Carla Maria Russo

scrittrice italiana

Carla Maria Russo (1950 – vivente), scrittrice italiana.

Incipit di alcune opere

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La sposa normanna

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Suor Maria Veronica si alzò dal giaciglio e aprì la piccola imposta della cella. L'alba tingeva di rosa un cielo limpido e terso che annunciava un'altra giornata tiepida, sebbene fosse novembre inoltrato. Sorrise, grata a Dio per averla fatta nascere a Palermo.
La balia, quando era bambina e viveva ancora nella reggia, le raccontava sempre che nella terra d'origine della sua famiglia – la Normandia – il freddo arrivava già ad agosto, durava a lungo ed era così intenso che l'acqua gelava nei fiumi e i bambini morivano a migliaia. Ma lei non si sentiva una normanna, sebbene tutto, nell'aspetto fisico, ne tradisse la discendenza.
Aspirò profondamente l'aria, satura della fragranza di aranci e di limoni, e dell'odore del mare. Poi finì di prepararsi, per raggiungere puntuale le consorelle.
Un leggero picchiettio alla porta la sorprese: chi poteva cercarla a quell'ora? Era forse in ritardo? Aprì e si trovò davanti il viso rubizzo di suor Anna, la madre custode.

Il cavaliere del giglio

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Manente degli Uberti, che tutti chiamavano con il soprannome di Farinata, era molto contento quella domenica, la terza di gennaio del 1216. Aveva appena ottenuto dal nonno Schiatta il permesso di partecipare al banchetto offerto dalla nobile famiglia dei Mazzinghi, per celebrare l'elevazione a cavaliere del figlio Mazzingo Tegrimi.
Farinata - dodici anni, terzo maschio di Jacopo e Giulia degli Uberti - secondo la madre era ancora troppo giovane per partecipare a una festa destinata a durare fino a tardi. Ma lui aveva tanto insistito presso il nonno da strappargli il consenso: sapeva che nessuno aveva osato opporsi a una decisione del capo assoluto, indiscusso e molto rispettato di tutta la casa degli Uberti.
«Grande!» aveva esultato Ranieri Piccolino, detto Neri, informato della vittoria.
Farinata rappresentava ai suoi occhi, più che il fratello minore di un anno, l'amico e il compagno di giochi preferito, l'unico capace di trasformare qualsiasi attività, persino quella all'apparenza più noiosa, come lo studio, in una avvincente avventura. Erano inseparabili fin da piccolissimi, sempre complici e solidali fra loro, per la disperazione degli adulti, soprattutto la madre.

L'amante del doge

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Lavezzari bussò alla stanza da letto di Sua eccellenza e attese di essere ammesso.
Andrea Tron era già vestito di tutto punto, in giacca di seta scura che metteva in risalto il fisico molto alto e dalle perfette proporzioni, tanto apprezzato dalle signore. Lo jabot della camicia di lino finissimo, immacolato e spumeggiante di intarsi, aggiungeva all'aspetto un tocco ulteriore di raffinatezza.
«Siete fortunato, questa mattina, Lavezzari. La casa avita mi concilia il sonno. Solo qui riesco a dormire fino a così tardi.»
Lavezzari inarcò il sopracciglio, estraendo dalla tasca del panciotto un orologio. Le otto: la gran parte dei nobili veneziani dormiva ancora nella grossa, tra morbide coltri e guanciali di piume. Per le abitudini del signor ambasciatore, invece, era un'ora inusuale. Tron preferiva alzarsi di buon mattino: così si esprimeva lui. A notte fonda, recriminava il segretario con qualche esagerazione, costretto com'era a informarsi ai ritmi imposti dal padrone.

