Danila Comastri Montanari

scrittrice italiana (1948-2023)
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Danila Comastri Montanari (1948 – 2023), scrittrice italiana.

Incipit di alcune opere

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La campana dell'arciprete

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«Ego absolvo te peccatis tuis, in nomine Patris et filii et Spiritus Sancti. Amen. Cinque Pater, Ave e Gloria», sentenziò Monsignor Gasparri con un frettoloso segno della croce.
La Sandra si immerse in un plateale atto di contrizione.
Speriamo che serva a renderla più paziente coi bimbi del catechismo, si augurò l'arciprete, senza farci molto conto: la maestra era troppo occupata a collezionare indulgenze e Paternostri per godere della compagnia dei contadinelli che istruiva nella dottrina cristiana, e si sarebbe di certo stupita se qualcuno le avesse consigliato di includere gli scappellotti nella confessione quotidiana.
Al curato, la devozione della Sandrina pareva persino eccessiva: c'era davvero bisogno, si chiedeva, di confessarsi tutte le mattine? Come se il Signore, con tutti i guai che Gli combinavano gli uomini, non avesse altro da fare che misurare il pelo alle nostre piccole mancanze quotidiane.
Don Gasparri diede un'occhiata alle pie donne che attendevano il loro turno per mondarsi, salmodiando Avemarie in un latino fantasioso e approssimativo. Sapeva già cosa avrebbero detto: ho mancato di rispetto a mia suocera, ho fatto uno sgarbo a mia sorella, mio marito bene, non viene a Messa, bestemmia, ho peccato contro il sesto comandamento, ma come volete che faccia, Monsignore, meglio così piuttosto che lasciarlo andare con una di quelle.

Terrore

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Place de la Révolution, ci-devant place Louis XV, sezione Tuileries

Al centro della piazza, dove un tempo si ergeva il monumento a luigi XV, svettava ora la statua della Libertà, avvolta nel tricolore. Anche il palco era bardato di un panneggio bianco, rosso e blu, come le piume dei cappelli, le sciarpe, i berretti, le coccarde, gli stendardi, i festoni, le bandiere.
L'asse di legno si mosse con uno scricchiolio sinistro, facendo avanzare il corpo sotto la macchina. Un rullo di tamburo, lo stridere della lama, un tonfo, poi il lungo urlo di giubilo.

Il deputato Lussard si fece largo tra le spettatrici delle prime file.
«È la prima volta che vedo decapitare un ribelle chouan, di solito li giustiziano in provincia» disse una popolana, raccattando ferri e gomitoli nella cesta di paglia.
«Tutti dobbiamo sterminarli, i briganti vandeani!» commentò la vicina e mentre ripiegava lo sgabello portatile, sputò più volte per terra, in spregio alla Vandea fratricida, che, con il sostegno degli inglesi e dei nobili emigrati, aveva scatenato la più spietata delle guerre civili contro i bleus della Repubblica.
«Ah, ragazze mie, siete troppo giovani per sapere qualcosa delle esecuzioni vere!» esclamò una donna già avanti con gli anni, sistemandosi la coccarda ben alta sulla cuffia. «Quelle di oggi sono acqua fresca, i condannati nemmeno se ne accorgono. Sotto il re li faceva penare a lungo con la ruota, la corda, le tenaglie...»
«La Nazione non cerca vendetta» precisò in tono saccente una giovane che l'abbigliamento ordinatamente scialbo qualificava per istitutrice.
«Ben detto!» approvò la vecchia. «I cittadini nascono e vivono uguali, quindi hanno il diritto di morire tutti nello stesso modo: un colpo e via, è finita. Ai miei tempi i supplizi erano atroci, con torture e tutto il resto: ero bambina quando giustiziarono Damiens, un giorno intero durò il suo calvario, prima gli venne tagliata la mano, poi gli aprirono le carni con le pinze roventi versandoci dentro piombo fuso, infine lo squartarono. E soltanto per aver ferito Luigi il Beneamato con un temperino senza punta!» disse la donna, guardando Lussard per sollecitarne il parere.
Per nulla desideroso di farsi coinvolgere, il membro della Convenzione fece un cenno di saluto con il tricorno di feltro e si allontanò mentre nella piazza di dame eleganti si attardava a esibire l'allusivo nastro rosso alla gola, diventato ormai di gran moda.

Le indagini di Aurelio Stazio

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Mors tua

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Roma, anno 795 ab Urbe condita
(anno 42 dopo Cristo)
Dodicesimo giorno prima delle Calende di luglio

