Maurizio Maggiani

giornalista e scrittore italiano

Maurizio Maggiani (1951 – vivente), giornalista e scrittore italiano.

Scultura di Alfonso Gialdini, ispirata da Il coraggio del Pettirosso di Maurizio Maggiani, dedicata a Carlo Giuliani

Citazioni di Maurizio Maggiani modifica

  • A un certo punto della mia vita non sono stato più quello che andava a Genova, ma che era di Genova. [...] Essere parte della sua propensione al declino senza fine, e essere parte della sua inesausta genetica resistente. Parte della sua riservata probità e delle sue smanie di conservazione, del suo conformismo in gramaglia e della follia dei suoi pensieri difformi. Parte di un immenso organismo vivente che non finirà mai, perché non esistono volontà tanto potenti e persistenti da annientare le sue ragioni soggiacenti.
    Parte di una "superbità" che non è, non solo e non soprattutto, spoglia di fasti ormai perduti o mai esistiti, ma coscienza di una ragione di essere così come ha scelto di essere per propria volontà e non per altrui arbitrio. Non è così di tutte le città, non è così di tutte le comunità, non nel modo così interiore che è per Genova, città luterana in un paese controriformato.[1]
  • Ecco, c'è stato là, tra la montagna Apua e quel poco di piana di qua dai canneti versigliani, un paese di contadini senza terra, di manovali e cavatori, un paese da niente di gente da niente, in mezzo a quel paese stava una casa, una casa da niente e dentro quella casa viveva una famiglia, una famiglia da niente ma grande, riempivano quella casa, in mirabile equilibrio di vuoti e di pieni, quello che rimaneva di quattro generazioni di miserabili contadini, e manovali e cavatori, si era nel mezzo degli anni '50, quella casa era abitata da superstiti, scampati alla disgrazia e alla tragedia della Guerra, sopravvissuti alla distruzione, la casa stessa era un superstite, sopra le sue fondamenta passava il fronte della Linea Gotica.[2]
  • E poi sono vissuti felici e contenti, tanto da fare una figlia e poi un’altra, e l’altra è la signora Teresa che non ha mai conosciuto sua madre e quello che sa di lei sono le fotografie e i racconti. Che è quello che so io e che ora sapete voi. E tutti quanti sappiamo da quelle fotografie un’altra cosa, sappiamo che persino nella più vigilata fortezza dell’inumanità, nel più schifoso tabernacolo del sadismo, nel tempo dove niente di buono è ammissibile e plausibile, ecco che anche lì non tutto è perfettamente e eternamente predisposto e stabilito. Questo nel caso che al tempo presente dovessimo sentirci deprimevolmente impotenti.[3]
  • Gli angeli del fango. Un'immagine di irresistibile fascino evocativo, un ossimoro di straordinaria bellezza e pregnanza. Così somiglianti a noi da poterli scambiare nella penombra delle nostre anime confuse a dei figli, a dei fratelli, a dei vicini di casa, eppure così diversi da noi, candidi e puri nella marea nera dell'impurità.[4]
  • Ho iniziato la mia carriera di rivoluzionario occupando la mia scuola nell'inverno del '68, una cosa piuttosto dura, al portone non c'erano le mamme ma il battaglione della Celere, a portarci cibo e coperte, a discutere con noi e cercare di farci ragionare un filo più concretamente del vogliamo tutto, vennero gli operai dei cantieri navali e dell'arsenale militare; pareva a loro che, così differenti come eravamo, non ci fosse distanza e estraneità tra ciò che chiedevano nelle loro lotte sindacali e ciò che noi non sapevamo che sognare e pretendere, eravamo alla vigilia del contratto unico, delle grandi riforme sociali, vigilia di grandi vittorie.[5]
  • Ho scelto di vivere a Genova da adulto, in un singolare momento di grande libertà e privilegio in cui avrei potuto vivere ovunque nel mondo. Ho scelto questa città non per ragioni di lavoro o familiari o affettive, come capita a moltissime persone, ma per puro piacere, considerando la possibilità di sceglierla come il più grato dei privilegi di cui la fortuna mi aveva favorito. Ho scelto quella che è sempre stata ai miei occhi, più di qualunque altra città del mondo che mi è capitato di conoscere, la città della meraviglia e della bellezza. Dello stupore che non finisce mai. E della complicazione: la città dove non basta mai un solo sguardo, una sola idea, un solo concetto, una sola parola, per contenerla tutta, descriverla senza banalizzarla, decidere se volerle bene o volerle male.[1]
  • Io non so cosa ne pensino gli angeli, ma io penso che questo santo ossimoro incarnato, questa pseudocivile religione degli angeli, sia offesa, menzogna e dolo.
    Io non ho visto angeli del fango per le strade di Genova, io ho visto per quelle strade giovani uomini e giovani donne infangati. Non ho visto materia di puro spirito discesa dal cielo, ma ho visto vite di anima e carne, vite che già vivevano e che ancora vivranno qui, per queste nostre vie e queste nostre case dove nessuno li vede e nessuno se li fila finché non piove abbastanza da scatenare l'ira d'iddio assieme alla nostra mala coscienza. E se vogliamo che siano angeli è solo, spudoratamente, perché non concepiamo che sia materia nostra umana e corrente mettersi a spalare fango a titolo di pura, questa sì veramente pura, gratuita generosità civile. Se vogliamo che siano angeli è perché vogliamo nel contempo che sia chiaro che non è cosa di questo mondo la gratuita generosità. Che non ci venga richiesta, perché non è cosa che appartiene all'umana natura.[6]
  • Piero Martinetti non ha mai militato nell'antifascismo, il suo era un antifascismo radicale di per sé, in ragione della sua individuale, intima risposta all'imperativo categorico; lo presero a casa di Solari, il maestro di Bobbio, nella grande retata di Giustizia e Libertà del '35, il capolavoro delatorio di Pitigrilli, assieme a Einaudi, Pavese, Bobbio, Mila, Antonicelli e gli altri, ma gli fecero fare un po' di galera per puro gusto sadico, era evidente anche all'Ovra che era comunque altrove, anche rispetto a Giustizia e Libertà. Sì, era altrove, ma intanto lui non ha giurato, "giurare per me era tanto impossibile quanto una impossibilità fisica: sarei morto d'avvilimento". [7]
  • Presuntuoso, ecco cosa sono diventato, inorgoglito da tutte quelle letture, dalla frequentazione delle biblioteche e dei loro clienti rammolliti. Ci si monta la testa con le parole scritte, ti sembrano chissà che cosa.[8]
  • Qui siamo a Imola, e Imola è più rosso fuoco che rosso bandiera, e se date un'occhiata a una fotografia di Andreino [Andrea Costa], con quei capelli ritti in testa, gli occhi come saette e i baffoni come sciabole, capite cosa vuol dire essere di Imola e fatti di fuoco, ardere di socialismo e ardere di amore, che poi, a pensarci, è un po' la stessa cosa. E infatti il socialismo d'Italia sono venuti a fondarlo qui Andreino e la Anna [Anna Kuliscioff] quando proprio si amavano a più non posso, il socialismo rivoluzionario, s'intende, il socialismo di Romagna.[9]
  • So che il fascismo è una cosa complicata che va studiato bene per non sbagliare e confondere, che è meglio spaccare il capello in quattro piuttosto che rischiare, che ci sono strumenti adeguati per misurare e tabelle per valutare, che un conto è il fascismo e un altro conto l'antifascismo; ma io so anche, e ne ho la tattile certezza, di vivere in un tempo dell'infelicità, esco di casa e sento, sottile e ottuso e persistente, il sordo ronzio di un rumore di fondo di infelicità, quest'epoca si è ingravidata di fascismo.[10]

