Arnaldo Cipolla: differenze tra le versioni

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*Menelik checchè se ne dica lascerà l'Abissinia ben poco differente dal punto di vista dell'unità nazionale da quello che era agli inizi del suo regno. L'amalgama dei cento popoli compresi entro i confini dell'impero è apparente, incerta, come lo era venticinque anni or sono. Il prestigio personale dell'Imperatore ha sopito le cause di conflagrazione interna, ma non le ha certo neutralizzate, e dato che nessuna nazione europea ha per ora nelle sue vedute, l'idea di attentare alla integrità dell'impero, rimane senz'altro scartata la possibilità di una provocazione che riesca a suscitare un movimento simile a quello verificatosi nel novantasei contro di noi. Al giorno d'oggi scioani, galla, tigrini ed amhara si odiano non meno profondamente di come si odiavano per il passato. (pp. 19-20)
*Menelik aveva compreso che la condizione essenziale per la salvezza del suo stato stava nella assimilazione delle forme civili e fece quanto di meglio potè per imporle ai suoi popoli. (p. 26)
*Al colle dello Scudo d'oro ci si affaccia sull'immensa, ubertosa e ridente conca di [[Adua]]. Non vi è nulla che possa riprodurre il contrasto fra quell'impareggiabile bellezza di paesaggio e il ricordo tragico della battaglia che le impervie altissime ambe limitanti ad oriente l'orizzonte sembrano materializzare per l'eternità. (p. 32)
*L'interno di Adua, capitale del Tigrai, è quello che in brutto, costituisce l'interno di una cittaduzza araba; straducole dove si stenta a passare a cavallo, qualche stravagante costruzione in pietra che fa l'ufficio di chiesa, dinanzi alla quale i componenti della carovana si arrestano per genuflettersi e baciare la rozza porta di canne; una distesa disordinata di capanne, un gran numero di recinti conventuali, una spianata sconnessa del mercato, una quantità spaventosa di cani e tre europei residenti. E basta. Ma all'infuori dei cani, autori gratuiti di una costante e infernale sinfonia notturna, il soggiorno vi è dolcissimo per la mitezza del clima e la bellezza della campagna circostante. (pp. 33-34)
*Chi ha vissuto in Abissinia, chi ha conosciuto quel popolo, chi ha visto ed ha percorso il campo di Adua, sa benissimo che noi eravamo sufficienti per vincere. Immenso, immenso quel campo, tale da accogliere non quattro brigate combattenti, ma quattro corpi di armata addirittura. E quella sproporzione tra l'enormità della distesa delle posizioni e l'esiguità del nostro corpo di operazioni è stata la ragione prima dell'insuccesso. Lasciamo le altre. Che vale oramai parlare dell'insipienza dei capi, dell'ingiustizia della fatalità? L'Italia conosce a menadito quella storia. Oramai a che servirebbe, sopratutto quando si pensa che anche la sconfitta non ebbe mai un valore capitale e che nessuno dopo quella giornata ci sbarrava il cammino, ma che noi avevamo innanzi un esercito in piena rotta, decimato oltre che dagli effetti delle nostre armi, da una folla di altre cause di disgregazione? (p. 54)
*Non c'è un solo villaggio nell'Abissinia settentrionale e centrale che non ricordi vittime perdute ad Adua. È per questo che il sentimento che ha lasciato la sconfitta nello spirito abissino non è affatto di disprezzo verso di noi. Gli abissini hanno compreso di averci vinto perché ci hanno sorpreso in piena manovra. (p. 57)