Publio Aurelio era di ottimo umore mentre si avviava in portantina verso la casa della sua ultima conquista. Dopo aver mangiato, si era concesso un lungo bagno ristoratore per prepararsi degnamente all'appuntamento che aveva strappato alla bella giovane conosciuta quella mattina.
Era una splendida serata. Il cielo della Capitale, infuocato dal tramonto, tingeva di rosso i muri di mattoni e diffondeva una luce irreale sui marmi delle colonne. In lontananza si stagliavano i colli bianchi di templi e fitti di pini a ombrello. Fece per incitare i lettighieri perché si affrettassero, poi cambiò idea e si sdraiò pigramente sugli ampi cuscini, felice di godere una volta di più la visione della città che credeva di conoscere nei minimi particolari, ma che non cessava mai di stupirlo e di affascinarlo. Lo schiavo annunciatore si faceva largo nelle strade caotiche, sgombrando il passo alla lettiga, mentre Castore, il servo preferito del giovane senatore, seguiva a breve distanza, reggendo con cura un prezioso vaso di fine alabastro.
La portantina lasciò le vie affollate del centro per inoltrarsi fra gli orti dell'Aventino e dopo un breve percorso tortuoso giunse davanti alla casa di Corinna.
L'edificio, dall'esterno, non sembrava piccolo, ma aveva un aspetto modesto e non molto pretenzioso. Dal muro di cinta si affacciavano piccole botteghe artigiane, chiuse a quell'ora. Per la strada non c'era più nessuno e la porticina di legno era socchiusa in maniera invitante, come in segno di benvenuto.
Aurelio sorrise tra sé e cercò di scrutare nell'ombra promettente, oltre la soglia. Per un attimo gli parve di scorgere il bagliore di due grandi occhi e il profilo strano di un piccolo viso appuntito. Impaziente di entrare, si affrettò a congedare la scorta, indirizzando i portatori a una bettola poco più lontana, con l'obolo necessario per una lunga bevuta. Trattenne solo Castore che, al corrente da sempre dei suoi affari di cuore, ostentava senza imbarazzo il pesante calice destinato a servire da dono propiziatorio.
La porticina si aprì cigolando e il giovane entrò, lasciando di guardia all'angolo della strada il fido servitore. Si ritrovò in un atrio non molto grande, appena illuminato da alcune lanterne di rame appese al soffitto, e avanzò cautamente, cercando segni di vita.

In corpore sano

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Roma, anno 796 ab Urbe condita
(anno 43 dopo Cristo, fine estate)
Quinto giorno prima delle Calende di settembre

«Ecco il nostro Ortensio!» presentò Aurelio verso la fine del banchetto. Il piccolo cuoco sostava sulla soglia, timoroso del giudizio di quei raffinati buongustai. Publio Aurelio Stazio e il suo amico Servilio si tergevano le mani con salviette profumate, comodamente sdraiati sui divani disposti attorno all'emiciclo della mensa - il tavolo ricurvo era l'ultima innovazione dell'eccentrico padrone di casa - mentre gli schiavi, ombre discrete, rimuovevano silenziosi gli ossi e gli avanzi dal pavimento a mosaico della sala triclinare.
«Molto bene, ragazzo! Per uno spuntino tra amici te la sei cavata più che discretamente. La crema di lattuga e cipolle era squisita e anche sugli arrosti nulla da dire. Le ofelle di maiale, quelle, forse, erano un po' piccantine...»
«È vero, domine, è vero!» si affrettò ad ammettere Ortensio, balbettando per l'emozione. «In effetti i miei piatti sono un po' troppo saporiti. Ma sono i signori, di solito, a pretendere un mare di garum, e lo vogliono molto speziato anche! Se fosse per me, lo mescolerei soltanto a timo e santoreggia, soprattutto quando è destinato alla cacciagione. Magari un po' di menta e di serpillo, e qualche seme di finocchio...»
«Troppi odori, troppi odori!» sentenziò Servilio, scandalizzato. «Questa mania del garum non ci lascia più sentire il sapore delle carni!»
Il cuoco, che era d'accordo, tentò di giustificarsi: «Così mi è sempre stato richiesto...».
«Su, su, non prendertela!» lo consolò Servilio. «Il pasticcio d'anatra era eccellente e anche le polpette coi pinoli: hai un buon gusto e una certa arte. Ma se vuoi diventare un maestro di cucina, cerca di dimenticare in fretta gli intrugli che ti hanno costretto a preparare i volgari mangioni dai quali hai lavorato finora. Adesso sei al servizio di un senatore» soggiunse additando Aurelio «e qui certe cadute di gusto non sono ammesse. Continua a esercitarti e fammi assaggiare.» Poi, rivolto all'amico, decretò: «Sì, hai fatto un buon acquisto; penso che se ne possa fare un ottimo capo cuoco, seguendolo da vicino». «Non dubito che vorrai occupartene personalmente» rise il giovane patrizio: la ghiottoneria del buon cavaliere era famosa in tutta Roma, almeno quanto la passione per i pettegolezzi della sua consorte.

Cave canem

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Roma, anno 772 ab Urbe condita
(anno 19 dopo Cristo)

Le torce erano già state spente da un pezzo, e la grande domus sul Viminale giaceva immersa nel buio.
Appiattito contro la parete del peristilio, l'uomo si guardò attorno furtivo e avanzò all'ombra del colonnato, attento a non far scricchiolare i sandali. Giunto davanti all'ingresso, trasse un lungo sospiro e occhieggiò attraverso il traforo della porta intagliata. Come aveva previsto, il tablino era deserto: in assenza del padrone, che si trovava ad Anzio per un banchetto, nessun altro si sarebbe azzardato a metter piede in quella stanza. Scivolò dentro e si chiuse la porta alle spalle.
Avanzando di qualche passo, l'intruso cercò a tentoni una lucerna e la accese, circospetto, abbassando al minimo lo stoppino. Al debole chiarore della fiamma apparvero il letto elucubratorio, gli sgabelli e, bene addossata al muro, la grande arca di terebinto istoriata d'argento, con la toppa nera che ammiccava come una femmina in amore.
L'intruso frugò tra le pieghe della tunica, ne trasse una chiave e e si chinò sul forziere.
Un istante dopo, la testa gli esplose.
Il corpo andò lentamente afflosciandosi sul coperchio spalancato del cofano, e la lucerna si infranse in mille pezzi, mentre l'olio tiepido si spandeva sul mosaico del pavimento in una larga macchia appiccicosa.