Lola nascerà a diciotto anni

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Sono disteso in una lussuosa bara di mogano marrone scuro, con anelli di lucido ottone sui quattro lati.
Corone di fiori a profusione impestano l'aria dell'odore dolciastro e corrotto tipico dei funerali. Persino il Duce, dalla roccaforte di Salò, non ha fatto mancare la propria: gerbere e rose.
Indosso l'alta uniforme, con le mostrine e le medaglie, a indicare il mio grado di generale e i meriti acquisiti nello svolgimento della mia funzione.
Il capo è scoperto, i capelli sono pettinati con somma cura e ben incollati l'uno all'altro con un velo di brillantina. Ai miei piedi, il cappello.
La camicia della divisa, per quanto il particolare sfugga all'occhio dell'osservatore, è abbottonata in modo da coprire rigorosamente il collo e fermata con una spilla da balia nascosta sul retro, così che la testa sembra attaccata direttamente al resto del corpo, conferendo alle mie spoglie mortali un aspetto tozzo e poco aggraziato.
Vi è una ragione precisa di tutto ciò, come pure dello strato di cerone con cui mi è stato ricoperto il volto e del velo nero, alquanto spesso, steso sopra la bara a ricoprirla per intero, ricadendo poi morbido e fluttuante fino sul pavimento: non un gesto di delicatezza della vedova inconsolabile, per preservare le spoglie dell'amato dalla contaminazione di quanti sono giunti a porgerne l'estremo omaggio.
E neppure un segno di rispetto verso il mio cadavere, la cui decomposizione, ormai iniziata, non deve essere mostrata al pubblico per non compromettere l'immagine di forza e virilità che offrivo in vita.
Questa messinscena serve a coprire qualche livido che il mio maldestro assassino ha lasciato su di me nella concitazione del momento, a confondere le idee sulla mia morte: un omicidio e non, come si affanna a recitare mia moglie, un infarto improvviso.
È evidente che ha trovato complicità in alto loco, per seppellirmi in tutta fretta, insabbiando ogni possibile sospetto.
O, meglio ancora, se le è procurate la mia infaticabile suocera, maestra d'intrighi e raggiri.

La regina irriverente

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Filippa osservò la sua immagine nello specchio.
Il risultato le piacque e calmò un poco il tremito che l'agitava: alta, di una bellezza forte come il suo carattere, indisponibile al ruolo di moglie docile e obbediente che tanto sarebbe piaciuto al marito Guglielmo, conte del Poitou e duca d'Aquitania, il feudatario più ricco e potente della Francia, i cui domini superavano di molte volte quelli dello stesso sovrano.
Si erano sposati più di cinque anni addietro, nel 1094, quando lei aveva diciannove anni e lui ventitré, entrambi reduci da un precedente matrimonio: l'una vedova del re Sancho Ramirez, l'altro unito alla bellissima e sensuale Ermengarda d'Angiò. «Il duca aveva concepito per Ermengarda una passione folle. È stato un vero matrimonio d'amore» si era premurata di informarla con un sorrisetto beffardo la pettegola di corte, madame di Coutances, insinuando con sottile perfidia che il nuovo connubio fosse motivato da un preciso interesse: Guglielmo intendeva mettere le mani sulla ricca provincia di Tolosa, che Filippa avrebbe ereditato dal padre, in assenza di figli maschi. Quella maldicenza, sussurrata da tutti i cortigiani, la faceva soffrire sebbene lei, per orgoglio, non lasciasse trasparire alcuna emozione.
«Non di meno,» aveva replicato «il conte l'ha ripudiata ed è venuto a corteggiare me, vedova, in casa di mio padre. E con grande insistenza.»
«Purtroppo, mia signora,» aveva sospirato l'interlocutrice «ai potenti che reggono il destino dei popoli quasi mai è consentito di anteporre le ragioni del cuore a quelle dello stato e del bene collettivo.»