L'amore modifica

Incipit modifica

È notte, ci sono due sposi. Due sposi, proprio due sposi qualunque, un maschio e una femmina. Condividono da molti anni molte cose, non tutte, molte, condividono il tavolo della cucina, condividono il medico di famiglia, condividono il letto. Condividono il letto tutte le notti da molti anni, anche questa notte. Hanno due bagni ma un solo letto, stanno bene così, si lavano i denti in due bagni diversi e poi si coricano nello stesso letto.

Citazioni modifica

  • Lo sposo dà un’occhiata di sbieco alla fotografia formato panorama dove in effetti a mezzacosta nel gioco collinare esposto a meridione si intravvede la macchia di un borgo con la sua torre, proprio sotto la torre un bruscolo beigiolino potrebbe essere e non essere la casa materna, e se non quello qualcosa nell’indeterminato del chiaroscuro lì accanto, perché la casa c’è ancora ed è dove sempre è stata, ai piedi della torre della Querciola. Cosiddetta Querciola, in verità torre a guardia del dominio plurisecolare dei vescovi conti di Luni fino a che il vento redentore della rivoluzione dell’89 prese un tale furore da spingersi fino a quella valle ostica e lontana, e i servi della gleba vescovile si fecero cittadini, e davanti alla torre di guardia posero una giovane quercia, la libertà che con la fraternità e l’eguaglianza mette radici per durare in eterno. (cap. 3)
  • Quella medaglia attesta che la città [La Spezia] si è liberata con le proprie forze, i suoi uomini e le sue donne l’hanno liberata con le proprie mani da due divisioni dell’esercito germanico il 23 aprile del 1945, amor di Patria dolore di popolo oppresso, fiero spirito di ribellione animarono la sua gente, è scritto. (cap. 16)

Explicit modifica

Bene, considera lo sposo, hanno ragione, li ho fatti aspettare un po’ troppo, preme il pulsante dell’apricancello, esitano, spengono con cura le sigarette sulla lamiera del furgone e poi si fanno avanti. Bisogna preparare un po’ di caffè anche per loro, bisogna svegliare la sposa e subito placarla, convincerla che i lavoratori sono un contrattempo da poco, che potrà fare la sua colazione tranquilla in cucina, in penombra e in silenzio, mentre nel soggiorno si parlerà di riscatto e progresso e di creme di bellezza, e a tal proposito è necessario che intanto si inventi qualcosa da dire. Alla radio stanno ancora leggendo la stampa del giorno e già c’è parecchio da fare, lo sposo è contento.

La regina disadorna modifica

Incipit modifica

Oltre la Persia dei Re, sui primi contrafforti calcarei delle montagne dell'Oxiana, cresce un piccolo bulbo, il croco sativo.
Per tutta la ventosa primavera e per la secca estate non fa che vivacchiare, vegetando lentamente cinque lunghe e sottilissime foglie colorate di un verde azzurrino striato d'argento. Poi, con le prime piogge d'autunno, apre il suo fiore, a volte turchino, a volte violetto. È un fiore di cinque petali che si uniscono in un delicato calice; nel calice quattro lunghi stami, sottili come pagliuzze, maturano dal giallo acceso all'arancio. (p. 9)

