Pietro Aretino: differenze tra le versioni

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*Essendo, signor mio, maggior la felicità del [[dono|donare]] che quella del ricevere, io ho caro fuor di modo che dal presente de gli scudi de la impresa e del saio di raso bianco che mi fate, nasca in voi il sommo grado de la consolazione. Ed è vostra gran ventura che tanto possa la vertù de la cortesia; perché facendo voi l'essercizio de la liberalità nel donar continuo, continuamente siete felice. Per la qual cosa farei ingiuria a la Signoria Vostra prolungandomi in ringraziarla di quello che, per avere accettato i suoi doni, merito di esser ringraziato io. (Da ''Al conte Guido Rangone'', p. 14)
*Io, per dono de la [[cortesia]] che mi ha legato con le catene de la gentilezza, dico che sete quella che mi pareva impossibile che voi foste; né mi curo più che mi si faccia fede de le grazie che celestemente vi fregiano, perché dove è la cortesia sono tutti i tesori e le stelle, e senza lei è nulla qualunque grado di vertù in donna o uomo sia. (Da ''A la signora Flaminia'', pp. 127-128)
*[...] la mia stizza si dilegua col fume de le parole e fornisco di adirarmi come ho fornito di parlare; onde mi è forza poi (bontà de la natura benigna che mi ha in preda) di chieder perdono fino a chi mi offende, e ogni piccola somessione che usino i miei crocifissori mi trae le lagrime dal core non che da gli occhi. Ecco Antonio Brocardo che mi muore nimico, e io scrivo sonetti per onorar de la sua memoria. (Da ''A messer Giulio Tancredi'', p. 325)
*Ma Dio lo perdoni a chi assassina me, che do a ognuno quel che io ho! Per ciò mai niente ho né aver, se non cambio vezzo. La qual cosa non è possibile, perch'io ebbi la [[prodigalità]] per dota, come la maggior parte de gli uomini ha l'[[avarizia]]; ed è chiaro che i prodighi spendano ogni cosa in un tratto, come avessero a vivere un dì, e gli avari non ispendano mai cosa alcuna, come avessero a viver sempre. (Da ''Al signor Giambattista Castaldo'', pp. 128-129)
*O turba errante, io ti dico e ridico che la [[poesia]] è un ghiribizzo de la natura ne le sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un campanel senza campane. (Da A messer Lodovico Dolce'', p. 193)