Morituri te salutant

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Roma, anno 798 ab Urbe condita
(anno 45 dopo Cristo, estate)
Vigilia delle Calende di giugno

Il senatore Publio Aurelio Stazio sedeva un po' rigido, accanto a Tito Servilio, nella tribuna coperta dietro al palco imperiale.
L'anfiteatro di Statilio Tauro, al Campo Marzio, era già pieno da scoppiare, ma altra gente continuava a riversarsi dai vomitoria, i larghi corridoi di accesso per la plebe. I giochi di quel giorno sarebbero stati memorabili: Claudio, grande appassionato di ludi, non aveva badato a spese per offrire al popolo romano quanto di meglio si fosse visto fino a quel momento in fatto di combattimenti di gladiatori.
L'arena era addobbata da larghi teloni che difendevano il pubblico dal sole cocente di giugno e, al suo centro, un monte artificiale ricostruiva fedelmente l'angolo di foresta tropicale da cui i campioni avrebbero dovuto stanare le belve. Tutto attorno, un largo anello di sabbia aspettava il passo trionfante dei vinticori e il sangue dei perdenti.
Tito Servilio, eccitatissimo, additava all'amico Aurelio i vari trucchi di scena, pregustando l'attesissimo spettacolo. Il senatore, dal canto suo, contemplava l'arena con un misto di curiosità e disgusto: non amava i massacri, per quanto coreografici, e solo l'impossibilità di sfuggire ai suoi doveri sociali lo aveva indotto a occupare il posto, solitamente vuoto, che gli era riservato nella tribuna alle spalle dell'imperatore.

Parce sepulto

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Roma, anno 798 ab Urbe condita
(anno 45 dopo Cristo, autunno)
Nono giorno prima delle Calende di novembre

Comodamente sdraiato su un divano del tablino, il senatore Publio Aurelio Stazio sorbiva a piccoli sorsi il Falerno caldo dalla sua coppa, annuendo di tanto in tanto. Pomponia parlava da quasi un'ora, e il patrizio era già stato pienamente edotto su tutti gli scandali dell'Urbe, a partire da quelli che coinvolgevano la bellissima e disinvolta imperatrice Valeria Messalina. Cullata dall'ininterrotto cicaleccio della matrona, l'attenzione di Aurelio scivolava impercettibilmente verso altri lidi: le ceramiche attiche della sua collezione, il trattato di Columella sui giardini, le grazie della cortigiana Cinzia...
«... Mia figlia!» esclamò in quel momento la grassa signora, e Aurelio sobbalzò, rovesciando il calice di vino. «A volte ho l'impressione che tu non mi stia ascoltando» lo redarguì Pomponia, accigliandosi, mentre uno schiavo sollecito si precipitava a ripulire il tavolo dal Falerno.
"Possibile che Pomponia, proprio in extremis..." pensava intanto il patrizio. "No" escluse: benché cercasse accuratamente di nasconderlo, la matrona doveva aver superato da un pezzo l'età della procreazione.
«Lucilla ha quasi ventitré anni» spiegò l'amica.
"Forse una debolezza di gioventù dedusse il senatore, frastornato; un errore a cui il buon Tito Servilio, marito di Pomponia, era rimasto all'oscuro...
«Si sposa tra cinque giorni. Purtroppo Tito è in Lucania, e non sarà presente. Speravo che venissi tu, al suo posto».
«Ma allora Servilio...» osservò Aurelio, stupito.
«L'ha adottata prima di partire! È figlia della mia defunta cugina Calpurnia - che gli Dei le risparmino le pene del Tartaro - e il padre è Lucio Arriano, il retore» specificò Pomponia. «Il loro unico maschio morì prima ancora di indossare la toga virile. Privo ormai di discendenza, Arriano desidera ora affiliarsi Ottavio, il suo miglior allievo, e farlo sposare alla secondogenita perché continui il nome della gens. In questo modo, tuttavia, i ragazzi sarebbero considerati legalmente fratello e sorella; quindi, per rendere possibile il matrimonio, era necessario che qualcuno adottasse a sua volta Lucilla. Noi ci siamo offerto subito, non è magnifico?»
Aurelio non poté che assentire.

Cui prodest?

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Roma, anno 799 ab Urbe condita
(anno 46 dopo Cristo, inverno)
Quarto giorno primo delle Idi di gennaio

Un lungo applauso segnò la fine dell'interminabile seduta, e i trecento padri coscritti si riversarono in fretta sui gradini della Curia come uccelli bianchi e rossi all'assalto del becchime.
Publio Aurelio Stazio era di pessimo umore: a Roma faceva molto freddo quell'inverno, e quattro ore di immobilità sulle austere panche di marmo del Senato lo avevano ridotto a un pezzo di ghiaccio. La veste di rappresentanza, tunica col laticlavio e toga drappeggiata sul braccio scoperto, offriva un ben magro riparo ai morsi del gelo; gli inverni dovevano essere più miti nei secoli addietro, quando Catone il Censore tacciava di rammollito chiunque rifiutasse di andar nudo sotto la toga, considerò il patrizio, rabbrividendo.
Giunto all'aperto, un soffio di aria umida lo investì in pieno, e bastò una rapida occhiata ai nuvoloni neri dietro al tetto dorato del Tempio Capitolino per convincero ad allungare il passo verso i lettighieri nubiani che lo aspettavano al Foro di Augusto. Il senatore, dunque, si precipitò nella portantina chiusa e si rincantucciò sotto le coperte: non appena a casa, avrebbe fatto un bagno bollente, sempre che quei fannulloni dei suoi servi si fossero ricordati di accendere la caldaia dell'ipocausto.
«Largo alla lettiga di Publio Aurelio Stazio!» gridavano a squarciagola gli schiavi annunciatori, cercando di farsi largo tra il traffico.
In breve l'elegante portantina uscì dal caos del centro e cominciò ad arrampicarsi per il Vicus Patricius, fino alla vetta del Viminale, dove sorgeva la grande domus degli Aurelii.

