Indro Montanelli e Mario Cervi: differenze tra le versioni

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*Esistevano le condizioni tecniche per il colpo di grazia al nascente terrorismo: mancavano invece le condizioni politiche. Tutta la sinistra «legale» si strappava le vesti non per l'apparire alla ribalta del Partito armato, ma per le già avvenute o possibili prevaricazioni della polizia contro inoffensivi e benintenzionati, anche se turbolenti, apostoli della rivoluzione. Non il Partito armato faceva paura, ma la Polizia armata; della quale infatti si chiedeva a gran voce, in cortei e manifestazioni, il disarmo. Tutti i firmatari di manifesti, tutti i politici timorosi di rimanere in retroguardia (e ve n'erano anche nello schieramento di governo, e nella Dc) minimizzavano la minaccia delle «fantomatiche» [[Brigate Rosse|Brigate rosse]], ed enfatizzavano invece quella dei gruppi neofascisti o neonazisti.
*All'anagrafe [[Bettino Craxi]] risultava chiamarsi Benedetto, che è, osserverà malignamente qualcuno, l'equivalente italiano di Benito. Milanese di nascita, siciliano per parte di padre, Craxi aveva fatto l'apprendistato di dirigente socialista prima nella sua città, e poi, a livello nazionale, come vicesegretario del Partito. Un ''apparatchik'' cui tutti riconoscevano doti d'efficienza e di pragmatismo, e a cui pochissimi erano invece disposti a riconoscere le qualità che fanno d'un funzionario un buon politico. (pp. 221-222)
*Il giovane dirigente non era mai stato di quelli che ispirano simpatia a prima vista. Intanto perché con il suo metro e novanta di statura era sconsideratamente alto in un universo politico folto di bassotti, a cominciare dal Presidente della Repubblica [[Giovanni Leone]], e da Amintore Fanfani. Oltre che alto, era massiccio, un po' goffo, con una calvizie precoce e una faccia paffuta dove il piccolo naso era sormontato dagli occhiali dalla montatura spessa, e la mascella era forte (Forattini tradurrà quel forte, con tratti implacabili, in mussoliniana). Parlava lento, riflettendo su ogni frase, e raramente attenendosi alle banalità pensose di cui i politici si compiacciono. Diceva, di solito, cose concrete su problemi precisi: non le diceva con grazia, anzi aveva il vizio o il vezzo d'una certa brutalità. (p. 222)
*Non erano mancati nel suo passato le sbandate populiste con cui ogni socialista paga pedaggio alla storia del Partito: ma negli anni del declino nenniano era stato molto vicino al patriarca del Psi, e aveva capeggiato la corrente autonomista, minoritaria. Amava le citazioni, anche raffinate, ma nella quotidianità le sue frequentazioni culturali erano piuttosto mondano-salottiere. Arrivato al vertice del Psi soprattutto perché gli altri notabili e capicorrente si elidevano a vicenda, Craxi fu considerato all'inizio un uomo di ripiego, che non impensieriva i «grandi» proprio per la carriera in qualche modo burocratica, e per l'assenza d'un retroterra umano e ideologico il cui spessore potesse essere anche lontanamente paragonato a quello dei Nenni, dei Lombardi, dei Basso, degli stessi De Martino e Mancini. (p. 223)
*La primavera del 1975 era stata a Milano, capitale dell'eversione, tremenda. Il 13 marzo 1975 un ''commando'' di Avanguardia operaia aveva massacrato a colpi di chiave inglese lo studente diciassettenne Sergio Ramelli, aggredito sotto casa sua all'Ortica (un quartiere periferico milanese) mentre parcheggiava il ciclomotore. Ramelli era un simpatizzante dell'estrema destra: per questo nell'istituto tecnico industriale Molinari, dove studiava, l'avevano sottoposto a un «processo» assembleare, e costretto a cambiare scuola. I fanatici che lo perseguitavano non ne furono appagati. Radunatisi nei locali della facoltà di Medicina dell'Università Statale – dove la facevano da padroni – decisero di «dare una lezione» al ragazzo. La «lezione» gli costò la vita, Ramelli morì dopo oltre un mese di agonia (elementi della stessa Avanguardia operaia assalirono con bottiglie Molotov, biglie, spranghe un bar milanese frequentato dai «neri», e di «neri» o presunti tali ne ferirono seriamente sette). Nei covi dell'eversione si auspicò che la marcia rivoluzionaria annoverasse «cento, mille, centomila Ramelli». Morti, ovviamente. Dieci anni dopo l'agguato a Ramelli i suoi uccisori furono individuati e arrestati: alcuni resero piena confessione. Erano quasi tutti ex-studenti di Medicina che, approdati alla laurea, avevano per lo più trovato posto in strutture sanitarie pubbliche. Professionisti rispettati, con famiglia, anche se uno di loro era rimasto in politica, come dirigente di Democrazia proletaria. Le condanne furono abbastanza severe: dagli undici anni per i «capi» della squadraccia a sei anni per i gregari. Così come per l'omicidio di Calabresi, anche per questo di Ramelli apparve scioccante, negli imputati, l'apparente estraneità psicologica e anche ideologica alla cieca e sanguinaria furia del tempo in cui imperava la legge della chiave inglese. (pp. 251-252)
*Il 16 aprile successivo (1975) un neofascista noto, Antonio Braggion, uccise con un colpo di pistola uno studente – anche lui, come Ramelli, diciassettenne – Claudio Varalli. Quasi tutta la stampa invocò una pena durissima, e quando fu pronunciata la sentenza la sinistra protestò rumorosamente perché era stata – sostenne – troppo mite. I fatti furono così ricostruiti: un gruppo di studenti reduci da una manifestazione contestataria aveva avvistato, in piazza Cavour a Milano, tre neofascisti: due erano scappati, il terzo, appunto il Braggion, oltretutto impedito nei movimenti perché zoppicava, s'era rifugiato nella sua auto, parcheggiata lì vicino. Il gruppo gli era piombato addosso, ed aveva cominciato a tempestare con le aste delle bandiere o con altro la vettura, infrangendone il lunotto posteriore. Allora il terrorizzato Braggion, che teneva una pistola nell'auto, l'aveva impugnata e aveva sparato centrando uno degli assalitori, appunto Claudio Varalli. Questo era tanto vero che la Corte d'Assise inflisse in primo grado al Braggion cinque anni per eccesso colposo di legittima difesa e cinque per possesso abusivo d'arma: in secondo grado la condanna fu di tre anni e tre mesi, per gli stessi reati. I giudici seppero resistere ad una pressione politica, di stampa e di piazza, che avrebbe voluto fosse disconosciuto il fatto, evidente, che l'omicida non aveva aggredito, ma era stato aggredito. (pp. 252-253)