La bastarda degli Sforza

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Il prigioniero era accasciato a terra, la schiena contro la pietra grezza della parete, la testa fra le mani. Era un uomo di mezz'età, i cui abiti, nonostante i dieci giorni di dura prigionia e torture, ancora conservavano tracce di eleganza e benessere. Si chiamava Antonio Vismara, maestro armoraro e primo console della Università degli Armorari, la corporazione di artigiani più potente, ricca e rispettata della città.
Gli occhi chiusi, il respiro affannoso, ripercorreva nella sua mente i tratti della sua bellissima moglie bambina, quindici anni compiuti da poco. Con le mani ne accarezzava la pelle di seta, posava ile labbra su quelle di lei, profumate di fragola e spezie.
Era giunto così tardi l'amore, nella sua vita. Quando lui aveva ormai superato i quarant'anni.

I giorni dell'amore e della guerra

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Caterina Sforza volse lo sguardo intorno, quasi ad accettarsi che il luogo in cui si trovava fosse davvero la roccaforte di Ravaldino.
Ancora non riusciva a capacitarsi di essere riuscita a ingannare con uno stratagemma i suoi nemici, sfuggendo alla loro prigionia e riuscendo a penetrare nell'imprendibile bastione posto a guardia di Forlì, il cui possesso era cruciale per chiunque si ripromettesse di comandare la città. Solo pochi minuti prima, giaceva prostrata e indifesa nelle mani dei fratelli Checco e Ludovico Orsi e di Giacomo Ronchi, i congiurati che avevano assassinato in modo brutale suo marito Girolamo Riario, legittimo signore di Forlì, e catturato lei, sua madre Lucrezia, sua sorella Bianca e i suoi sei figli, rinchiudendoli tutti insieme in una gelida, minuscola stanzetta senza un letto né coperte nemmeno per il più piccolo di loro, di soli otto mesi, e senza cibo né acqua fino a quando Caterina non avesse firmato la resa incondizionata e la rinuncia alla signoria di Forlì.
Il momentaneo successo che aveva riportato sui suoi nemici, riuscendo a fuggire e a rifugiarsi nella rocca di Ravaldino, non significava né la salvezza né la vittoria finale, dal momento che i figli, la madre e la sorella restavano tutti nelle mani dei congiurati. Caterina però, per infondersi coraggio e mantenere intatta la sua determinazione a non arrendersi, decise che si sarebbe concentrata solo sugli aspetti positivi della sua attuale situazione, rammentando a se stessa che, sebbene il popolo le avesse voltato le spalle alleandosi con i congiurati e devastando il palazzo dei Riario, non tutti i forlivesi l'avevano tradita, anzi, l'audace e rischiosissimo progetto di ingannare i suoi aguzzini e barricarsi nella rocca era riuscito proprio grazie all'amicizia e alla fedeltà di Andrea Bernardi, il barbiere di Forlì, suo fedelissimo da sempre, e Tommaso Feo, il castellano della rocca di Ravaldino, che le aveva mostrato lealtà assoluta. A onor del vero, l'esito fortunato dell'impresa era da imputare in parte anche all'ingenuità del nuovo padrone della città, il governatore papale Giovanni Battista Savelli, cui il papa aveva affidato il comando delle operazioni in attesa della resa di Caterina e della nomina del nuovo signore di Forlì, il quale era caduto da vero sprovveduto nella trappola che Caterina aveva escogitato con Tommaso Feo e Andrea Bernardi.
Ora i suoi nemici - i due fratelli Orsi, Giacomo Ronchi e il governatore papale Savelli - si trovavano tutti lì, ai piedi della rocca, il naso all'insù, e la fissavano attoniti, incapaci di comprendere quale progetto passasse per la mente di quella donna.