Citazioni modifica

  • Abitava in piazza Stella, un piccolo pozzo d'aria in mezzo ai vicoli tra San Giorgio e San Lorenzo. Il centro di Genova è pieno di piazze insoddisfacenti, luoghi a prima vista privi di una loro logica e di qualsiasi attrattiva; brandelli di vuoto buttati lì a caso all'incrocio di qualche carrugio. È probabile che questi luoghi siano nati per sbaglio, perché non sono tornati i conti dei mastri muratori, o perché all'ultimo momento sono mancati i soldi per costruirci un palazzo. Oppure c'era un palazzo, più in là nel tempo, una delle cento e più torri di città costruite dalle famiglie nobiliari; e magari questa famiglia si è messa nei guai, ha complottato, ha contrastato, e la Repubblica gli ha disfatto la torre: è capitato spesso nel corso dei secoli. A volte è stato messo un cippo con un messaggio ammonitore, altre volte si è lasciato correre. Restano queste piazze, come piazza Stella, che a fermarcisi nel mezzo ci si sente lievemente a disagio. (p. 17)
  • Il lavoro del vignaiolo non richiede molta forza, ma una grande sensibilità. A parte la zappatura, che comunque è sempre leggera, per nove mesi dell'anno è un continuo sciogliere e legare, orientare, aggiustare, recidere e ricongiungere con mani che devono essere intelligenti e delicate; nei restanti tre mesi le mani riempiono, svuotano, travasano, sigillano, spostano, stappano, sigillano ancora, costrette sempre all'estrema attenzione e cognizione. Ogni cosa nella vigna e nella cantina deve seguire un ordine perfetto dettato dal moto della luna e del sole, dal mutare dell'aria e dei suoi effluvi, dalla micrometrica intransigenza della chimica; e tutto deve essere pulito dentro e fuori. Un vignaiolo appartiene ad un ordine del lavoro che ha a che fare con la sensualità e la dirittura di un portamento nobile. (pp. 19-20)
  • Sascia non ha mai capito il suo nome. Se è mai possibile un sentimento del genere nei confronti di una parte di se stessi così intima, Sascia potrebbe odiarlo quel nome. Nello stesso tempo se lo stringe a sé teneramente ogni volta, e cioè ogni giorno, quando le viene sottratto per essere deturpato in qualche stupido modo. La gente dei vicoli, i bottegai, i bambini della piazza, la maestra della scuola, hanno dato a vedere nel corso degli anni di non apprezzare un nome che per loro non significa nulla, che non ha nessun santo a difenderlo, e che, soprattutto, alla lingua genovese risulta impossibile da pronunciare in modo piano. Senza strascicarlo e strattonarlo e insultarlo, alla fine, con un orribile accento che storpia una bella bambina e la riduce alla caricatura di una signora che sa sempre tutto: "Sa a scià". Sascia vorrebbe potersi chiamare Maria o Lucia o qualunque altro nome passabile che non la costringa a doversene occupare in continuazione come di un difetto fisico, una menomazione che la obbliga a esibirlo con cautela ovunque vada. Ma Sascia in cuor suo sente anche che il suo nome la rende unica tra la gente di piazza Stella, la distingue e la separa, la fa in qualche modo partecipe della nobiltà di suo padre, di ciò che di essa è rimasto nell'uomo in fuga dalla sua terra e dal suo ufficio. (p. 21)
  • Al lato estremo d'occidente, secco e diritto come una fucilata, il fascio di luce bianca di un faro trinciava il cielo nero spingendosi fin sopra le loro teste.
    "Quella è la luce che guida i naviganti, la luce della famosa Lanterna, figlioli," spiegava rassicurante Alberico, e i suoi figli tacevano rispettosi di quella conoscenza. (p. 25)
  • Giunti all'imboccatura del porto il sole, quello vero, cominciava a far chiaro intorno a loro, ma le luci del porto erano ora così potenti che ai ragazzi, svegli ed eccitati come in pieno mattino, pareva di essere lì lì per entrare nella pancia di un sole. (p. 25)
  • La via di Camilla per piazza Stella caracollava ora spedita sotto le volte scure di Sottoripa. Non c'era da aver paura, ora, di niente, ma da fare tanto di occhi così. Chi avrebbe potuto raccontarlo l'emporio di Sottoripa, chi ci avrebbe creduto tra l'Ogliastra e le Baronie? Il sole basso del mattino d'inverno sforacchiava con fasci di luce iridata di pulviscolo le tende di ogni colore e sbiaditura che tenevano il vento verso mare, e infarinava di giallino una lunga galleria sorretta da colonne e da pilastri di ogni arte e fantasia.
    Non avevano mai voluto mettersi d'accordo tra di loro i mastri muratori che avevano innalzato un secolo via l'altro la palizzata di Sottoripa, la rincorsa di torri e castelli e palazzi pigiati l'uno a fianco all'altro per un chilometro e più che anticamente si faceva sciacquare le lastre dei porticati dalla risacca di scirocco che penetrava nella vecchia Darsena. Né era sembrato onorevole ai patrizi e ai ricchi della Repubblica avere riguardo per l'opera del vicino e consonare con uno sforzo d'armonia le architetture. Perciò, indissolubilmente inchiavardati tra loro, sfilavano davanti agli occhi attoniti del mondo che si affacciava al porto della Superba i capricci di stile e di ripicca di gusto romanico, moresco, franco e pisanino, gotico prudente e gotico svettante, barocco, avignonese, castrense e chissà cos'altro ancora. Le colonne dei portici naturalmente erano il vanto dei loro padroni; una doveva invidiare l'altra, e dai capitelli sgorgavano, in perpetuo malcontenti della pietra che frenava i loro furori, tutto il serraglio degli animali esotici e dubbi che dovevano montare la guardia alle magnificenze dei piani superiori. (pp. 29-30)
  • Già, se uno tiene le palpebre un poco socchiuse e loro sanno mantenersi ben ferme, le lacrime se ne restano tranquille nel loro sacchetto e non c'è modo che se ne escano fuori a bagnare qua e là, a raccontare quello che non si deve sapere. (p. 68)
  • Chi lavora nel porto, qualunque lavoro, dal più bestiale al più fine, sa di essere soggetto a una regola inesorabile, a un potere assoluto: la Merce, la Regina come la chiamano. Non c'è posto per nessuna legge, né di Dio, né del Duce, né dello Stato, che possa contendere con la legge della Regina. Tutti lo sanno, ma chi è in intimità con lei lo sa meglio di chiunque altro e gli intimi della Regina sono i camalli, i facchini, caravana o carbunè. Sono quelli che la toccano, la spostano, la trattano, l'accatastano, la pesano, la consultano, l'accudiscono. Sono quelli che stanno nudi al suo cospetto, nudi con un paggetto in testa, uno scosà sui fianchi e un gancio nella mano. (p. 77)
  • Svolta in piazza Banchi e si ferma a fare colazione. Nel mezzo della piazza, dove si fatica a passare per il zeppo di gente che se ne sta a chiacchierare, è precipitata giù dal cielo una gran pozza di sole e le vetrate della vecchia borsa riflettono la facciata del palazzo di San Giorgio e il mare lucido e nero della Darsena. Sui banchi di pietra se ne stanno seduti i vecchi del porto con il Lavoro in mano ancora da sfogliare, muti e attenti come se ci fosse bisogno di loro per presidiare anche solo il riflesso del varco al Caricamento, l'ultima porta della città. (pp. 83-84)
  • I colombi non piacciono quasi a nessuno in città. I colombi di città si chiamano piccioni e il loro piumaggio grigiastro e pidocchioso non invoglia tenerezze e il loro costume terricolo di ruzzare nell'immondezza schifa anche un po'. Piacciono solo a qualche vecchio che ha ancora la piccionaia sul tetto, e questi vecchi non piacciono proprio a nessuno, e la gente si fa l'idea che siano vecchiacci immondi sempre inzaccherati di guano anche se non è vero. (p. 86)