Spes, ultima dea

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Foresta teutonica, anno 779 ab Urbe condita (anno 26 dopo Cristo)

Il tribuno fece avanzare la cavalcatura di qualche passo e guardò giù nella pianura, là dove l'ultima centurio dell'Undicesima legione era schierata sul limitare dell'accampamento.
Tutto attorno, i boschi formicolavano di barbari. A un tartto, il silenzio dei campi fu scosso da un grido di guerra e la prima ondata di Germani irruppe dalla foresta.
Dalle fila di legionari schierati nella valle uscì il comandante, con la corazza argentea che brillava sotto il pallido sole del Nord. Un braccio esile si levò col gladio sguainato nel segnale di attacco, e fu subito un infernale cozzare di spade e di giavellotti.
Immobile sul colle, il tribuno fissava l'armatura d'argento, col pennacchio rosso dell'elmo alto in mezzo all'infuriare della battaglia.
Un istante più tardi, non lo vide più.
D'istinto, affondò i talloni nel fianco del cavallo, per spingerlo nel cuore della mischia. Eppure, un attimo prima di uscire allo scoperto, trattenne le redini e, ligio agli ordini, dominò l'impulso di precipitarsi nella valle.
Soltanto quando tutti i barbari si furono riversati nella radura, la mano gli corse all'impugnatura del gladio.
Sentì l'ordine: «Formate la falange!» e riconobbe stupito la sua stessa voce. «Centurione, serra le fila! Gli uomini a cavallo mi seguano!»
Una ventina di soldati si portarono al suo fianco, mentre le poche centinaia di fanti alle sue spalle si stringevano nella formazione di attacco.
«Legioni di Quinto Valerio Cepione!» chiamò, e i legionari risposero battendo le spade sugli scudi. Allora alzò il gladio e scese al galoppo, forsennatamente, verso il punto in cui aveva visto cadere l'armatura d'argento.

Scelera

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Prologo
Il messaggio segreto
Baiae, anno 799 ab Urbe condita (anno 46 dopo Cristo, tarda estate), Calende di settembre

La grande villa del cavaliere Tito Servilio, davanti allo stabilimento termale più elegante di Baiae, era illuminata a giorno. Ai lati del portone e sulle colonne del terrazzo ardevano le torce resinose, mentre nelle sale interne erano accese miriadi di lucerne, colme di olio aromatizzato con essenze di fiori.
Sull'orlo della balaustra, una matrona dalle forme abbondanti scrutava la strada sottostante, stringendosi addosso la palla turchina che, nel suo eccesso di ricami a stelle d'argento, ricordava curiosamente le mappe del cielo tracciate dagli antichi astrologi caldei.
«Eccolo, eccolo!» gridò a un tratto la signora con voce eccitata e soltanto l'altezza spropositata dei calzari all'ultima moda le impedì di precipitarsi nel vestibolo ad accogliere, prima tra tutti, l'attesissimo ospite.
In quel momento gli schiavi annunciatori scandirono a voce tonante: «Il consolare Publio Aurelio Stazio!» e sulla soglia dell'atrio apparve un uomo alto e bruno, paludato nella toga col laticlavio dei senatori di Roma. Lo seguiva il suo segretario di fiducia, un elegante liberto alessandrino dallo sguardo sottile e astuto, che si accarezzava con gesti misurati la barbetta a punta.
«Finalmente! Pomponia temeva che non arrivassi più!» esclamò il cavaliere Servilio, mentre la moglie correva ad abbracciare il suo vecchio amico.
«Salve, Castore!» esclamò dal canto suo la matrona, rivolta al silenzioso segretario di Publio Aurelio. «In cucina ti attendono alcune leccornie, servite dalle ancelle più graziose della casa!».
Il greco si produsse in un profondo inchino e sparì verso i quartieri di servizio con ostentato sussiego: tutti sapevano che, nonostante l'apparenza svagata, alla fine della cena avrebbe saputo ripetere per filo e per segno, senza un solo errore, ogni frase scandita dai convitati nel salone di gala.

Gallia est

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Arelate, Gallia Narbonese, anno 799 ab Urbe condita (anno 46 dopo Cristo, autunno)
Quinto giorno prima delle Idi di novembre

La tettoia di paglia del capanno, rorida di pioggia, emanava un tanfo marcescente. Il romano rabbrividì, sentendo l'aria umida del fiume penetrargli nelle ossa. Tolse con un calcio stizzito una stuoia arrotolata e si appoggiò allo scaffale degli attrezzi, dando ostentatamente le spalle all'interlocutore. Era stanco, la mano gli doleva e lo aspettavano parecchie cose a cui attendere: non c'era dunque ragione di protrarre più a lungo lo spiacevole colloquio.
«Ma tu mi avevi promesso...» udì sussurrare.
«Verba volant» disse freddamente, come lo zappatore che schiaccia senza riguardi un verme dannoso. Non vi fu risposta, soltanto un lungo sospiro.
Il romano scostò di qualche palmo il traliccio per contemplare lo strato di foglie secche che andava accumulandosi sotto il frutteto. Sarebbe stato piacevole vivere nella provincia Narbonese, pensava: i tempi nuovi esigono idee nuove e la Gallia era uno sterminato campo d'azione, per un uomo in gamba.
Gli mancò il tempo per capire che nessuno dei suoi progetti si sarebbe realizzato.
Sentì il respiro mozzarglisi in gola e sprofondò nel buio dell'incoscienza. Morì senza vedere le fiamme, né la colonna di fumo nero che lo avvolgeva come in un sudario funebre.

