Mario Praz: differenze tra le versioni

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*[...] [[democrazia]], degli scioperi, della grande macchina di mille congegni che dovrebbe domani garantire un mediocre benessere a tutti e un'inedia peggiore dell'inferno a chi non sappia adeguarsi al livello della massa.<ref>Da ''Viaggi in Occidente'', Sansoni, Firenze, 1955 p. 198.</ref>
*Di fronte a quel grande orizzonte campestre, tra le statue atteggiate in gesti lenti e solenni, sta una sola creatura viva, un cane: un cane del principe Jusùpov, una creatura che in tutt'altre circostanze sarebbe insignificante. Ma lì quella presenza animalesca sembra gravarsi d'un significato. È come se dicesse: «Quand'io ero qui, l'agio e il lusso regnavano; i giovani gentiluomini non avevano nulla da fare, giocavano coi loro cani, e i cani stavano bene. I granduchi giravano le capitali d'Europa circondati dagli omaggi che già eran toccati ai lord inglesi, e poi dovevan toccare ai plutocrati americani; la Riviera narrava il loro fasto; essi parevano splendidi e imperituri come la malachite che ornava i loro mobili. Quand'io ero qui, il cane di Jusùpov valeva molto di più dell'anonimo servitorame».<ref name=nuovantologia34/>
*Di una rinascita dell'epopea nei tempi moderni non si può parlare in realtà che dal 1954-55 quando [[John Ronald Reuel Tolkien]], un professore di Oxford di anglosassone e d'inglese medievale, pubblicò la trilogia del ''Lord of the Rings''. [...] Egli non cerca di convertire il male con l'esempio della virtù, come fa Shelley, ma vuol debellarlo e «I draghi di Tolkien», scrive Zolla, «non sono da assimilare, da sentire in qualche modo fratelli, ma da annientare», onde la protesta dell'''intellighentia'' d'oggi, per bocca di Auden, che osservò a proposito del Signore che non esistono esseri che obbediscano al Male assoluto, che non è possibile che una specie dotata di parola e perciò capace di scelta morale sia malvagia per natura. E se, dopo tutto, il mondo in bianco e in nero delle fiabe con un eroe buono (Frodo) e un antieroe malvagio (il re di Mordor), un mago buono (Gandalf) e un mago cattivo (Saruman, convertito al male come Lucifero in Satana), fosse più vicino alla realtà di quanto non lo sia il relativismo dell'Apostolo della mediocrità che oggi piace ai più d'accettare? Il mondo favoloso di Tolkien, che conosce la gaiezza e la facondia di canti del buon popolo degli Hobbit (elfi alti quattro piedi, in cui si legge in trasparenza la bonomia non disgiunta da ostinata prodezza del popolo inglese idealizzato secondo una formula Chesterton-Belloc, cattolici come Tolkien), ma anche truci popolazioni di Orchetti e di Cavalieri Neri, che vedon solo di notte e hanno un odorato finissimo, ed esseri viscidi e crudeli come quella reincarnazione di Caliban e del nano Alberico che è Gollum, il primitivo detentore dell'anello che dà il dominio del mondo. Ma la virtù di questo epos in prosa non sta tanto in una galleria ben caratterizzata di personaggi maschili (delle creature femminili solo Shelob è convincente, ma è un mostro), quanto soprattutto nella vicenda, la distruzione del fatale anello, non indegna di figurare accanto alla ricerca del Graal e l'affondamento del tesoro simbolo di potenza, nel Reno da parte di Hagen nella Saga dei Nibelunghi; sta nell'incalzare degli avvenimenti, nelle atmosfere serene e più spesso sinistre, d'una vastità coreografica che fa pensare agli apocalittici quadri di John Martin, e nel non dichiarato ma pervadente afflato metafisico che fa passar sopra alle occasionali velleità di «alto stile», e a certi scivolamenti nel sentimentale, il solo peccato veramente imperdonabile agli occhi degli smaliziati moderni.<ref>Da ''Rigenerazione dell'epica'', ''Il Tempo'', 28 novembre 1970, p. 3.</ref>
*E se ne erano accorti [[Giovanni Papini|Papini]] e [[Domenico Giuliotti|Giuliotti]] quando nel 1923 scrivevano nel ''Dizionario dell'Uomo Selvatico'' che «l'orribile mostro {{NDR|[[treno]]}} mescolando gli uomini delle diverse nazioni ha fatto sì che meglio conoscendosi più ferocemente si odiassero e più abbondantemente si scannassero».<ref>Da ''Fiori freschi'', Garzanti, Milano, 1982, p. 165.</ref>
