultarli di sotto. Ai loro piedi l'assembramento si infittiva, costellato qua e là dal lampo di un chicco di grandine atterrato su una capigliatura nera. Sagome scure continuavano a uscire dalle case e dalle locande. Alcune chiesero spiegazioni alle guardie di picchetto presso le mura, senza ottenere risposta. Le sentinelle non erano state informate.

La battaglia di Ravenspur

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Sulle pietre dell castello di Pembroke, avvolto nelle spire del fiume, rosseggiava il sole invernale. Al di sopra delle mura svettava il mastio, alto come una cattedrale e quasi altrettanto fiero.
Sulla strada che portava all'androne d'ingresso lo sconosciuto appoggiò entrambe le mani sul pomo della sella, facendo scorrere il pollice sul cuoio ruvido. Il cavallo stanco lasciava ciondolare il muso, non trovando niente da brucare sulla nuda pietra. A confronto con le figure dei soldati di guardia sul cammino di ronda, Jasper Tudor aveva l'aspetto di un rozzo pastore, scuro, e i capelli, lunghi fino alle spalle e ridotti a una massa sudicia e compatta simile a un panno infeltrito, gli lasciavano il viso in ombra ora che il sole stava tramontando e il giorno cominciava a morire intorno a lui. Nonostante la stanchezza, gli occhi erano attentissimi e sorvegliavano ogni movimento in alto sulle mura. Tutte le volte che una guardia si girava verso il cortile o guardava un ufficiale giù in basso, Jasper osservava, ascoltava e giudicava, tanto che capì immediatamente come la notizia della sua presenza avesse richiamato sulle mura il signore del castello. Sapeva quanti gradini avrebbe dovuto risalire il nuovo conte per raggiungere la porta esterna rinforzata da sbarre di ferro, solo la prima di una dozzina di difese contro gli assalti nemici.
Jasper contò sottovoce, cercando di non pensare alla collera che provava per il solo fatto di trovarsi in quel luogo. Vide mentalmente ogni svolta della scala di pietra e le labbra si piegarono in una smorfia quando William Herbert comparve fra i merli. Il giovane conte lo guardò dall'alto, il viso imporporato per l'emozione. Il nuovo signore di Pembroke, un diciassettenne rissoso che ancora non si era ripreso dalla morte del padre, a quanto pareva non gradiva la vista dell'uomo bruno e peloso che lo stava fissando dal basso. L'espressione del suo viso e il modo in cui serrava le pesanti mani sulla pietra del castello non lasciavano dubbi al riguardo.

Athenai

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Le porte di Atene

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Il polline dei fiori di montagna si diffondeva nell'aria in gran quantità, inondandola come un profumo intenso o un odore persistente di resina. Gli animali ansimavano, cercando riparo nell'ombra. L'astragalo cresceva ovunque, tra le sterpaglie e intorno a pietre troppo roventi perché una creatura vivente potesse sostarvi. I grilli frinivano e cantavano sui rami dei pini cresciuti chissà come nel terreno roccioso.
Il silenzio, antico quanto quelle pianure, fu interrotto da una melodia esile come un filo, che via via si precisò in un suono di ottoni e in un coro. Le lucertole corsero a nascondersi quando le danzatrici del re raggiunsero la sommità del crinale, facendo tremare l'aria con i cimbali, i flauti e i tamburi. A un cenno la processione si arrestò di colpo, i suoi membri ormai senza fiato e madidi di sudore.
Il re in persona avanzò sul suo stallone e smontò di sella. Dario non aveva più l'agilità della gioventù, ma in lui si indovinava ancora la grazia di un tempo. Gettò le redini a uno schiavo, si arrampicò su un'enorme pietra piatta e restò a guardare la piana. Da quell'altezza vedeva chiare le cicatrici che solcavano la terra, i segni lasciati dalla guerra e dal fuoco. Aggrottò la fronte, turbato al tempo stesso dalla distanza e dalla vicinanza del passato. Trent'anni prima si era trovato proprio in quel punto, e per un istante gli parve che, muovendo un passo, sarebbe stato di nuovo quel giovane al fianco del padre, con tutta la vita davanti.