  • San Teodoro è un sestiere di marinai e di gente del porto, famiglie nuove che non hanno trovato più posto nelle case del centro antico. Ci si arriva seguendo il corso litoraneo verso ponente, tra Di Negro, il Passo Nuovo e gli sbancamenti di San Benigno. È una palazzata di grandi case popolari proprio davanti a Calata Chiappella e Calata Lazzarino e per entrare in porto basta attraversare la strada. Dal basso si arriva alla collina del Lagaccio e dei Piani di Fregoso e ai forti di Napoleone andando sulle crose. La più grande e la più bella è Salita degli Angeli, che parte dalla piazza Di Negro e non si ferma più. Man mano che sale le case diventano più vecchie, più piccole e più complicate, e il sestiere diventa un vecchio borgo intorcignato allo scoglio del monte, pieno di passi e volti, crosette e traverse. (pp. 121-122)
  • E se ne va a prendere finalmente possesso della sua cabina. A passo svelto e giocondo, ripetendo tra sé con gusto il ritornello di una canzonetta che gli è venuta lì per lì. Il ritmo alle sue parole lo danno gli altoparlanti di bordo che stanno strombazzando ai quattro venti la musica con i sassofoni e le trombe e i tamburi che ha sempre accompagnato le allegre navi Liberty: "Pa pa, pararira pa pa. Moderna, sì, oh sì, moderna, moderna, come no, parapira punzi pa, oh sì, moderna tara tara ta". (pp. 134-135)
  • Perlopiù girovagavano oziando per la città: era dentro la città che si trovavano in abbondanza i grandi spazi che il Giaguaro aveva da mettere a disposizione di Giacomino. Erano valli lussureggianti, pianure sconfinate, foreste inestricabili che avevano per nome Universale, Dioniso, Moderno, Chiabrera, Olimpia, Savoia, Orfero e così via: i cento cinematografi della grande Genova, compreso il Pioceto di San Fruttuoso, dove dai secolari panneggi del palcoscenico i pidocchi saltavano in sala come saltimbanchi.
    Ci arrivavano con calma, zigzagando attraverso una città di palazzi e castelli, viali e giardini, budelli e passaggi, piazze e torri. Ma tutta quanta Genova non era che lo splendido fuaié, la sala d'attesa e il fumuar dei suoi cinematografi. La osservavano, il grande e il piccolino, con uguale stupore e meraviglia, ma anche con quella specie di perversa frenesia di chi ha un'altra meta e fa il vecchio giochino di tirare per le lunghe il tempo e i passi in modo di arrivarci per piccoli innumerevoli ed eccitanti passaggi. (p. 161)
  • È più di un secolo che i caravana del porto franco scaricano al Mandraccio i sacchi di spezie del mittente Gama Zagolby. I caravana stessi hanno un modo di dire per le ragazze che si imbellettano: "tidorenu cumme un sacco du Gama". Di quei sacchi, vuoti, ce n'è almeno uno in ogni famiglia del porto: ci si avvolge il cibo da conservare perché l'essenza della spezia continua a profumare per anni e, tenuta lì dentro, "anche 'na suola de scarpun la sa de bun". (p. 168)
  • Nonostante quello che comunemente si crede, gli inventori non inventano quasi mai niente. In realtà sono piuttosto degli esploratori, persone dotate di una buona vista e di una grande sensibilità. Sanno vedere molte cose che agli altri sfuggono per pura distrazione e, soprattutto, sanno creare relazioni tra le cose che vedono.
    Naturalmente gli inventori, come appunto gli esploratori, devono essere anche persone estremamente fiduciose: devono saper cercare, curiosare, fantasticare e sperimentare senza essere trattenuti da un temperamento troppo guardingo e pessimista. Per questa ragione gli inventori corrono spesso grandi rischi senza che neppure se ne rendano conto: loro mettono volentieri le mani dove è apparentemente sventato che le vadano a ficcare. (p. 170)
  • E a un certo punto suo figlio è venuto. E si sono amati lì sullo scalino, si sono amati per la strada e poi nel tranvai, si sono amati su per la crosa e dentro casa. Si sono amati dell'amore di una madre e di un figlio che hanno avuto uno per ciascuno una vita tragica e distante, una vita che costringe ogni giorno a mettere da parte l'amore soldino su soldino, citto per citto. Si sono amati come un figlio e una madre che non si sono mai potuti carezzare e baciare per tutta una dura guerra, e ora che lo fanno, non sanno pensare se è finita, se mai finirà. (p. 225)
  • Per fortuna che, per antica saggezza, i kanaki non piangono mai troppo a lungo le bellezze che sfuggono al loro amore: sanno che peggiore della morte è la passione di ciò che non può essere posseduto, la disgrazia dei vivi che sono già morti mentre ancora camminano. (p. 248)
  • Il giovane re pensava invece che la sua primogenita fosse stata lasciata sola da Dio perché in questo modo sarebbe cresciuta più libera e più forte, figlia di tutte le voci senza faccia che ancora parlavano cantavano e suonavano nella radio senza morire mai. "Ha meno fame e meno sete chi naviga da solo", dice un antico detto delle isole. (p. 249)
  • Bong, bong, bong, bong, bong... "Wela wela", in fretta in fretta
    Bong, bong, bong, bong, bong... "'Amo 'amo", strizza strizza, cantano unisoni alla terra uomini e bambù. (p. 253)
  • E questa volta pregò Dio con animo più tranquillo.
    Disse: "Dio che sei qui, Dio che sei sopra di me e sopra quest'uomo qui con me, Dio sopra quella gente laggiù e sopra tutto quanto qui intorno, ti prego di fare ogni sforzo per mettercela tutta, e ti prego di dire a mio padre che ce la metto tutta anch'io. Per omnia saecula saeculorum, amen". (p. 317)
  • Per Lucy, Alii Truk era qualcosa di simile al suo animale prediletto. Non è una cosa facile da capire; del resto come si può spiegare con parole quello che c'è dentro l'animo di un bambino? Lì dentro non ci sono parole, forse neppure pensieri, certamente non quei pensieri che gli adulti credono di poter spiegare. I pensieri dei bambini, constatano, non hanno né capo né coda. E hanno ragione in un certo senso, perché quei pensieri sono creature multiformi e scombinate. (p. 342)
  • Distante da lui per non farsi sentire, padre Giacomo supplicò segretamente Dio con una preghiera:
    "Ti prego ancora una volta, Dio, di mettercela tutta. Vientene con noi ma continua anche a dare un'occhiata qui. Non so se lo puoi fare di andare e venire da un posto, non so nemmeno se puoi scegliere: la dottrina è molto incerta al riguardo e io non mi ricordo più un granché di quello che ho studiato. Vedi solo se puoi farcela, e di mettercela tutta, come ce la mettiamo tutta noi. Di' a mio padre che mi hai sentito. Amen". (p. 347)
  • A entrare per primo nella chiesa fu un vecchio dignitario, uno di quelli a cui il re non aveva risparmiato un bel po' di prigione ai tempi belli. Vide che il re teneva gli occhi aperti e che dalla sua bocca, che gocciava ormai solo un filo sottile di sangue, usciva un suono appena udibile. Il vecchio si fece sotto la testa e tese l'orecchio. Così sentì distintamente che il suo re diceva:
    "Mue otu e aga," che vuol dire: non ho un cattivo cuore. E furono le ultime parole di re John. (pp. 348-349)
  • La canzone diceva cose come:
    O confine d'Occidente
    Firmamento Superiore
    Firmamento Inferiore
    ecco il vostro tesoro.
    Offrila all'uomo che governerà la terra
    un marito che dirige un distretto.
    Badate bene spiriti della notte,
    proteggete vostra figlia...
    (pp. 353-354)
  • Sapevano di cosa si trattava, e uno dopo l'altro presero a intonare il canto pagano del re morto.
    Yari au malua
    Yari au malua
    Trascinatemi piano, trascinatemi piano
    io sono il campione della vostra terra...
    (p. 355)
  • Una lapide con un tettuccio di latta arrugginita aveva scolpita la figura slanciata di una giovane donna velata dal capo ai piedi. Un'iscrizione in inglese e hawaiano diceva:
    Nel cielo sopra questa terra
    canta ancora l'Usignolo.
    Piangendo
    questa pietra hanno qui portato
    sulle loro spalle da Honolulu
    un gruppo di fedeli ammiratori.
    E qui torneranno
    per ascoltare un'ultima canzone.
    (pp. 358-359)