Saturnalia

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Roma, anno 799 ab Urbe condita (anno 46 dopo Cristo, inverno)
Sedicesimo giorno prima delle Calende di gennaio

Il tempio di Venere Calva sulla Velia, eretto in memoria delle matrone che durante l'assedio di Brenno avevano offerto i loro capelli per farne corde da catapulta, contava rari devoti. Perciò, nell'istante in cui l'uomo e il bambino si incrociarono sulla scalinata, nessuno li vide, eccetto un paio di vagabondi troppo brilli per valutare appieno quanto stava accadendo.
La sagoma in mantello e cappuccio sbucò all'improvviso dalla Via Sacra e si inerpicò sull'altura. Un lungo lamento, che nulla aveva di umano, parve seguire i passi pesanti oltre il sacello dei Penati, fino al piccolo podio prospiciente il Macellum.
Spesso la morte giunge in silenzio. Quella volta si annunciò con un tonfo secco, al culmine di un volo da cento piedi di altezza. Uno schianto letale, ma dall'impatto attutito, difficile da udire in mezzo alle risate, agli schiamazzi e al rullare frenetico dei tamburi di quella notte di festa.
Il corpo rimbalzò sul portico del Macellum per andare a fermarsi nella piazza. Giacque a lungo sul bordo del marciapiede, senza attirare l'attenzione dei pochi passanti, che lo scambiarono per quello di un ubriaco a cui avessero ceduto le gambe.
Passò almeno un'ora prima che uno schiavo alticcio, facendo scivolare lo sguardo sull'uomo esanime, notasse le braccia piegate in una posa innaturale e il sigillo che luccicava all'indice.

Ars Moriendi - Un'indagine a Pompei

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Pompei, anno 800 ab Urbe condita (anno 47 dopo Cristo)
Prima giornata

Era il primo pomeriggio di un brumoso mattino di febbraio quando due cavalieri si affacciarono alla Porta di Ercolano, in quel di Pompei, seguiti da una decina di muli carichi di bagagli.
«Bello, eh?» disse il senatore Publio Aurelio Stazio additando il Mons Vesuvius alle loro spalle, verde di vigneti abbarbicati fino alla cima.
«Sei certo che ci sia da fidarsi? Dicono che un tempo fosse un vulcano» si inquietò il suo segretario alessandrino, a cui piaceva sempre esagerare i pericoli. «È spento da secoli, Castore!» lo canzonò Aurelio, mentre spingeva il cavallo verso il varco nelle mura sannite che, pur rafforzate a dovere, nulla avevano potuto contro l'esercito di Lucio Cornelio Silla, ai tempi delle guerre civili. A differenza di Stabia, rasa al suolo dal feroce dittatore, Pompei aveva avuto fortuna, capitolando senza subire soverchi danni. Poco dopo veniva trasformata in colonia romana, assumendo il nome del suo conquistatore e quello della sua divinità protettrice: Colonia Cornelia Veneria Pompeiana.
Il liberto disertò con lo sguardo il lontano monte, per appuntarsi rassicurato sul grosso fallo apotropaico che proteggeva l'incrocio: niente era efficace contro il malocchio più dell'organo maschile, che i pompeiani esibivano in buona vista nei trivi e sulle pareti delle case, dipingevano negli atri e nei peristili, tassellavano in preziosi mosaici nelle terme e nelle palestre.

Olympia - Un'indagine ai giochi ellenici

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Antivigilia della 205ima Olimpiade, anno 794 ab Urbe condita (anno 41 dopo Cristo)

L'impatto dell'enorme massa di carne colpì come un proiettile da catapulta un torace già indebolito dai pugni, schiacciandolo col suo peso immane. La tripputa corpulenza del petto non resse all'impatto: il busto si contrasse, la gamba destra perse l'appoggio, il piede franò sulla sabbia. Mentre cadeva scalciando come un calabrone rovesciato, l'avversario gli fu sopra, a mozzargli il fiato.
Nella nebbia rossa vide la mano mostruosa che si protendeva verso il collo e capì che doveva arrendersi Ma gli bastava resistere un istante, uno solo, per conficcare un dito nell'occhio del nemico e farlo schizzare fuori. Dopo, avrebbe finalmente potuto respirare.
Irrigidì l'indice e lo fiondò verso l'orbita.
Era ancora convinto di avere la vittoria in pugno, mentre moriva coi polmoni oppressi da libbre e libbre di grasso, il dito proteso nella sua opera devastatrice.