Le ceneri di Atene

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Il re di Persia fece scorrere lo sguardo sul cuore di Atene.
Il sole gli scaldava la nuca, ma soffiava una brezza leggera e tiepida che portava con sé un profumo dolciastro, un misto di putredine e di mare. Serse chiuse gli occhi e ispirò a fondo, sentendosi in pace. Il grande mercato, i templi, le strade fitte di abitazioni, i laboratori, le taverne: era tutto deserto. Quella scena aveva qualcosa di intimo. Come sedersi alla toeletta di una donna e aprirne i cassetti, scoprendone tutti i segreti.
Gli unici soldati in città erano i suoi. Avevano setacciato Atene da un capo all'altro, perquisendo ogni bottega, ogni casa abbandonata. Nemmeno un greco dentro le mura, salvo un pugno di anziani confusi, lasciati indietro dalle famiglie. Ciechi e sdentati, avevano sibilato risate nervose sentendo la parlata straniera dei persiani. Di loro Serse non sapeva che farsene. Li avevano abbattuti in fretta, come cani randagi. Quasi un atto di misericordia.
Il generale Mardonio seguiva il Gran Re tenendosi a tre passi di distanza, assorto nei suoi pensieri. Entrando ad Atene lui e Serse avevano provato uno strano senso di faimiliarità. Di colpo, le costruzioni e gli scorci descritti in centinaia di rapporti erano diventati reali. L'Acropoli, per esempio, che svettava dalla rupe calcarea alla loro sinistra, vegliando sulla città; oppure la rocca dell'Areopago, dove per secoli si era riunito un consiglio di ateniesi.
Più avanti Serse vedeva il colle della Pnice, con gli alberi dritti e sottili come pugnali e i fianchi scavati dalle scalinate bianche. In tempi normali era là che sedeva a discutere la celebre Assemblea, insofferente a qualsivoglia re o tiranno. Gli sarebbe piaciuto vederli, quegli uomini, indaffarati a redigere le loro piccole leggi. Quel giorno, invece, lassù c'era soltanto la brezza. Gli abitanti della città della dea Atena erano scesi in massa al porto, si erano imbarcati sulle navi e avventurati in mare. Pur di sottrarsi al sacco dell'esercito persiano e non pagare le conseguenze della loro arroganza, avevano preferito fuggire. Davanti a lui.

Il falco di Sparta

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A Babilonia gli storni mostravano le lingue scure nei becchi aperti per il caldo.
Al di là delle possenti mura della città il sole premeva su coloro che lavoravano nei campo, schiacciandoli.
Un velo di sudore o di olio, il figlio non era in grado di dirlo, rendeva lucente la pelle del Re dei Re. I riccioli della sua barba brillavano, una caratteristica che gli apparteneva come il profumo di rose o il lungo pannello della veste che indossava.
L'aria sapeva di pietre calde e di cipressi, puntati verso il cielo come aste di lancia. Tutte le strade lì intorno erano state sgombrate da coloro che vi abitavano, nemmeno un bambino, nemmeno una vecchia, nemmeno una gallina sulla strada di Ningal, resa deserta per permettere il passaggio del re. Il silenzio era così assoluto che il ragazzo riusciva a udire distintamente il cinguettio degli uccelli.

Bibliografia

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  • Conn Iggulden, Imperator. Le porte di Roma, traduzione di Barbara Piccioli, Piemme, 2003. ISBN 978-8838471995
  • Conn Iggulden, Imperator. Il soldato di Roma, traduzione di Clara Nubile, Piemme, 2004. ISBN 978-8856665857
  • Conn Iggulden, Imperator. Cesare, padrone di Roma, traduzione di Luciana Crepax, Piemme, 2005. ISBN 978-8856601565
  • Conn Iggulden, Imperator. La caduta dell'aquila, traduzione di Gianna Lonza, Piemme, 2006. ISBN 978-8856665871
  • Conn Iggulden, Imperator. Il sangue degli dei, traduzione di Paola Merla, Piemme, 2018. ISBN 978-8856640328
  • Conn Iggulden, La stirpe di Gengis Khan. Il figlio della steppa, traduzione di Alessandra Roccato, Piemme, 2007. ISBN 978-88-384-7651-8
  • Conn Iggulden, La stirpe di Gengis Khan. Il volo dell'aquila, traduzione di Alessandra Roccato e Maria Cristina Castellucci, Piemme, 2008. ISBN 978-88-384-7652-5
  • Conn Iggulden, La stirpe di Gengis Khan. Il popolo d'argento, traduzione di Alessandra Roccato, Piemme, 2009. ISBN 978-88-384-7653-2
  • Conn Iggulden, La stirpe di Gengis Khan. La città bianca, traduzione di Alessandra Roccato, Piemme, 2011. ISBN 978-00-072-8800-7
  • Conn Iggulden, La stirpe di Gengis Khan. Il signore delle pianure, traduzione di Alessandra Roccato, Piemme, 2012. ISBN 978-88-384-7655-6
  • Conn Iggulden, La guerra delle rose. Stormbird, traduzione di Paola Merla, Piemme, 2014. ISBN 978-88-566-4033-5
  • Conn Iggulden, La guerra delle rose. Trinity, traduzione di Paola Merla, Piemme, 2014. ISBN 978-88-566-4034-2
  • Conn Iggulden, La guerra delle rose. Bloodline, traduzione di Elena Cantoni, Piemme, 2015. ISBN 978-88-566-4035-9
  • Conn Iggulden, La guerra delle rose. La battaglia di Ravenspur, traduzione di Paola Merla, Piemme, 2016. ISBN 978-88-566-5681-7
  • Conn Iggulden, Il falco di Sparta, traduzione di Paola Merla, Piemme, 2019. ISBN 978-88-566-6952-7
  • Conn Iggulden, Le porte di Atene, traduzione di Elena Cantoni, Piemme, 2021. ISBN 978-8856679564
  • Conn Iggulden, Le ceneri di Atene, traduzione di Elena Cantoni, Piemme, 2022. ISBN 978-8856684346

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