*È stata mai fatta un'antologia di ciò che gli stranieri hanno pensato degl'italiani attraverso i secoli, e di ciò che pensano oggi? Non mi risulta, e non vedo d'altronde persone che potrebbero meglio farla d'un [[Giuseppe Prezzolini]] o di un [[Piero Buscaroli]], il cui recente scritto "Perché gli italiani sono antipatici" mi sembra sufficiente arra di buon successo in una tale ricerca.<ref>Da ''Cronache letterarie anglosassoni vol. III'', Edizioni di storia e letteratura, 1966, Roma, p. 149.</ref>
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*Non c'è quasi varietà di paesaggio nel mondo che non si trovi in [[Italia]], e non c'è quasi aspetto d'Italia, montano, ubertoso o desolato, che non si ritrovi in miniatura nelle sue isole, la Sicilia e la Corsica: ma dove l'arte dell'uomo ha posto il suo suggello, il luogo, per vario che sia, cessa di richiamare aspetti esotici, per assumere un volto inequivocabilmente italiano.<ref>Da ''I mostri di Bomarzo'', ''Il Tempo'', 17 novembre 1949.</ref>
*Non è che una rustica colazione quella che si può fare presso le rovine di Veio, in una capanna da cui s'ode il crosciare dell'acqua, ma quell'aria d'eternità, di mondo dei primi tempi che lì si respira, è tale condimento che vale ogni più squisito desinare. Le ore del pomeriggio si facevano d'un oro più carico, e son queste le ore più belle tra le rovine. A un certo momento sarebbe stato necessario tornare alle vie sui cui lati le automobili stan fitte come le piattole negl'interstizi dei muri, ai negozi dove si vendono prodotti vistosi ed effimeri, a quelle tante manifestazioni che si chiamano di vita, mentre la vita è qui, in luoghi come Veio, su cui s'indugia ancora l'alito dei numi.<ref>Da ''‪La Casa della vita‬'', Adelphi, Milano, 1979, p. 54.</ref>
*Oggi Julio Le Parc lancia un forte appello per demitologizzare l'arte tradizionale; sarebbe il caso piuttosto di ridimensionare la paraarte e di riconoscere col Sedlmayr che «il trattamento tecnicamente virtuosistico di un materiale di fabbricazione non produce alcuna opera d'arte bensì un gioco della tecnica» [...] come non dare ragione al Sedlmayr quando deplora che l'arte abbia abbandonato Dio e si sia messa al servizio di un idolo, nella fattispecie, se non proprio della luciferina autosufficienza dell'uomo, certo della Scienza, come nel romanticismo aveva messo sugli altari la Natura.<ref>Da ''Trionfo dell'automa'', ''Il Tempo'', 11 ottobre 1970, p. 3.</ref>
*Ogni [[labirinto]] ha un centro sacro, dove risiede il mistero ineffabile: questo può essere raffigurato anche come una torre, un castello, una città celeste; la matrice è rappresentata come una città (metropoli) o fortezza che deve essere conquistata.<ref>Da ''Il Giardino dei sensi: studi sul manierismo e il barocco'', Mondadori, Milano, 1975, p. 61.</ref>
*Oltre ad essere quanto di più lontano si potrebbe immaginare dallo spirito della gioventù d'oggi, [[Charles Lamb]] possedeva un'altra peculiarità che pochi dei giovani d'oggi condividerebbero: non era uno scrittore impegnato. [...] Il Lamb ricorda la fine delle guerre napoleoniche perché Hyde Park è profanato dalle baracche in occasione delle feste per la pace tra Inghilterra e Francia; il malcontento sociale che intorno al 1830 provocò l'incendiarismo nelle campagne fece scrivere al Lamb, in una lettera a un amico: «Le cose non sono andate più bene per l'Inghilterra da quando i poveri si son messi a riflettere sulle loro condizioni...». Queste frasi, e un'altra di trent'anni prima: «Le pubbliche faccende – a meno che non mi tocchino direttamente e così si tramutino in private – non posso sforzare l'animo mio a provarci alcun interesse», ci confermano nell'idea che nessuno dei giovani d'oggi si sentirà invogliato a leggere questo classico dell'umorismo.<ref>Da ''Centenario di Charles Lamb. L'idillio in pantofole'', ''Il Giornale'', 9 febbraio 1975.</ref>