Le nemiche

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Illustrissima sorella,
ho necessità estrema del vostro aiuto.
Nostro padre Ercole ha stabilito che io prenda moglie per la seconda volta.
Non nutro dubbi che il progetto vi trovi del tutto consenziente.
Ma, prima di approvare senza riserve, concedetemi il tempo di rivelarvi il nome della possibile candidata, qualora i miei sospetti si rivelassero fondati.
La signoria vostra è ben consapevole della smodata, insaziabile avidità di danaro che acceca nostro padre da sempre. Ebbene, in questa circostanza si è spinto al punto che, invece di respingere sdegnato l'orrendo mercimonio che io temo gli sta stato prospettato, invece di replicare sdegnato che casa d'Este neppure per tutto l'oro del mondo accetterebbe di affidare i suoi discendenti al ventre di una puttana...
Scusate, Isabella. Mi lascio trasportare dall'ira, e vi manco di rispetto. Sono un tipo schietto, lo sapete bene, un rozzo che non riesce proprio a occultare dietro una patina di sdolcinata ipocrisia il suo temperamento impetuoso. Lascio a nostro fratello Ippolito le dissimulazioni affettate, le sottigliezze verbali e le raffinatezze intellettuali che si apprendono sui libri. Allo studio, che tanto attrae voi e Ippolito, io preferisco il lavoro manuale e, quando perdo le staffe, quando mi sento insultato, umiliato e indignato, cedo alla mia natura impulsiva e focosa. Come osa, nostro padre, insozzare l'onore del casato pensando di scegliere come madre dei miei figli una persona come... come... Lucrezia Borgia?
Avete letto bene. Lei.
Lucrezia Borgia.
Un brutto colpo anche per voi, vero?

L'acquaiola

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Maria abita al Travucco, la parte alta del paese, destinata ai poveri, dove non ci sono strade selciate, come nella parte bassa, riservata ai galantuomini, ma solo scalini pavimentati di lisce, le pietre comuni di cui la zona abbonda.
Ha quindici anni ed è l'ultima di quattro sorelle, nata quando i genitori erano già vecchi e ormai non aspettavano più figli. Vive nella casa di famiglia, formata da una stanza con un camino e un fondaco sottostante, cui si accede tramite tre scalini esterni, dove trovano ricovero l'asino e le galline.
Alla sera va a letto molto presto, dopo una dura giornata di lavoro.
Le piacerebbe fermarsi un poco davanti al fuoco, lasciare che lo sguardo si perda nelle fiamme guizzanti, che il tepore pervada il corpo e scacci il freddo della faticosa giornata. Ma la stanchezza la vince, le palpebre si fanno pesanti. La fantasia non trova la forza di sbrigliarsi e correre lontano, di interrogarsi sul suo destino, se la vita ha ancora in serbo un dono per lei.
Non osa immaginare, Maria.
Non sa pensare al futuro come a un'entità autonoma, diversa dal presente, a uno spazio vuoto che può essere riempito di sogni, speranze e desideri. Per lei il tempo più lontano è l'alba del giorno successivo, le speranze e i desideri spaziano nell'ambito angusto della sopravvivenza: che l'asino, ormai vecchio resti in buona salute, che il freddo domani non sia così intenso da spaccare le mani, che riesca a trovare un lavoro da sbrigare, uno qualunque, non importa quanto faticoso, per poter sfamare se stessa e il padre malato.

Una storia privata. La saga dei Morando

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Pietro Morando amava, di tanto in tanto, tornare nel piccolo monolocale a piano terra di porta Ticinese nel quale era nato, lungo l'Alzaia Naviglio Grande, a ridosso del vicolo Lavandai, sebbene, a partire dagli anni Ottanta, tutti quei bassi fossero stati venduti a caro prezzo e trasformati in locali tipici, oppure in mostre d'arte permanente di orribili croste dagli improbabili colori.
Una volta aveva condotto con sé anche i suoi figli.