Tenebrae

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Publio Aurelio e la finestra sul cortile (parte prima)
Roma, anno 800 ab Urbe condita (anno 47 dopo Cristo, primavera)

Chi, regnante Claudio, avesse risalito il Vicus Patricius fino a raggiungere la cima del Viminale, si sarebbe trovato davanti a una domus di ampiezza considerevole, quali poche ne sopravvivevano nell'Urbe, dove il prezzo dei terreni edificabili era salito alle stelle.
Nel raggio di un miglio tutti sapevano che si trattava della residenza degli Aurelii Stazii, patrizi di censo consolare il cui capostipite risaliva ai tempi di Anco Marzio, precedendo nell'antichità della stirpe persino la famiglia imperiale. In quella casa, avrebbero raccontato i vicini, vivevano servi lustri e pasciuti, ancelle riccamente abbigliate e dispensieri eccezionalmente prodighi; inoltre - questo il particolare più interessante - l'attuale proprietario era un eccentrico senatore, troppo distratto per accorgersi dei clandestini che quotidianamente si aggiungevano alla folla di clientes per ricevere la tradizionale sportula colma di cibo e vettovaglie.
Fu davanti a quella casa che in un giorno di primavera dell'ottocentesimo anno dalla fondazione di Roma si arrestò una lettiga ricca di adorni sontuosi e ne discese una dama vestita con un gusto poco consono al tradizionale riserbo delle matrone di vecchio stampo.
Né il sonnolento portiere Fabello né il vigile intendente Paride furono abbastanza lesti da fermare l'agitatissima signora mentre si fiondava come un torrente in piena nelle fauces, arrancando su calcei di altezza tale da uguagliare le torri d'assedio con cui si espugnavano le rocche nemiche. Nell'atrio l'inevitabile accadde: mentre il primo tacco vertiginoso mancava per un soffio la vasca marmorea dell'impluvium, il secondo la centrò in pieno, impregnandosi miseramente di acqua piovana.
La frettolosa ospite non interruppe la corsa. Quando, attraversato il peristilio, giunse infine davanti alla biblioteca, alle sue spalle galoppavano già decine di schiavi, nessuno dei uali in grado di precluderle il passaggio.
La porta cedette, spalancandosi come le stalle di Augia il giorno in cui Ercole aveva deviato il corso del fiume Alfeo per nettarle dalle deiezioni di migliaia di armenti.
Il senatore Publio Aurelio Stazio, per nulla risentito dell'irruzione, accolse la matrona tra gli scaffali zeppi di rotoli, occultando prontamente sotto una rara edizione di Epicuro il codicillus vergato in elegante grafia femminile che aveva appena ricevuto. Circa la sua relazione con la moglie di Lentulo - capo della fazione conservatrice del Senato e suo acerrimo avversario politico - Pomponia nutriva già dei sospetti, e fornigliene la prova su un piatto d'oro, perché la propalasse in tutti i salotti di Roma, sarebbe stato francamente eccessivo.
Ma la signora, stavolta, aveva altro a cui pensare.

Nemesis

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Pendici del Caucaso, anno 780 ab Urbe condita (anno 25 dopo Cristo)

Nel villaggio vivevano soltanto un centinaio tra donne, vecchi e bambini, perché chi era in grado di battersi, anche soltanto con un arco o una fionda, aveva raggiunto i ribelli sulla montagna.
E vennero i soldati.
Un bambino raccoglieva bacche nel bosco. Rimase a fissare attonito il baluginio delle corazze metalliche; e quando l'asta del pilum gli perforò il torace, si accasciò con un'espressione stupita negli occhi. Un istante dopo le porte del Tartaro si spalancarono, vomitando fuori tutti i loro demoni.
Una giovane afferrò uno spiedo e si gettò col coraggio della disperazione contro il più vicino degli aggressori, ferendolo appena: rincorsa nel bosco, inciampò e fu la sua fine. Una madre tentò di fuggire col primo nato in braccio; l'uomo di ferro la raggiunse, mentre il fagotto piangente rotolava a terra. Un cieco annaspò, le mani protese in avanti, prima di cadere addosso alla fanciulla che gli faceva da guida: un affondo fu sufficiente per entrambi. Una vecchia venne trapassata sulla soglia della sua capanna, mentre si protendeva verso alcuni inutili talismani appesi; una gestante ebbe il ventre squarciato, e la sua compagna, la più bella del villaggio, fu colpita al viso: non violentavano, uccidevano e basta.
Al centro della radura un manipolo di soldati circondò il giovane che si batteva come un leone: col padre e i fratelli in montagna, restava solo lui a difendere la sua gente. Morì da uomo qual era già a soli quindici anni, la spada arrugginita stretta nel pugno.
I superstiti furono finiti rapidamente, mentre le fiamme cominciavano a divorare cadaveri e capanne, paglia e occhi spenti, fronde e arti mozzati. Infine un altro corpo cadde, dritto nel rogo.
«Via dal fuoco, presto, per lui non c'è più nulla da fare!» urlò una voce autorevole.
«Maledizione, dov'è il centurione?» ribatté un soldato, dall'altra parte del villaggio.
«Orso, Balbo, Ilario, Elvezio, Apro, Antioco, Postumio, Rusonio, Betto, a me! Spicciatevi a finire il lavoro e andiamocene. Qui non c'è nulla che valga la pena rubare!» ordinò la voce.
Al di là del rigagnolo che scendeva dalla montagna, un uomo col cladio nella mano inerte fissava l'incendio, scosso da un tremito convulso. Attonito, sorpassò con un balzo i corpi sul fondo del foso. Le cinghie della sua caliga andarono a impiglarsi nella veste di una giovinetta, gli occhi chiusi come se dormisse, le gote ceree, i piccoli seni non ancora del tutto sbocciati. Se ne liberò con un calcio e corse via.
«Siamo pronti, tribuno!» disse il centurione, mentre uno dei soldati si sporgeva a raccogliere qualcosa tra la cenere. Poco dopo il drappello scomparve nel bosco: del villaggio non restavano che macerie fumanti.

