Barbara Mertz
Barbara Mertz, nata Barbara Louise Gross (29 settembre 1927— 8 agosto 2013), scrittrice ed egittologa statunitense. Ha usato anche gli pseudonimi Elizabeth Peters e Barbara Michaels.
Amelia Peabody
modificaQuando incontrai Evelyn Barton-Forbes lei era sulla strada, a Roma.
Per onestà verso me stessa, tuttavia, devo insistere nel dire che Evelyn era proprio lì, sulla strada, ma senza alcuna malizia nascosta. In realtà, la povera ragazza non aveva né l'intenzione né i mezzi per attuare propositi ambigui. Il nostro incontro è stato casuale, ma propizio. Io avevo, come sempre, abbastanza malizia per due.
Quella mattina avevo lasciato l'albergo con un forte nervosismo addosso. I miei piani erano andati a monte, e io non sono affatto abituata al fallimento. Percependo la mia irritazione, la piccola guida italiana mi seguiva in silenzio. Quando avevo incontrato Piero per la prima volta, nella hall dell'albergo, non era certo taciturno: aspettava insieme ad altri l'arrivo di turisti stranieri spaesati, bisognosi di un interprete e di una guida. Avevo scelto lui in quella folla perché il suo aspetto mi sembrava un po' meno furfantesco di quello degli altri.
Sapevo quanto quei personaggi fossero inclini alla prepotenza e all'inganno e di come approfittassero dei clienti, perciò non avevo alcuna intenzione di diventare anch'io una delle loro vittime. Non c'era voluto molto per farlo capire a Piero. Per prima cosa, aveva contrattato in modo risoluto con il commerciante da cui mi aveva accompagnato a comprare la seta. Il prezzo finale era talmente basso che la commissione di Piero si era ridotta a una cifra insignificante. Nel manifestare al compatriota tutta la sua delusione con un'invettiva nella propria lingua madre, la guida aveva espresso una serie di commenti sul mio aspetto e sul mio atteggiamento. Parlo italiano e lo capisco piuttosto bene. Da quel momento, Piero e io abbiamo cominciato ad andare perfettamente d'accordo. Non l'avevo ingaggiato come interprete, ma perché avevo bisogno di qualcuno che mi portasse i pacchi e mi facesse le commissioni.
Gli avvenimenti che mi accingo a raccontare iniziarono in un pomeriggio di dicembre, quando invitai per il tè Lady Harold Carrington e alcune sue amiche.
Il gentile lettore non si faccia sviare da questa mia affermazione introduttiva. È esatta (come tutte le mie affermazioni), ma se si aspetta che il seguente racconto parli di tranquilla vita domestica, animata solo dai pettegolezzi sulla gente perbene della contea, si sbaglia di molto. La pace bucolica non è il mio pane, e invitare persone per il tè non è certo il mio passatempo preferito. Preferisco essere inseguita per il deserto da una banda di selvaggi dervisci che brandiscono lance e chiedono a gran voce il mio sangue; essere cacciata su un albero da un cane rabbioso, o affrontare una mummia sorta dalla sua tomba; oppure essere minacciata da pugnali, pistole e serpenti velenosi, o dalla maledizione di un re morto da tempo.
Per non essere accusata di esagerare, vorrei far notare che ho vissuto tutte quelle esperienze, tranne una. In ogni caso, Emerson una volta ha osservato che se davvero avessi incontrato una banda di dervisci, cinque minuti delle mie punzecchiature avrebbero senza dubbio indotto anche il più mite di loro a massacrarmi.
Emerson considera questo genere di osservazioni spiritose. Cinque anni di matrimonio mi hanno insegnato che anche se una donna non è divertita dalla presunta arguzia del suo sposo, non deve dirlo. Certe concessioni al carattere sono necessarie alla vita coniugale. E devo ammettere che per molti aspetti questa vita mi sta bene. Emerson è una persona notevole, se si considera che è un uomo. Il che non vuol dire molto.
Lo stato coniugale ha comunque i suoi svantaggi, e un accumulo di essi, insieme ad alcuni altri fattori, si aggiunse all'inquietudine che provavo per quel pomeriggio. Il tempo era orribile, cupo e piovigginoso, con saltuarie spruzzate di nevischio. Non ero riuscita a uscire per la mia abituale passeggiata di cinque miglia; i cani invece sì, ed erano tornati ricoperti di fango, che avevano immediatamente trasportato sul tappeto del salotto; e Ramses...
Ma tornerò su Ramses al momento opportuno.
