Eugenio Checchi

scrittore, giornalista e insegnante italiano

Eugenio Checchi (1838 – 1932), scrittore, giornalista e insegnante italiano.

Eugenio Checchi

Citazioni di Eugenio Checchi modifica

  • La fortuna ha avuto per lui i più affascinanti sorrisi: e se la gloria non è merce che si trovi a ogni cantonata di strada, neppure è dimostrato ch'ella abbia preso per sempre il volo verso estranei paesi, e abbia abbandonata la terra che serba su tutte il primato della musica melodrammatica: la terra a cui s'ispirò Wolfango Mozart, e che dette i natali a Rossini, a Bellini, a Donizetti, a Verdi. Non ha colpa Pietro Mascagni, se anche a lui toccò in sorte di nascere in Italia.[1]

G. Verdi modifica

  • Dotato di acutissimo istinto, il Verdi comprese essere necessario liberarsi dal fascino prepotente della imitazione. Volle essere lui, e fu lui: tutto impregnato di italianità, ossequente alle tradizioni dell' opera melodrammatica del settecento e dell'ottocento, ebbe come la divinazione dei tempi nuovi; ond'è che le sue opere del primo periodo, dal Nabucco alla Luisa Miller, furono promessa, anticipazione, conferma; furono impulso vigoroso alle speranze e alle aspirazioni ancora confuse di una gente, che domandava all'arte qualcosa più di uno sterile conforto. (cap. I, pp. 2-3)
  • Temistocle Solera non fu un'aquila, ma ebbe squisito il sentimento del gusto: musicista e poeta al medesimo tempo, comprese il necessario legame fra le due arti. (cap. IV, p. 50)
  • Temistocle Solera fu raccontatore piacevolissimo: e delle sue avventure in Spagna, dove seppe entrare in grazia alla regina Isabella, e delle sue gesta in Egitto come riformatore del servizio di polizia del vice-reame, si potrebbe scriverne un libro. Mi diceva che, non so più per qual servigio reso alla corte di Spagna, ebbe una certa volta in regalo dalla regina una splendida sottoveste, e invece di bottoni c'erano brillanti. Tornato in Italia, alla prima difficoltà finanziaria capitatagli staccò dalla sottoveste un bottone, e solleticato dal buon successo, di lì a pochi mesi non c'era rimasto più che gli occhielli. (cap. IV, p. 53)
  • Alla Camera [Verdi] sedette sempre vicino al Sella, del quale pregiava moltissimo il carattere e l'ingegno. E mentre nelle uggiose dispute parolaie della Camera, giovanilmente linguacciuta, il Sella ingannava il tempo a fare dei bizzarri geroglifici di matematica, Giuseppe Verdi si divertiva a mettere in musica, su carta che lì per li rigava da sé, alcune frasi melense di onorevoli, ma specialmente qualche vivace interruzione. L'opera postuma del Meyerbeer[2], l'Affricana non era conosciuta ancora: onde il Verdi, senza saperlo, fu plagiario del maestro tedesco, perché più d'una volta, sul banco suo di deputato, musicò la frase corale Ai voti! ai voti! che la Camera ripete sempre così volentieri, e che il Meyerbeer espresse nel primo atto dell'Affricana con una così felice trovata. (cap. XI, p. 197)