Dura lex

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Roma, anno 800 ab Urbe condita (anno 47 dopo Cristo, primavera)
Primo giorno
Domus dei Gavilii Barbati sulla Velia

La bocca scivolò sazia dall'areola ricadendo sulla scura rotondità, lucida di umori densi. Un seno gonfio, color dell'ambra, magnifico e arrogante nel suo turgore: così doveva apparire la poppa divina di Giunone, quando una goccia del suo latte, dilatatasi a dismisura, aveva creato la grande Galassia che tagliava in due il cielo notturno con la sua caligine di stelle.
La donna che si era appena staccata il bimbo dal petto, però, non era una dea, bensì una robusta schiava di campagna dai capelli corti, rasati con cura perché non vi allignassero fastidiosi parassiti.
Pirippo sorrise: nemmeno un mese prima, un'insperata buona sorte l'aveva tolta agli ergastula della villa rurale per farne la nutrice dell'erede dei Gavilii Barbati, catapultandola nel lusso dei servi di città, azzimati e satolli alla pari dei loro padroni. Malgrado gli auspici di un fulgido avvenire, tuttavia, Pirippe stentava ad adeguarsi allo stile della fastosa domus, dove tutti si beffavano dei suoi modi ruspanti: le ancelle la irridevano ancora per il profondo inchino con cui, appena giunta in casa, aveva omaggiato la liberta Elettra scambiandola per la padrone e i domestici non le risparmiavano battute sboccate sull'ampiezza generosa del suo seno.
Roma era enorme, chiassosa e complicata, pensava dunque la balia, vagheggiando i semplici compagni della sua rustica prigionia, nonché le oche e le galline dell'aia, in mezzo alle quali era libera di muoversi senza paura di rompere qualcosa.
Il lavoro, per fortuna, era tanto leggero da farla impigrire; tutto ciò che doveva fare era nutrire il piccolo, mangiare a crepapelle e soprattutto lavarsi, lavarsi, lavarsi.
Ecco infatti Elettra che, deposto il bimbo nella culla, si voltava verso di lei col dito alzato: stavano per ricominciare le solite raccomandazioni, di nuovo vapore, sabbia, strigile, acqua calda e vigorose strofinature sul petto destinato a cibare l'ultimo dei gloriosi Gavilii Barbati.
«Corri alle terme, stanno per aprire!» le ingiunse infatti la liberta in un tono che non ammetteva replica, mentre chiudeva le cortine di bisso per favorire il sonno ristoratore del bambino ormai sazio.
Fortunatamente il piccolo Postumo aveva smesso di piangere, pensava Elettra sedendo fuori dalla porta. I padroni stavano uscendo ed era il caso di riposare un po', dopo una notte intera spesa a calmare le ansie della sua adorata, piccola kyria: Dalmatica era ancora esaurita dal parto, ma quell'arpia di sua cognata Gavilia aveva preteso che accompagnasse lei e il marito alla festa, per il buon nome della famiglia.
Come se fosse stata evocata, un attimo dopo la piccola domina comparve a salutare il bimbo, bella nella larga veste gialla che la faceva sembrare ancora più pallida e fragile.
Passando col telo da bagno sottobraccio, Pirippe udì Elettra che le diceva: «Divertiti, kyria, penso io al piccolo Postumo...» e poi, rivolta di nuovo a lei: «Spicciati, il bambino potrebbe svegliarsi e reclamare altro latte!».
La balia obbedì, allungando il passo. Mentre attraversava l'atrio, sobbalzò come sempre nell'udire l'orologio ad acqua segnalare l'ora. Non si sarebbe mai abiutata a quello strano congegno che fischiava come un uccello: dov'era nata lei, bastava il sole per misurare il tempo...

Nella stanza in penombra, il piccolo dormiva, ignaro della maniglia che stava per abbassarsi.
Un breve spasimo e tutto sarebbe finito.

Tabula rasa

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L'ombra si chinò verso il corpo che giaceva ai suoi piedi con un misto di pietà e di disgusto. Quando provò a sollevarne la massa inerte, sentì le forze venir meno. Non restava che trascinarlo nella fossa afferrandolo per i piedi, ma era necessario andare cauti per evitare di scomporlo.
Ecco, la testa ciondolava e si doveva appoggiarla sul fondo, come se giacesse su un guanciale. Ecco, le gambe si piegavano e bisognava raddrizzarle. Ecco, le braccia pendevano inerti e occorreva incrociarle. Ma prima c'era da fare la cosa più difficile, più difficile ancora che uccidere.
Le dita scesero sul busto, ad allargare la ferita che, tra le tante, era arrivata al cuore. Poi, stringendo il monile annasparono giù sotto lo sterno e risalirono verso il coagulo rosso che giaceva immobile, un muscolo come un altro, un brandello qualsiasi di una qualsiasi carogna. Infine, pollice e indice si ritrassero vuoti e appicicosi: ora sarebbe stato compito degli Dei offrire in un'altra vita ciò che non avevano concesso in questa.
La prima zolla di terra calò a coprire il viso, con gli occhi che non ne volevano sapere di restare chiusi. Quando il volto scolparve alla vista, tutto divenne semplice.
Pochi istanti più tardi, l'ombra si dileguava nella notte.