Non ho mai pensato di sposarmi. Secondo me, una donna nata nella seconda metà del XIX secolo dell'era cristiana subisce svantaggi sufficienti senza che debba accettarne volontariamente un altro. Questo non significa che occasionalmente non indugiassi in fantasticherie su incontri romantici, perché ero sensibile come qualsiasi altra donna agli aspetti palesemente attraenti dell'altro sesso. Non mi aspettavo, tuttavia, di incontrare un uomo che mi fosse affine, e non desideravo dominare un marito più di quanto desiderassi esserne dominata. Ai miei occhi il matrimonio dovrebbe consistere in uno stallo equilibrato fra avversari uguali.
Mi ero rassegnata a un'esistenza da zitella quando, in età piuttosto avanzata, conobbi Radcliffe Emerson. Il nostro primo incontro non fu romantico. Non dimenticherò mai quando ci trovammo faccia a faccia in quella tetra saletta del museo di Bulaq... la sua barba nera e arruffata, i fiammeggianti occhi blu, i pugni serrati, la profonda voce baritonale che mi investiva di improperi perché avevo osato togliere la polvere da alcuni reperti. Tuttavia, anche se risposi a tono alle sue critiche, in cuor mio sapevo che le nostre vite si sarebbero intrecciate.
Avevo diverse ragioni logiche e sensate per accettare la proposta di matrimonio di Emerson. Lui era un egittologo, e la mia prima visita al regno dei faraoni aveva impiantato in me, per quella terra antica, semi di affezione che sarebbero presto germogliati in fiori lussureggianti. L'intelligenza acuta, la lingua pungente - che gli aveva guadagnato il titolo di «Padre delle imprecazioni» da parte dei suoi devoti operai egiziani - lo rendevano un avversario degno del mio carattere polemico. E tuttavia, caro Lettore, non fu questa la ragione principale per cui cedetti al suo corteggiamento. Deploro i cliché, ma in questo caso devo farvi ricorso. Emerson mi travolse. Sono decisa a essere assolutamente sincera mentre scrivo queste pagine, poiché mi sono accertata che non verranno pubblicate, almeno finché sarò in vita: sono nate come un diario personale, sfogliate solo da un Critico i cui stretti rapporti con me gli davano accesso ai miei pensieri più intimi... o quanto meno così affermava. A mano a mano che le sue osservazioni sullo stile e il contenuto si facevano più critiche, tuttavia, decisi di negargli quel diritto e di chiudere a chiave i miei diari. Queste pagine appartengono, di conseguenza, soltanto a me e, a meno che i miei eredi decidano che gli eruditi non debbano essere privati delle intuizioni qui contenute (ammesso che ce ne siano), solo i miei occhi leggeranno queste parole.
«Mia cara Peabody», disse Emerson, «ti prego di correggermi se sbaglio, ma avverto un calo nell'instancabile fervore vitale che di solito ti caratterizza, soprattutto in circostanze come questa. Dal fausto giorno che ci ha visto uniti, neppure una nuvola ha oscurato l'astro radioso della felicità coniugale, e questa eccezionale circostanza deriva, ne sono certo, dall'intesa perfetta che contraddistingue il nostro connubio. Confida, ti imploro, in quest'uomo fortunato che ha il compito di sostenerti e proteggerti e la cui più grande felicità consiste nel condividere la tua».
Ero certo che Emerson si fosse preparato in anticipo il suo discorso. Nessuno parla in tal modo nel corso di una normale conversazione.
Sapevo, tuttavia, che l'ampollosità di quelle parole non riusciva a esprimere appieno la sincera devozione che le ispirava. Il mio caro Emerson e io siamo una sola mente e un solo cuore dal giorno in cui ci conoscemmo, al Museo egizio di Bulaq. (Di fatto, quel primo incontro fu alquanto tempestoso. All'epoca io ero una semplice turista in visita nella terra dei faraoni, eppure, appena messo piede in quel favoloso paese, il sacro fuoco dell'egittologia già divampava nel mio seno, fuoco che presto si sarebbe trasformato in un vero e proprio incendio. Quel giorno al museo, mentre mi difendevo con energia dalle ingiustificate critiche di un affascinante sconosciuto, certo non sospettavo che presto ci saremmo incontrati di nuovo, in circostanze ben più romantiche, presso una tomba abbandonata di El Amarna. Il contesto, quanto meno, era romantico; Emerson; devo ammetterlo, non lo fu. Tttavia un istinto finissimo mi avvertì che, sotto sotto, nonostante le caustiche osservazioni e la fronte aggrottata, il suo cuore bateva solo per me e, come gli eventi successivi hanno dimostrato, la mia deduzione era esatta.)