Rossini modifica

  • [Gioachino Rossini] Non agiato soltanto ma ricco, di una ricchezza, si noti bene, non derivatagli dai diritti d'autore, che una legislazione imperfetta regolava male o non regolava affatto, amante soprattutto del quieto vivere, della buona cucina, dell'allegra compagnia di pochi amici, egli s'era creata per tempo una filosofia impregnata d'indifferenza serena, che lo induceva a considerare come superflua una gloria, la quale venisse ad aggiungersi a quell'altra con tanta facilità conquistata. Questa qui gli bastava: ce n'era perfino d'avanzo. Del nome suo era pieno il mondo: l'eco degli applausi tributati alle sue opere sì ripercoteva nei teatri dei due emisferi: il genio di lui, come pioggia fecondatrice, aveva lasciate impronte durabili in tutto il vasto campo dell'arte, e la commedia, la farsa, il dramma, la tragedia si può dire che avessero ottenuto da lui il più largo contributo di sorrisi e di lacrime, di pietà e di terrore. Perché ripetersi? perché affaticarsi? Non che esaurita, la vena melodica di Gioacchino Rossini, a malapena premuta, avrebbe potuto ancora alimentare per anni e anni l'inesausta curiosità dei pubblici che impazienti aspettavano. Ma egli non volle: e da questa sua ostinazione nessuno valse mai a rimuoverlo. (cap. I, pp. 9-10)
  • Gioacchino Rossini, con esempio unico al mondo, scrive nel medesimo anno (1816) il Barbiere e l'Otello: la commedia dell'eterno riso, e la tragedia del pianto e del terrore. (cap. I, p. 11)
  • Rapidi lavoratori l'uno e l'altro, fecondissimi, e nella loro potente originalità seguaci dell' antica tradizione italica, il Rossini scrive quaranta opere teatrali in diciannove anni, con la facile noncuranza e con la miracolosa prodigalità del genio: il Verdi, genio più raccolto e cogitabondo, compone ventisei opere nello spazio di un mezzo secolo circa, dal 1839 al 1892. (cap. I, pp. 11-12)
  • Il Rossini accetta con la massima disinvoltura impegni, a mantenere i quali ogni più gagliarda fibra si fiaccherebbe: scrive talvolta, in un solo anno, ben quattro opere: ma incomincia a scriverle quando pochi giorni, due o tre settimane al più lungo, mancano al termine fatale della consegna. Nei giorni e nei mesi che precedono, e che gl'impresari e le direzioni dei teatri s'immaginano il maestro impieghi nella meditazione e nel lavoro, egli continua allegramente quella sua vita spensierata ed errabonda, va di casa in casa a rallegrar le brigate, si occupa ad ammannire pranzi e cene, corteggia le belle dame, e chi si arrischi di ricordargli che impresari, direttori, artisti e pubblico aspettano a braccia aperte l'annunziata opera, è ricevuto con mali modi e col titolo di guastafeste. L'importante per lui è di avere negli ultimi giorni un libretto purchessia, scritto magari alla diavola, con quel lasciarsi andare che distingue la letteratura melodrammatica del primo quarto di secolo. Poi a un tratto egli si chiude in casa, apre la valvola delle melodie, e in pochi giorni l'opera è fatta. Sarà un capolavoro, o non sarà nulla: a lui poco importa. Gli basta che l'impegno sia mantenuto, le parti sieno distribuite; e nell'intervallo fra una prova e l'altra il maestro, lieto del riconquistato riposo, ricomincia la vita svagolata di prima. (cap. I, pp. 12-13)
  • Il Paisiello immaginò di essere, meglio assai del Cimarosa morto nel 1801, il vero rappresentante del melodramma in Italia: se non che, mentre i fanatici di lui si burlavano del Rossini, appiccicandogli il soprannome di «tedeschino» perché sopraccaricava l'orchestra, così dicevano, di un inutile strumentale, il Paisiello, con l'acutezza dell'ingegno e con la tagliente lucidità della gelosia, vedeva in quelle supposte imitazioni germaniche, in quel palese ossequio ai due grandi maestri Haydn e Mozart, un'ardita evoluzione: vedeva nel Rossini un innovatore e un riformatore, il quale avrebbe potuto dare a tutti, se la fortuna lo assistesse, del filo da torcere. Cattivo d'animo, invidioso, desideroso anche del male altrui, inacerbito dagli acciacchi e dai malanni dell' età, il Paisiello ritrovò in quell'ultimo anno della sua vita – la storia è storia, e mi pare atto disonesto nasconderla come l'hanno nascosta in generale i biografi – ritrovò un soffio di energia iraconda per sobbillare gli amici di Roma[3]per insinuare nei loro animi che convenisse fare giustizia sommaria di un maestro così temerario, da osare di metter le mani in un'opera com' era quella sua del Barbiere, che i pubblici di tutta Europa (e questo era vero) applaudivano da trentacinque anni. (cap. III, pp. 74-75)
  • Anche da vecchio, il Rossini parlava spesso delle mirabili composizioni del Beethoven: ma raccomandava ai giovani, i quali ricorrevano a lui per consiglio, di non innamorarsi troppo dello stile beethoveniano, per evitare il pericolo della imitazione. «Vedete (diceva) che cosa accadde nei passati secoli agli imprudenti che vollero imitare Michelangiolo. Beethoven è il grandissimo fra i grandi, ma deve stare da sé. Io che non scrivo più, mi diletto a studiare i tre santi padri della musica tedesca: ma il Beethoven lo prendo a rare dosi, una volta la settimana: Haydn un po' più spesso: in quanto poi al Mozart, lo prendo tutti i giorni e non mi fa male.» (cap. V, pp. 123-124)

Note modifica

  1. Da Pietro Mascagni e la nuova opera "Iris", in Nuova Antologia di lettere, scienze ed arti, quarta serie, volume LXXVIII della raccolta volume CLXII, Direzione della Nuova Antologia, Roma, 1898, p. 268.
  2. Giacomo Meyerbeer.
  3. A Roma, presso il Teatro Argentina, il 20 febbraio 1816, si ebbe, contestata da una parte del pubblico, la prima rappresentazione del Barbiere rossiniano.

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