Explicit modifica

Ci si aspetterebbe a questo punto una mole massiccia di candidature al trono. Ma anche qui c'è una sorpresa: nessuna mitomane o ambiziosa signora si è, per quello che se ne sa, ancora proposta per il trono di Moku Iti, questo è il nome dell'isola che prospera sulla musica a pagamento a onde corte. Pare appurato che migliaia di persone l'abbiano incontrata, ma ancora nessuno che abbia avuto successo nel proporle: "C'è un trono che l'aspetta, signora. Si affretti prima che scada l'offerta".
Fin qui a grandi linee la notizia come è stata riportata dalla stazione televisiva americana.
Quando a noi, magari, ci piacerebbe saperne qualcosa di più. (p. 396)

Il romanzo della nazione modifica

Incipit modifica

Avevo in mente di scrivere Il Romanzo della Nazione, questa era la mia ambizione, ma disgraziatamente lo scorso inverno è morto mio padre. Mio padre era la fonte principale di documentazione, il serbatoio dove erano conservate le spoglie della Nazione. Lo scrigno. È un’ambizione quella del Romanzo della Nazione che ho nutrito per un decennio, forse di più, al punto che per nutrirla a sufficienza mi sarei anche tolto il pane di bocca. Ma di fronte alla morte anche il proposito più saldo vacilla. Sfido io.

Citazioni modifica

  • Adesso, in questo preciso momento, ho tra le mani una scatola di fiammiferi con il ritratto di Franz Kafka. Mi ci sono appena acceso da fumare. Cosa ci fa Kafka su una scatola di fiammiferi? Niente, è un souvenir di Praga. [...] Anche uno sprovveduto che si trovi per le mani quella scatola di fiammiferi con la faccia di Kafka la prima cosa che gli viene in mente è: quel ragazzo ha dei problemi. Infatti aveva dei grossi problemi, e prima di tutto li aveva con suo padre. (cap. 6)
  • Tra di noi si diceva un film d’amore di qualunque film che non fosse stato un film di guerra o di cowboy. Da cui se ne potrebbe dedurre che, nel posto da dove vengo io, l’amore è una particolare forma di spettacolo cinematografico. È una cosa non priva di una sua saggezza. La solita, cinica, distruttiva saggezza contadina. (cap. 8)
  • L’uomo scampato alla malaria, l’elettricista che ha lavorato per cinquant’anni dodici ore al giorno senza recupero festivi, l’uomo che mi prendeva a cinghiate il giorno della pagella, aveva vissuto di sogni. Nella sua solitudine, nel suo silenzio interno, nel suo cuore arido, nella sua brutta poesia operaia, albeggiava un sogno, s’adombrava l’utopia. (cap. 8)
  • [Parlando del padre] Ma la produzione di merci altamente volatili gli poneva interrogativi a cui io non avrei saputo rispondere esaurientemente. Giustificare la commutazione di un tot di parole in valore, il valore in denaro. Non credo che lui abbia mai pensato che un romanzo potesse avere un prezzo giusto, un prezzo veramente giusto. Per non parlare di una faccia dentro alla televisione. Si può mai dare un prezzo equanime a una faccia che parla alla televisione? (cap. 10)
  • In verità quello che ancora vorrei fare [al padre] è abbracciarlo e scarruffarlo. Scuotergli le spalle, scuotergli la testa e stare a vedere cosa succede. Se per caso non si giri di lato per darmi un manrovescio, o se si rimette a piangere, o se, metti caso, cominci a parlare di cose così sagge e pertinenti da cambiare i destini dell’umanità. (cap. 10)
  • Vorrei farti presente papà che in tutta la Bohème non c’è una sola volta che senti dire la parola Morte. Non una volta, e è inutile che ti faccia presente che la storia è quella, che non c’è niente da fare e alla fine Mimì muore. Sì, si sente dire un po’ in fondo al palcoscenico che è spirata. Spirata, chissà cosa vuol dire spirata. Che aveva dell’aria in corpo? (cap. 11)
  • Lavorare bene, lavorare con il signor Trippi, portarsi a casa qualcosa da aggiustare la domenica pomeriggio. Questa grande presa per il culo che il lavoro nobilita l’uomo, che il lavoro rende liberi. C’era scritto alla porta di un campo di sterminio, non sui cancelli del paradiso. E lui ci credeva. Lui e il signor Trippi e tutti quanti loro, i lavoratori, si sono messi in testa di costruire una nazione con le loro mani. Non speravano di farlo, loro ci credevano davvero che l’avrebbero fatto. (cap. 11)
  • Erano i tempi che il Mossad teneva una base in città [La Spezia] per organizzare il trasferimento clandestino degli ebrei in Palestina. Gli ebrei che erano scampati ai lager, gli ebrei che non erano stati internati ma comunque non ne volevano sapere più niente dell’Europa, di nessunissimo schifoso angolo d’Europa, gli ebrei che volevano andare a costruire il socialismo il più lontano possibile dalla patria del socialismo. (cap. 13)
  • Quando dico che Camillo Benso aveva tutto per la testa tranne che una nazione, vorrei ricordare che intanto nel regno il diritto di voto era stabilito per censo. Guadagnato in base all’avere. Votavano i ricchi che eleggevano ricchi. Una nazione è un patto universale, una nazione è una testa un voto. Una nazione è un popolo di uomini liberi che liberamente si lega. Ne restasse fuori anche uno solo, anche una sola testa, su cosa potrebbe mai fondarsi una nazione se non sul dominio di uomini su uomini? (cap. 18)