Per molti aspetti mi reputo la più fortunata delle donne. Certo, un cinico potrebbe commentare che questo non erano segno di grande distinzione nel XIX secolo dell'era cristiana, quando alle donne erano negati quasi tutti gli inalienabili diritti di cui godevano gli uomini. Questo periodo storico è conosciuto come vittoriano dal nome della sovrana regnante; e benché nessuno rispetti la Corona più di Amelia Peabody, l'onestà mi costringe a rimarcare che le incolte osservazioni di sua Maestà in merito al sesso che lei stessa illeggiadriva non facevano nulla per aumentare la scarsa stima in cui era tenuto.
Sto divagando, ma non posso impedirmelo, perché i torti subiti dalle mie sorelle oppresse non mancano mai di risvegliare la fiamma dell'indignazione nel mio cuore. Quanto siamo lontane, perfino adesso, dall'emancipazione che meritiamo? Quando, oh quando, giustizia e ragione prevarranno, e la Donna scenderà dal piedistallo su cui l'Uomo l'ha collocata (per impedirle di fare alcunché, a parte restare perfettamente immobile) e prenderà il posto che le compete al suo fianco?
Solo il Cielo lo sa. Ma come stavo dicendo, o ero sul punto di dire, io ero stata così sfrontata da scavalcare (o abbattere, direbbero alcuni) le barriere sociali e culturali erette dai gelosi esponenti dell'altro sesso contro il progresso femminile. Poiché avevo ereditato da mio padre sia l'autonomia finanziaria sia una solida educazione classica, mi accinsi a vedere il mondo.
Il mondo, poi, non l'ho mai visto; i miei passi si sono fermati in Egitto, perché nell'antica terra dei faraoni ho incontrato il mio destino. Da allora esercito la professione di archeologa, e sebbene la modestia non mi permetta di pretendere più di quanto mi spetti, posso dire che il mio contributo a questa professione non è stato irrilevante.
Credo di poter affermare in tutta sincerità di non essermi mai lasciata intimorire dal pericolo e dal duro lavoro. Dei due preferisco di gran lunga il primo. In quanto unica figlia nubile di un padre vedovo e assolutamente distratto, ero responsabile dell'andamento della casa... che, come ogni donna sa, è la più difficile, meno apprezzata e peggio pagata (ossia, non pagata affatto) delle occupazioni. Grazie alla summenzionata distrazione del genitore, riuscivo a sfuggire alla noia dedicandomi a studi ben poco femminili quali la storia e le lingue, perché papà non si preoccupava mai di quello che facevo, a condizione che i pasti venissero serviti puntualmente, i suoi abiti fossero lavati e stirati, e nessuno lo disturbasse per qualsivoglia ragione.
Quanto meno, pensavo di non annoiarmi. La verità è che non avevo termini di paragone, e nassuna speranza di un'esistenza migliore. In quegli ultimi anni del diciannovesimo secolo, il matrimonio non era un'alternativa che mi attirasse; avrebbe significato scambiare una confortevole servitù con una schiavitù assoluta... o almeno così credevo (e sono ancora di questa opinione per quanto concerne la maggioranza delle donne). Il mio caso doveva essere l'eccezione che conferma la regola, ma se solo avessi saputo quali inimmaginate e inimmaginabili delizie mi attendevano, i vincoli che mi infastidivano si sarebbero fatti intollerabili. Quei vincoli, che si ruppero soltanto alla morte del mio povero padre, mi lasciarono in possesso di una modesta fortuna, cosicché mi misi in viaggio per vedere con i miei occhi i siti che conoscevo solo grazie ai libri e alle fotografie. Nell'antica terra d'Egitto scoprii finalmente ciò che fino a quel momento mi era mancato: avventura, eccitazione, pericolo, un lavoro che metteva alla prova tutte le mie considerevoli capacità intellettuali, e la compagnia dell'uomo straordinario che era destinato a me così come io ero destinata a lui. Che folli inseguimenti! Quali lotte per fuggire! Che estasi selvaggia!
Stavo conficcando nel cappello un secondo spillone quando la porta della biblioteca si aprì ed Emerson mise fuori la testa.
«C'è una questione su cui vorrei consultarti, Peabody, esordì».