Pallida mors

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Colle Esquilino

L'uomo che scendeva dal colle Esquilino tra i nuovi edifici, sorti come funghi al posto degli antichi cimiteri, camminava con passo spedito in direzione del clivus Suburanus, cercando di non attirare troppo l'attenzione. La tunica marrone al ginocchio, i calcei di cuoio grezzo e l'assenza del mantello lo qualificavano, a una prima fuggevole occhiata, come un qualunque cittadino dell'Urbe, né povero né ricco, forse un contabile o un negoziante, forse l'intendente di un proprietario immobiliare incaricato di riscuotere l'affitto dai pigionanti delle insulae. Uno sguardo più attento, tuttavia, si sarebbe soffermato sul taglio perfetto dei capelli corti, privi anche del minimo cenno di quella frangia riccioluta di gran moda tra i damerini nonché sulle guance glabre, senza peluzzi residui o graffi provocati dalla lama do una novacula incerta. Infine, un occhio davvero perspicace avrebbe notato le mani - grandi e forti ma curatissime -, in particolare l'indice della mano destra, dove l'anello col sigillo senatoriale era stato girato verso il palmo per occultarne il valore e il significato.
Purtroppo, però, gli occhi perspicaci esistono davvero e si trovano nei luoghi più impensati.
«Ehi, ma quel tipo laggiù non assomiglia al senatore Stazio?» esclamò all'indirizzo del compagno uno dei clientes che si recavano ogni mattina sul Viminale per porgere la salutatio nella grande domus del patrizio.
«Solo e senza scorta?» dubitò l'altro, avvezzo com'era a vedere il patrono in toga di gala con tanto di laticlavio e circondato da centinaia di schiavi.
«Cerca di nascondere l'anello, ma sono sicuro che si tratta di lui. Sono giorni e giorni che non si fa trovare in casa e manda a riceverci quel manico di scopa del suo intendente Paride. Ma stavolta lo becchiamo. Vedrai che ci verrà fuori la dote per mia figlia!» rispose l'amico.
«E il mio vitalizio. E un posto di lavoro per mio nipote. E una buona raccomandazione per mio genero. E un bel po' di spiccioli» rilanciò il compare.
«Presto, raggiungiamolo, prima che ci scappi!» gongolarono entrambi lanciandosi all'inseguimento del senatore, che, avvistati da lontano gli importuni, stava rapidamente tornando sui suoi passi.

Saxa rubra

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Come ogni altra attività umana, l'omicidio è questione di abitudine.
All'inizio grava su chi lo compie un forte turbamento emotivo, ma alla lunga l'ansia cede all'eccitazione, finché l'atto di dare la morte non perde i connotati del dramma anomalo per scivolare nel gesto consueto. Si tratta dunque di agire in fretta, rigettando le soverchie angustie, prima fra tutte la domanda: «Che accadrebbe se mi scoprissero?»
Non fu tanto difficile, salvo nel breve attimo in cui la vittima tentava di portare le mani alla gola per opporsi all'inevitabile. Nessuno però diventa assassino senza parecchia determinazione: "Non esitare, uccidi!" si disse e la forza fluì possente nelle sue braccia, finché il respiro affannoso della vittima non divenne rantolo, per poi spegnersi del tutto.

Ludus in fabula

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Roma, anno 800 ab Urbe condita
(47 d.C.)

Stava albeggiando quando Pomponia, seguita da due ancelle fidate, si fece lasciare dalla lettiga ai portici di Ottavia. Era determinata ad arrivare prima che vi aprissero le numerose tabernae, che le miriadi di ragazzini delle scuole all'aperto sciamassero sotto il teatro di Marcello e che venissero spalancate le porte dei templi di Giunone Regina e di Giove Statore.
Un risveglio così precoce, per una matrona che amava indugiare tra le coltri ben oltre l'ora considerata decente nell'Urbe, doveva poggiare su una ragione sostanziosa. Tale era infatti quella che aveva indotto la brava signora a lasciare anzitempo il tepore del giaciglio, ingollare in fretta e furia uno ientaculum improvvisato a base di avanzi della cena precedente, indossare una veste purpurea ma piuttosto sobria - ovvero con un numero straordinariamente parco di Amorini e Ninfe ricamati sul bordo - e precipitarsi giù dal colle Quirinale come se avesse alle spalle Annibale con tutte le sue schiere puniche.
Adesso, se la sua brillante intuizione rispondeva al vero, non restava che recarsi presso la statua di Cornelia: l'indizio si sarebbe senza dubbio trovato ai suoi piedi. Poteva trattarsi di qualunque cosa: un minuscolo segno sul marmo, un oggetto trascurabile all'apparenza smarrito, un codicillus vergato con scritte misteriose che soltanto un acume straordinario avrebbe saputo decifrare. Era il momento più bello: quello della sorpresa, dell'appagamento, del trionfo.
La matrona raccolse quindi l'ampia veste per correre più veloce, congratulandosi tra sé per aver rinunciato alle solite calzature torreggianti in favore di un paio di sandali dalla suola piatta, che le consentivano di muoversi in tutta libertà.
Non si era sbagliata, gongolò mentre varcava il colonnato nello scorgere una incongrua macchia di colore tra l'omogenea fissità del bronzo: eccolo là, l'indizio, e lei sarebbe stata la prima a trovarlo!
Pomponia osservò per un attimo la celebre iscrizione votiva con la quale per la prima volta Roma aveva reso a una donna l'omaggio di un monumento pubblico: Cornelia Africani F. Gracchorum: "Cornelia, figlia dell'Africano, madre dei Gracchi".
Un attimo dopo la matrona girava dietro la statua, mentre tra le colonne due piccoli occhi vispi la spiavano con curiosità. Le ancelle la videro chinarsi verso qualcosa che giaceva a terra, e quindi scolorare, prima di accasciarsi esanime al suolo.

Bibliografia

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