Explicit modifica

Che tenerezza che mi fa questo Mao Tse-tung che prende e va a fondare la nazione più potente del mondo con un paio di mutande e di calze di ricambio, lo spazzolino, una saponetta e quei tre libri. Tre libri stranieri, roba lontana ben più di mille miglia, disseminata per cinque secoli di una storia che non era nemmeno la sua. Il poema di un esiliato scritto qua e là per le terre dove poteva fermarsi quel tanto da mettersi lì a scrivere un po’. Il trattato politico di un ex galeotto per fatti politici. E il manuale del perfetto guerrigliero scritto da un rivoluzionario che non ha vinto una battaglia che è una, partito per incitare alla rivoluzione i contadini servi dei Borbone e ammazzato da una banda di quei poveracci morti di fame che si erano messi in testa che fosse andato fin lì per rubargli il raccolto del grano. Tutti e tre sarebbero stati dei gran fondatori di nazioni, questo non c’è dubbio, avevano idee chiare al riguardo, avevano la tempra, e sono finiti come sono finiti. Sono finiti al tempo dovuto nello zaino di un bibliotecario dello Xiangtan, all’altro capo del mondo. Sia come sia, è sicuro che a leggerli non ha perso del tempo.

Questo tanto per dire che la storia non finisce mai, e va dove deve andare.

Il viaggiatore notturno modifica

Incipit modifica

Ascoltate, è ancora il tramonto sul colle dell'Assekrem. Giallo, ocra, azzurro, oltremare, carminio. Cielo, terra, montagne e valli.
Tutto.
Ma giù nelle gole c'è già il crepuscolo e la notte. Rosa, terra bruciata, viola, nero. Il nulla laggiù.
L'aria è così limpida che l'increspatura dell'ultimo orizzonte potrebbe essere all'altro capo del mondo. Se la Terra fosse piatta. E il fondo della valle su cui sta poggiando la roccia dell'Assekrem, il centro della Terra. Se il cuore della Terra fosse freddo come i crepacci a quest'ora della sera.

Citazioni modifica

  • Cerchi chi devi cercare, incontri chi devi incontrare. Sono sempre i piedi che Dio muove per primi.
  • Esistere è la mia preghiera, come esisto è come prego.
  • La cosa che più conta di un viaggio è non smettere di viaggiare.
  • Non cedere alla tentazione di fermarsi è ciò che dà senso all'andare, ciò che lo rende veramente utile e veramente bello. Agli occhi di Dio, agli occhi dell'Universo, agli occhi di chi incontri nel cammino.
  • Solo quando non so dove andare so che arriverò da qualche parte. Solo quando ho una meta so che non arriverò mai.
  • Possiamo amare solo chi incontriamo, e dunque sono i nostri piedi che scelgono chi ameremo.
  • Non tutto ciò che esiste è reale.
  • Se un uomo crede in modo sufficientemente fervido, agli occhi di chi lo guarda diventa irreale. E più tenacemente crede, più ciò in cui crede diventa irreale quanto lui. Dice che tutto ciò è bellezza. Dice che questa è l'utile bellezza dell'uomo e del suo credo agli occhi di Dio e dell'Universo.
  • Dinetto era una proletario, e io il suo figliolo.
    Mi piaceva essere figlio di un proletario, mi piaceva la parola. Me l'aveva spiegata: "proletario" vuol dire che un uomo possiede solo la sua prole. Io ero la prole di mio padre ed ero contento anche di essere la sua unica proprietà.
  • Sto imparando che non serve sempre saper vedere una ragione, che si può essere nudi e scalzi di qualsiasi ragione e non per questo essere meno veri di un fuoco acceso nella notte.

L’eterna gioventù modifica

Incipit modifica

Nel fosco fin del secolo morente un vecchio garibaldino si lasciò alle spalle l’ultima rivoluzione e prese la strada per tornare a casa. Si tolse la camicia rossa con i galloni da maggiore e si vestì da straccione, a Salonicco trovò un imbarco da mozzo di sottocoperta su un vapore che portava mille pecore vive al porto di Genova. Tenne a bada le pecore per una settimana, sbarcò, si fece pagare e si ricordò che non sapeva più dov’era casa sua, allora riprese dalla sacca la camicia rossa e salì sul primo tranvai per Quarto. A Quarto si cacciò in acqua vestito com’era e nuotò verso il largo finché ne ebbe la forza, poi si lasciò andare, perché aveva vissuto tutto quello che c’era da vivere e non gli importava più di niente, se non di finire dove aveva cominciato, nell’acqua da dove il Generale Garibaldi l’aveva pescato e portato con sé nella più gloriosa di tutte le rivoluzioni.