I venturieri

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La ragazza si chiamava Imelda e, in teoria, Muzio non avrebbe dovuto nemmeno sfiorarla con uno sguardo, in primo luogo perché era già promessa sposa, e non certo a lui, e poi perché di cognome faceva Pasolini, la famiglia nemica capitale degli Attendolo, cui Muzio apparteneva.
Se il padre della ragazza, Astorre Pasolini, avesse scoperto la tresca tra lui e la figlia, o se lo avessero scoperto i violenti e tracotanti fratelli di Imelda, lo avrebbero fatto a pezzi e dato in pasto ai cani, o ai maiali, così di lui non si sarebbe trovato neppure l'osso del dito mignolo.
Muzio era consapevole dei rischi che correva quando inseguiva la ragazza come un segugio la preda, ma non riusciva mai a disciplinare l'istinto, sottomettendolo alla ragione.
Quelle forme generose, quelle carni sode, bianche, esaltanti un sentore irresistibile, lo mandavano in un'estasi tale che, per quanto dopo rimpiangesse di essere caduto ancora in tentazione e giurasse che «mai più, mai più» avrebbe messo a repentaglio se stesso e la sua famiglia, non mancava di ricaderci ogni volta che la intravvedeva per i boschi. E ci passava spesso per i boschi, Imelda, chissà com'è che ci passava così spesso, quel diavolo tentatore.
Hanno ragione i preti, è tutta colpa delle donne se gli uomini cadono nel peccato, ecco perché Muzio non confessava mai le sue colpe a don Liborio, intanto perché non commetteva alcun vero peccato, la responsabilità era di Imelda e del diavolo che si portava dentro, e poi vai a fidarti del segreto del confessionale di don Liborio; suo padre l'avrebbe squartato, se avesse anche solo sospettato.
Insomma, Giacomo Attendolo, detto Muzio, era fermamente persuaso che Imelda, innamorata persa di lui, usasse di proposito il viottolo di campagna che confinava con le terre degli Attendolo, per essere adocchiata e indurlo in tentazione. Alla quale lui, purtroppo, non resisteva.

Cuore di donna

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New York
25 aprile 1895

Maria Inez riemerge a fatica dall'abisso in cui è sprofondata.
Socchiude appena le palpebre, cerca di trovare un filo di saliva nella bocca riarsa.
Si guarda intorno ma quello che vede ondeggia davanti ai suoi occhi, i margini incerti e confusi.
Non riesce a figurarsi quanto tempo sia trascorso.
Un minuto? Un'ora? Alcune ore?
La memoria di ciò che è accaduto riaffiora attraverso immagini repentine, come lampi che squarciano il buio, il dolore torna a morderle le carni.
Si sente lacerata, sporca. Alcune macchie di sangue imbrattano qua e là la camicia che indossa, disegnando forme scomposte.
Un brivido di ribrezzo le agita il corpo, sempre più intenso, via via che i contorni di quanto ha subìto riaffiorano alla mente con maggiore nitidezza: la sofferenza, l'umiliazione, l'abbrutimento.
È legata alla gamba in ferro del letto ma i nodi non sono particolarmente stretti e lei, a poco a poco, riesce a liberarsi. Il suo aguzzino l'ha costretta a quella posizione soprattutto per infliggerle un ulteriore oltraggio, tanto sa bene che non ha modo di fuggire, non esiste alcun luogo in cui possa rifugiarsi, e, se esistesse, non potrebbe utilizzarlo, ora che lui la tiene in pugno anche con il più doloroso ricatto che potesse imporle.
Tenta di sollevarsi dal pavimento, stringe i denti ma, prima ancora di mettersi in piedi, le pareti della stanza si avvitano in una spirale che pare inghiottirla e trascinarla di nuovo nell'abisso.
Arranca, nello spazio angusto della stanza, poco più che un bugigattolo. Raggiunge la finestra, la apre, si guarda intorno, alla ricerca disperata di.. non sa neppure lei cosa, forse un modo per liberarsi per sempre da tutto quel dolore, dal terrore in cui vive da anni, dalla disperazione.
E, proprio in quel momento, gli sembra di vederlo...
Sì, è lui, seduto al tavolino di una locanda, dall'altra parte della strada.
Batte le ciglia per mettere meglio a fuoco l'immagine, nel dubbio che la sua mente confusa la stia ingannando.
No, non sbaglia.
È lui...
Un furore cieco, assoluto, incontrollabile la invade, un fuoco interno che sembra restituirle un poco di energia.
Raggiunge la porta. Si trascina già per le poche scale. Apre il portone.

Bibliografia

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