Guerra in Bosnia ed Erzegovina: differenze tra le versioni

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*La guerra in Bosnia Erzegovina non era evitabile, nemmeno se fossimo rimasti in quella Jugoslavia. Sarebbe iniziato sicuramente uno scontro serbo-croato sul nostro territorio, e anche così il paese sarebbe stato devastato, la gente sarebbe morta e i bosgnacchi sarebbero diventati carne da cannone tra i due belligeranti. ([[Alija Izetbegović]])
*La mia strategia mirava alla salvaguardia della Bosnia Erzegovina come paese nella sua interezza. Questa è stata una costante di tutte le mie azioni ed esistono centinaia di fatti che lo provano, sia nelle trattative di pace che sono durate tutto il tempo della guerra, sia in tutti i miei interventi, a cominciare da quelli presso l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite fino ai discorsi fatti all'estero. Per l'integrità della Bosnia Erzegovina abbiamo rischiato molto, abbiamo accettato un governo straniero, un doloroso protettorato sul paese, che ad oggi colpisce soprattutto i bosgnacchi. Non abbiamo mostrato un egoismo nazionale, volevamo la Bosnia. Questa è stata la strategia e, quando la strategia è giusta, sul piano tattico molto è concesso e quindi anche sondare i reali propositi degli altri. ([[Alija Izetbegović]])
 
===[[Bernardo Valli]]===
*{{NDR|Sugli abitanti di Sarajevo}} Per loro le incursioni della Nato sono la mano tesa dell'Occidente a lungo disperatamente aspettata. Sono la promessa di una vita normale, anche se le bombe serbe continuano a piovere sulla città. Ma al di là della tragedia umana, Sarajevo ha assunto negli ultimi tre anni e mezzo un grande valore. È stata il simbolo concreto di una società in cui convivevano musulmani, cattolici (croati) e ortodossi (serbi). Nella tempesta alimentata dai due grandi nazionalismi balcanici, i cui epicentri sono Zagabria e Belgrado, la città assediata ha saputo restare sostanzialmente fedele ai suoi principi, malgrado le passioni e gli imperativi militari.
*Sarajevo era il principale ostaggio dei Serbi. La città era demoralizzata, sfiancata, angosciata dall'idea di affrontare un nuovo inverno senza luce, senza nafta, sotto il tiro dei cecchini e degli artiglieri serbi, appostati sulle montagne come sulle scalinate di un anfiteatro.
*Sulla soglia del quarto inverno d'assedio, quella città, simbolo insanguinato del nostro secolo, comincia a intravedere uno spiraglio. Non ci si può stupire e ancor meno ci si può indignare se la breccia viene aperta, scavata con il ferro e il fuoco. Per spegnere la violenza insensata degli assedianti era ed è indispensabile la violenza della ragione. La coscienza l'invocava da un pezzo, ma c'è voluto un bel po' di tempo perché si creassero le condizioni per un impiego razionale, giusto della forza vera. L'Europa incerta, divisa, non ne aveva i mezzi. L'America li aveva ma non era disposta a correre rischi. Sarajevo ha pagato duramente il prezzo della lunga esitazione dell'Occidente, sorpreso dalla crisi nell'ex Jugoslavia mentre era nel mezzo del guado tra la guerra fredda e il postcomunismo. Sarebbe meglio, sarebbe più nobile poter dire che il sangue delle vittime del mercato coperto di Sarajevo, schizzato sui nostri teleschermi lunedì, ha fatto traboccare il vaso del sopportabile, e che per questo sono decollati i bombardieri della Nato.
 
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