Stava ovviamente lavorando al suo libro, perché aveva i folti capelli neri arruffati, la camicia aperta sul collo e le maniche rimboccate sopra i gomiti. Emerson sostiene che i suoi processi mentali sono ostacolati da strumenti costrittivi quali colletti, polsini e cravatte. Può essere. Io di certo non avevo obiezioni, perché quel particolare stato di deshabillé mette in risalto la muscolatura e la pelle abbronzata di mio marito. In quell'occasione, tuttavia, fui costretta a soffocare l'emozione che la vista di Emerson non mancava mai di suscitare in me, a causa della presenza di Gargery, il nostro maggiordomo.
«Ti prego di non trattenermi, mio caro Emerson», risposi. «Sto andando a incatenarmi alla recinzione del numero dieci di Downing Street e sono già in ritardo».
«Incatenarti», ripeté Emerson. «Posso sapere perché?»
«È stata un'idea mia», risposi con modestia. «Nel corso di precedenti dimostrazioni, le signore suffragette sono state sollevate di peso e portate via da grossi poliziotti, che in questo modo hanno messo fine alla manifestazione stessa. Ma non sarà facile fare altrettanto se le signore saranno saldamente legate a un oggetto inamovibile qual è una cancellata di ferro».
Il fulmine di Sethos
modificaIl vento scaraventava contro i finestrini della carrozza fiocchi di neve che vi aderivano formando tende di ghiaccio. Il respiro del ragazzo formava pallide nuvolette nell'oscurità dell'abitacolo. Non gli avevano fornito né scaldapiedi né coperte, e il soprabito logoro e troppo stretto non lo proteggeva dal freddo. Lui provava pena per i cavalli, che arrancavano con fatica in mezzo alla tormenta. Avrebbe commiserato anche il cocchiere, appollaiato in cassetta, se non fosse stato un bastardo sarcastico. Era come tutti gli altri servi, duri di cuore ed egoisti, come la loro padrone. La notte non era più gelida dell'accoglienza che il ragazzo prevedeva. Se solo suo padre non fosse morto... Molte cose erano mutate in quegli ultimi sei mesi.
La carrozza si fermò con un sobbalzo. Il ragazzo aprì il finestrino e guardò fuori. Attraverso il turbinio della neve, intravide le finestre illuminate del casotto. Il vecchio Jenkins non aveva fretta di aprire i cancelli, ma non avrebbe neppure tardato troppo, perché lei lo avrebbe saputo. Finalmente la porta del casotto si aprì e ne uscì un uomo. Non era Jenkins. Lei doveva averlo licenziato, come spesso aveva minacciato di fare. Ci fu uno scambio d'insulti tra il custode e il cocchiere, mentre il primo lottava contro la neve che si era accumulata contro il cancello. Il cocchiere fece sibilare la frustra e i cavalli, ormai esausti, ripresero a muoversi.
Note
modifica- ↑ Riedito col titolo La sfida della mummia
- ↑ Riedito col titolo Il faraone assassino
- ↑ Riedito col titolo Il caso del sarcofago scomparso
- ↑ Riedito col titolo L'enigma della piramide nera
- ↑ Riedito col titolo Indagine nel museo egizio
- ↑ Riedito col titolo Il mistero della città perduta
- ↑ Riedito col titolo La maledizione di Nefertiti
- ↑ Riedito col titolo Il segreto della tomba d'oro
- ↑ Riedito col titolo Pericolo nella valle dei re
- ↑ Riedito col titolo Il papiro insanguinato
- ↑ Riedito col titolo Il flagello di Horus
Bibliografia
modifica- Elizabeth Peters, Amelia Peabody e la mummia, traduzione di Beatrice Verri, Mondadori, 2000. ISBN 9771120508004
- Elizabeth Peters, Amelia Peabody e il serpente sacro, traduzione di Dario Leccacorvi, Mondadori, 2000.
- Elizabeth Peters, Amelia Peabody e il mistero del sarcofago, Mondadori, 2001.
- Elizabeth Peters, Amelia Peabody e il maestro del crimine, Mondadori, 2002.
- Elizabeth Peters, Amelia Peabody e i delitti del museo egizio, Mondadori, 2002.
- Elizabeth Peters, Amelia Peabody e il ritorno di Sethos, Mondadori, 2003.
- Elizabeth Peters, Amelia Peabody e il libro dei morti, Mondadori, 2004.
- Elizabeth Peters, Il fulmine di Sethos, traduzione di Maria Barbara Piccioli, Editrice Nord, 2010, ISBN 9788842916864.
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