Indro Montanelli e Mario Cervi: differenze tra le versioni

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*La sera del 28 dicembre [[Giuseppe Saragat]] diventò Presidente con 646 voti su 927 votanti (150 schede bianche per almeno due terzi democristiane), 9 liberali insistettero sul nome del loro presidente [[Gaetano Martino]], e i missini su quello di [[Augusto De Marsanich]]. I sette dissenzienti socialdemocratici si pronunciarono per Paolo Rossi. Come osservò il ''Times'', «l'uomo migliore era stato scelto nel modo peggiore». Migliore certo di tantissimi altri, ma imprevedibile. Con atteggiamento ispirato aveva detto a [[Pietro Nenni|Nenni]], pochi momenti prima dell'ultima votazione: «Gente come te e come me, al Quirinale, se c'è una sommossa di destra, spara: se ce n'e una di sinistra, si spara». Per sua buona fortuna gli mancò l'occasione di confermare, nei fatti, la validità dell'assunto. (p. 266)
*Il dialogo con Saragat non era mai altro che un monologo di Saragat. Quella che nell'ordinaria amministrazione era la sua debolezza, fu la sua forza nel momento dell'emergenza. Solo un uomo impermeabile alle voci altrui poteva affrontare i comizi e sfidare le piazze del 1947-48, schiumanti di rabbia e di odio contro di lui, il socialfascista, il socialtraditore, il rinnegato. Impassibile sotto quell'uragano, Saragat svolgeva le sue argomentazioni: asciutte, serrate, senza concessioni alla retorica tribunizia. Non si può dire che Saragat si fosse fatto ripagare il grande servigio reso alla democrazia in sostanziose fette di potere. Nei vari Ministeri che occupò, aveva brillato per la sua assenza. Anche come capo del Psdi lasciava alquanto desiderare. Forte del fatto di averlo inventato lui, e di schiacciare con la sua personalità quella di tutti gli altri, se ne curava poco. S'era sempre considerato parecchie spanne al di sopra della ''nomenklatura'', e lo era specie sul piano culturale. L'unica carica che considerava all'altezza della sua altezza, e per la quale veramente si era battuto, era la Presidenza della Repubblica. Al primo tentativo aveva fallito. Al secondo, come sappiamo, riuscì. Purtroppo sappiamo anche in quale modo tortuoso riuscì. Ma le elezioni passano presto, i Presidenti durano sette anni. Saragat sarà un buon Presidente. (p. 267)
*Sappiamo che tra gli intimi di Fanfani era – anche qui purtroppo – [[Giorgio La Pira]], pacifista ecumenico e politico confusionario. Il «santo» siculo-fiorentino era riuscito a raggiungere Hanoi, e vi si era intrattenuto con il ''leader'' nordvietnamita [[Ho Chi Minh|Ho Ci Min]]. Quale che fosse stata la capacità di comprensione tra i due che parlavano linguaggi così diversi – e non soltanto in senso semantico – La Pira ebbe l'impressione che Ho Ci Min fosse disposto a trattare con gli americani rinunciando alla precondizione del ritiro dei loro soldati. Di ciò che La Pira gli aveva scritto – inframmezzandolo con citazioni bibliche e invocazioni alla Madonna – Fanfani inviò un riassunto al Presidente americano [[Lyndon B. Johnson|Johnson]]. Ma La Pira, che fremeva in attesa di reazioni, anticipò ogni eventuale risposta della Casa Bianca lasciando trapelare indiscrezioni sulla sua «missione». Ne risultò un pasticcio, e il fondato sospetto degli Usa e di altri alleati occidentali che l'Italia avesse due politiche estere, quella del Governo (e di Fanfani come ministro) e quella di La Pira (e di Fanfani come Presidente dell'Onu): la seconda favorevole a un negoziato di pace ad ogni costo nel Vietnam e all'ammissione della [[Cina]] nelle Nazioni Unite. (p. 274)
*L'Italia dei due Giovanni fu insieme l'erede – non sempre degna – di [[Alcide De Gasperi|De Gasperi]], e l'incubatrice degli [[anni di piombo|anni di violenza e di piombo]]. Fu l'una e l'altra cosa in maniera stagnante, opaca, confusa e in larga misura inconsapevole. Gli uomini che si avvicendarono sulla scena politica, anche i migliori, ebbero intuizioni di largo respiro, come il passaggio dei socialisti dall'opposizione al Governo, ma non videro né capirono i veri fermenti e le peggiori insidie che covavano nel corpo del Paese. Attento alle grandi o piccole manovre d'anticamera e di corridoio, il Palazzo aveva, o così parve, le finestre chiuse. Quando le aprì, allarmato dal clamore, era già '68. (p. 279)