Citazioni modifica

  • Eh, che mestiere faccio, considera il Garibaldo, il mio mestiere è che a Pouilly ho portato via io la bandiera del 61° Pomerania. Il mio mestiere è svergognare i borboni, i papisti, i sabaudi, i prussiani, i turchi, gli asburghi e tutta la feccia mondiale dei tiranni. Il mio mestiere è forgiare un bullone, infornare la galletta, ferrare un cavallo, lavarmi i panni. Il mio mestiere è la rivoluzione, ecco che mestiere, il soldato della rivoluzione, l’ultima è appena finita e appena persa. (cap. A)
  • La pellagra mangiava le mani e il cervello dei contadini che non avevano da nutrirsi che di polenta di formentone e pappa di castagne, impazzivano intanto che le loro mani, le mani del loro lavoro, si corrompevano fino all’osso. La pellagra l’aveva inventata la miseria d’Italia, non c’era in nessun’altra parte del mondo, era incurabile perché l’unica cura era mangiare carne e verdura e frutta, e non c’era contadino o montanaro che potesse pagarsele. (cap. C)
  • Non fu una cosa troppo triste andare al funerale di suo padre. Un funerale proletario quasi come quello che avrebbe voluto per l’Angela, con le bandiere, la banda musicale che suonava belle canzoni, i discorsi di uomini che tenevano il cappello in mano e con la voce grossa proclamavano le grandi imprese di Sirio, il Bruto delle battaglie. E i suoi compagni ancora vivi vestiti con le tute da minatore, l’elmetto nella testa e la lampada sull’elmetto, accesa anche se era pieno giorno, anche se la miniera non c’era già più. Troppo povera la lignite per continuare a morirci. (cap. E)
  • I duchobory, i pazzi, gli scellerati eversori di ogni ordine in nome di Cristo, i lettori del vangelo che s’intestardivano a vivere e pensare come se il vangelo potesse regolare la vita del mondo moderno, i lettori di ogni libro proibito dalla religione e dalla Ochrana, la polizia che tutto vedeva e tutto ascoltava, odiatori dello zar, del patriarca e di ogni altra autorità terrena. Dediti alla dispersione dei propri beni e alla sobillazione dei mugiki, aprivano scuole clandestine perché i servi e i loro figli imparassero a leggere, cliniche segrete perché imparassero a guarire, regalavano loro terre e libertà, non prendevano arma tra le mani, né per sé né per la patria. (cap. F)
  • Da quel giorno alla fortezza di San Pietro e Paolo la signorina Emma prese a parlare con Esfir come se fosse cresciuta all’improvviso, a parlare con lei delle cose che si era detta con Sof’ja L’vovna, a leggerle i libri che si spartiva con lei. Le raccontava passeggiando per Peterhof delle grandi ingiustizie inflitte al popolo, gliele elencava una per una, e delle ingiustizie che infliggeva suo padre a lei stessa e alla sua mite madre, una per una perché non meno dolorose e ingiustificate di quelle subite dal popolo. Le leggeva le poesie del grande Puškin e del magnifico Tolstoj e fogli scritti di suo pugno del grande scienziato il principe Pëtr Alekseevič Kropotkin, perché, le ripeteva puntandole un dito sulla fronte e sul petto, poesia e scienza sono la stessa cosa, come lo sono amore e giustizia. Le insegnava la lingua francese, naturalmente, la lingua del libero pensiero e delle belle poesie di ­Verlaine e Mallarmé, degli articoli pieni di saggezza del principe ­Michail Aleksandrovič Bakunin. Le insegnò a salutarsi tra loro con un motto segreto, dove c’è autorità non c’è libertà. (cap. F)
  • Per la settimana che rimase fu letta e riletta, c’era chi scendeva ai silos dalla città per andare a leggerla, si formavano capannelli e cortei perché andava letta con attenzione e ci voleva il suo tempo per capirla parola per parola. Non si seppe mai chi fossero gli autori, gente di fuori ritenevano i carabinieri, troppo complicata per le teste dei portuali. La principessa Esfir ne fece una canzoncina e la insegnò ad Anita, prese dalla sua terra una vecchia musica, la musica lenta, solenne e dolce che accompagnava il canto dei battellieri nella loro fatica, così nell’incedere della grande guerra, madre e figlia andarono cantando per le calate, i ponti e la darsena con dolcezza e solennità, non ci deve essere nessuna guerra né tra me e te né tra noi e voi né tra voi e loro. (cap. L)
  • E la Canarina scoprì che un pericolo pubblico era anche l’uomo che l’aveva portata con sé nello straordinario viaggio fino alla città di Brooklyn. Passarono mesi prima che lo rivedesse, ma intanto all’Asilo Operaio le dissero di lui, che era il compatriota Carlo Tresca avvocato, che era un grande cuore rivoluzionario, un apostolo del libero pensiero che aveva dedicato la sua vita e tutto quello che aveva al bene e alla giustizia per i lavoratori di tutto il mondo, e per questo era spesso in prigione e spesso fuggiasco. Eppure quell’America era un paese di miracoli, e lui alla fine era sempre libero, sempre pronto al bene, sempre là dove l’ingiustizia, la miseria, l’oppressione lo chiamavano a porre riparo. E non c’era città dell’Unione, le dissero, non c’era miniera, fabbrica, opificio, dove un lavoratore non gli dovesse qualcosa della sua dignità. E non c’era ragazza ribelle tra Paterson e Pittsburgh, Little Falls e New York, aggiunsero, che non gli dovesse un sogno. (cap. U)
  • In una delle sue veglie al capezzale dell’Angela, la Canarina le ha mostrato due ritagli di giornale, il giornale è il pm, il quotidiano del pomeriggio di New York famoso per la cronaca nera. In uno la pagina è occupata per metà da una fotografia, nella fotografia in un cupo bianco e nero è ripreso il corpo di un uomo [Carlo Tresca] riverso bocconi sul selciato, dispiegato attorno al corpo un grande mantello, come se l’uomo avesse delle ali, come se l’uomo fosse precipitato dal cielo schiantandosi sul marciapiedi, il capo è piegato in modo strano, sembra che l’uomo si sforzi di volgere gli occhi sul cappello Stetson gettato due passi più in là. Dalla bocca gli esce un rivolo di sangue che si spande in una pozza intorno al viso, la fotografia è stata scattata con un potente flash e la pozza è illuminata così vividamente da risplendere. La ripresa ha uno stile inconfondibile, è lo stile di Arthur Fellig, il fotografo di punta del pm che si firma con il buffo pseudonimo di Weegee. Sopra la fotografia un titolo a caratteri così grandi che occupano quasi tutto lo spazio restante, TRESCA KILLED!! Nell’altro ritaglio la fotografia occupa ancora più spazio, quasi tutta la pagina, è una ripresa dall’alto della Quinta Strada occupata da un interminabile corteo di automobili nere stracariche di corone di fiori. Ai lati del corteo, sui marciapiedi, abbarbicata sui lampioni, sui tetti delle automobili in sosta, una folla si accalca lanciando piccoli, indistinti oggetti che stendono nell’aria una leggera cortina d’ombra. La fotografia è stata scattata ancora dal fotografo Arthur Fellig, ma è di tutt’altro stile, è luminosa, si direbbe quasi solare, è come al suo solito ricca di dettagli, ma più morbidi, meno taglienti. Sopra la fotografia un titolo a tutta pagina, MAFIA! REVENGE!! Il titolo dice due cose, afferma che quel funerale è una vendetta della mafia, ma dice anche che quel morto ammazzato chiede vendetta. (cap. V)
  • Non vi fu nessun dubbio su chi lo volesse morto e chi l’avesse ammazzato, i nemici mortali di Carlo Tresca erano noti e palesi, a sparare fu Carmine Galante, picciotto a contratto del boss della droga Vito Genovese, a volerlo fu Benito Mussolini, il dittatore italiano in persona, a ordinarlo Generoso Pope, il suo sodale nella città di New York, il re della ghiaia e del cemento, il costruttore dell’Empire State Building, l’inventore del Columbus Day, il socio d’affari di Frank Costello. Tutti loro lo avevano come nemico giurato, contro l’uno e contro l’altro Carlo Tresca non aveva mai perso una battaglia, ed era un bersaglio perfetto, era un uomo che rifiutava protezione, poteva essere colpito a piacere. Tutti sapevano e nessuno pagò. (cap. V)

Explicit modifica

La mia sposa torna a toccarmi la mano, è ora di andare, la zuppa vuole il suo tempo. Ci metteremo a tavola e sarà ancora una volta il momento di nutrirci, come le seppie e il cavolo siamo cibo, cenando renderemo grazie l’un l’altro. Per questo non ci sono debiti tra noi, ma solo grazia, solo doni. Non fosse così sarei schiacciato da tutto ciò che le dovrei.

Coronata di Genova, 1° ottobre 2018

Borgo Tulipano, 26 marzo 2021

Il coraggio del pettirosso modifica

Incipit modifica

Mi chiamo Saverio e racconto questa storia perché è così che vuole il dottor Modrian.
Difficile capire se è roba interessante, difficile anche supporre se quello che scrivo uscirà prima o poi di qui; per questo mi rivolgerò a una seconda persona plurale alquanto improbabile. Dirò: "adesso state a sentire questa" oppure "voi vi starete chiedendo..." e intanto sarò intimamente preso dal dubbio che non ci sarà nessun voi. Dire così mi aiuta, ecco tutto; mi fa compagnia, e dio sa se ne ho bisogno. Del resto è un atteggiamento a cui sono già per certi versi abituato.

Citazioni modifica

  • La Via Romana ha segato in due le genti e ha separato un destino e lo ha reso singolare nei secoli dei secoli. Questo è successo, e da quando ero bambino è stata cura di mio padre indicarmi per prima cosa il metro per misurare le distanze e le differenze. Di qua e di là. Semplice: da una parte noi, i libertari dell’anarchia, i montanari col cuore grosso, i cavatori indomiti, i braccianti senza terra; dall’altra i fascisti, i contadini egoisti e grassi, gli avvocati dei padroni. E se non avevo provveduto io a farmene una ragione, ci pensavano i figli di quelli di là a ricordarmelo, a furia di sassi, di gragnuolate, di prendingiro.

Incipit di alcune opere modifica

È stata una vertigine modifica

Un uomo ha nel cuore una canzone d'amore. Quell'uomo va in giro con la sua canzone notte e giorno, e lui e lei sono una cosa sola, come lo può essere una coppia di cocorite nella gabbia sul poggiolo, un vagabondo e i suoi fagotti per strada. La canzone è ormai vecchia come l'uomo, così che tutti e due vanno ormai per i cinquanta. In marcia stretti l'uno all'altra, come stretti per la vita sono due esseri che crescono assieme.

Vi ho già tutti sognati una volta modifica

E sono qui in questa casa sulla via Fiume come un morto a scrivere, mentre fuori quello che mi tocca della città sta fumando a come dio la manda i respiri delle diciannove e venti. Chi fiata? Qualcuno ha fiatato tra le scoregge nella via? No, io non ho aperto bocca.[11]

Note modifica

  1. a b Da Come è stato bello perdersi a Genova, Il Secolo XIX, 16 settembre 2012, p. 44
  2. Da Storia vera di un Natale da niente, Rep.repubblica.it, 24 dicembre 2018.
  3. Da Storia di una foto L’amore partigiano nel campo nazista, la Repubblica, 24 agosto 2019, pp. 36-37.
  4. Da Angeli, op. cit., p. 23
  5. Da Grafica Veneta, Maurizio Maggiani: "La rabbia e la vergogna per i miei romanzi stampati dagli schiavi", Repubblica.it, 27 luglio 2021.
  6. Da Angeli, op. cit., pp. 23-24
  7. Da Il kantiano mite che disse no al fascismo, Rep.repubblica.it, 21 agosto 2018.
  8. Da Il coraggio del pettirosso
  9. Da Anna e Andrea separati solo dallo stradario, Rep.repubblica.it, 7 settembre 2018.
  10. Da Antifascismo è non dire mai “me ne frego”, Rep.repubblica.it, 20 novembre 2018.
  11. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia modifica

  • Maurizio Maggiani, Il coraggio del pettirosso, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1995.
  • Maurizio Maggiani, La regina disadorna, Feltrinelli, Milano, 2000. ISBN 88-07-81593-1
  • Maurizio Maggiani, È stata una vertigine, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2003.
  • Maurizio Maggiani, Il viaggiatore notturno, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2005.
  • Maurizio Maggiani, Angeli, in Marcello Fois (a cura di), Undici per la Liguria, Einaudi, Torino, 2015. ISBN 978-88-06-22668-8
  • Maurizio Maggiani, Il romanzo della nazione, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2015.
  • Maurizio Maggiani, L'amore, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2018. ISBN 9788858833223
  • Maurizio Maggiani, L’eterna gioventù, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2021

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