Indro Montanelli e Mario Cervi: differenze tra le versioni

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====Citazioni====
*Gli anni che precedettero quelli di piombo furono piuttosto anni di gomma. La situazione politica era insieme statica e friabile, con maggioranze parlamentari ognuna sempre simile alla precedente e sempre pericolanti, con governi protesi a parole verso ambiziosi traguardi e nella realtà impegnati a risolvere quotidiani bisticci di meschina bottega. I partiti maggiori erano affidati a ''leaders'' di non consolidato e contestabile prestigio, tranne uno: il Psi con [[Pietro Nenni]]. (p. 9)
*Per quanto riguardava specificamente l'Italia il [[Organizzazione Gladio|progetto]] cominciò a prender corpo, il 26 novembre 1956, con un accordo tra il Sifar, ossia i servizi segreti italiani, e la Cia, ossia i servizi segreti statunitensi. La rete clandestina post-occupazione fu battezzata ufficialmente ''stay behind'', stare indietro, e nel gergo corrente di chi della rete si occupava, Gladio. Il nome non era molto indovinato: proprio il gladio era stato adottato dalla Repubblica di Salò per sostituire le stellette. Chi lo riesumò aveva la memoria troppo corta. O troppo lunga. Nel '59 l’Italial'Italia fu chiamata a partecipare, accanto a [[Stati Uniti d'America|Usa]], [[Inghilterra|Gran Bretagna]] e [[Francia]], ai lavori del Comitato clandestino di pianificazione che, in ambito Nato, studiava le contromosse per il dopo-invasione. Sotto la guida del generale De Lorenzo il Sifar procedette dunque all'arruolamento dei gladiatori: tutta gente che «per età, sesso ed occupazione avesse buone possibilità di sfuggire ad eventuali deportazioni ed internamenti». (pp. 48-49)
*Quando l'esistenza di Gladio è diventata di dominio pubblico [[Francesco Cossiga|Cossiga]] e [[Giulio Andreotti|Andreotti]] hanno ripetuto che l'organizzazione aveva, in tempi di guerra fredda, scopi pienamente conformi all'interesse nazionale. La sorpresa ostentata da molte parti politiche per la scoperta di Gladio è del resto poco credibile. Se n'era parlato molto – pur senza specificare il nome dell'organizzazione – negli anni precedenti. Ma a quel punto – estate del 1990 – Gladio divenne un'arma preziosa per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dallo sfascio della ideologia e dei partiti comunisti, e per avvalorare la tesi che l'Italia fosse vissuta in una falsa democrazia, viziata da presenze poliziesche, autoritarie e golpiste. (pp. 54-55)
*La mattina della vigilia di Natale [[Giovanni Leone|Leone]] fu eletto con 518 voti, Nenni ne raccolse 418. Mentre Pertini faceva lo spoglio delle schede, avendo al fianco un accigliato Fanfani, ci fu ''suspense'' fino a quando il nome di Leone risuonò per la cinquecentesima volta. Allora dalle schiere Dc si levò un applauso, e l'irascibile Pertini, che possedeva imprevedibili riserve d'umorismo tagliente, disse: «Dato che ancora non ho proclamato eletto nessuno, devo supporre, onorevoli colleghi, che il vostro applauso sia diretto ai vostri due copresidenti. Ve ne ringrazio anche a nome del Presidente Fanfani, ma vi invito a consentirmi di proseguire nello scrutinio». Le cifre di quest'ultima votazione furono passate al microscopio, con intenti polemici, da socialisti e comunisti: i quali sostennero che a Leone (benché in teoria la coalizione Dc, Pli, Pri, Psdi, fosse in grado di eleggerlo autonomamente) fossero serviti i voti missini, essendogliene mancato un buon numero di democristiani, una sessantina. (pp. 166-167)
*Esistevano le condizioni tecniche per il colpo di grazia al nascente terrorismo: mancavano invece le condizioni politiche. Tutta la sinistra «legale» si strappava le vesti non per l'apparire alla ribalta del Partito armato, ma per le già avvenute o possibili prevaricazioni della polizia contro inoffensivi e benintenzionati, anche se turbolenti, apostoli della rivoluzione. Non il Partito armato faceva paura, ma la Polizia armata; della quale infatti si chiedeva a gran voce, in cortei e manifestazioni, il disarmo. Tutti i firmatari di manifesti, tutti i politici timorosi di rimanere in retroguardia (e ve n'erano anche nello schieramento di governo, e nella Dc) minimizzavano la minaccia delle «fantomatiche» [[Brigate Rosse|Brigate rosse]], ed enfatizzavano invece quella dei gruppi neofascisti o neonazisti.
*All'anagrafe [[Bettino Craxi]] risultava chiamarsi Benedetto, che è, osserverà malignamente qualcuno, l'equivalente italiano di Benito. Milanese di nascita, siciliano per parte di padre, Craxi aveva fatto l'apprendistato di dirigente socialista prima nella sua città, e poi, a livello nazionale, come vicesegretario del Partito. Un ''apparatchik'' cui tutti riconoscevano doti d'efficienza e di pragmatismo, e a cui pochissimi erano invece disposti a riconoscere le qualità che fanno d'un funzionario un buon politico. (pp. 221-222)
*Il giovane dirigente non era mai stato di quelli che ispirano simpatia a prima vista. Intanto perché con il suo metro e novanta di statura era sconsideratamente alto in un universo politico folto di bassotti, a cominciare dal Presidente della Repubblica [[Giovanni Leone]], e da Amintore Fanfani. Oltre che alto, era massiccio, un po' goffo, con una calvizie precoce e una faccia paffuta dove il piccolo naso era sormontato dagli occhiali dalla montatura spessa, e la mascella era forte (Forattini tradurrà quel forte, con tratti implacabili, in mussoliniana). Parlava lento, riflettendo su ogni frase, e raramente attenendosi alle banalità pensose di cui i politici si compiacciono. Diceva, di solito, cose concrete su problemi precisi: non le diceva con grazia, anzi aveva il vizio o il vezzo d'una certa brutalità.
*Non erano mancati nel suo passato le sbandate populiste con cui ogni socialista paga pedaggio alla storia del Partito: ma negli anni del declino nenniano era stato molto vicino al patriarca del Psi, e aveva capeggiato la corrente autonomista, minoritaria. Amava le citazioni, anche raffinate, ma nella quotidianità le sue frequentazioni culturali erano piuttosto mondano-salottiere. Arrivato al vertice del Psi soprattutto perché gli altri notabili e capicorrente si elidevano a vicenda, Craxi fu considerato all'inizio un uomo di ripiego, che non impensieriva i «grandi» proprio per la carriera in qualche modo burocratica, e per l'assenza d'un retroterra umano e ideologico il cui spessore potesse essere anche lontanamente paragonato a quello dei Nenni, dei Lombardi, dei Basso, degli stessi De Martino e Mancini.
*La primavera del 1975 era stata a Milano, capitale dell'eversione, tremenda. Il 13 marzo 1975 un ''commando'' di Avanguardia operaia aveva massacrato a colpi di chiave inglese lo studente diciassettenne Sergio Ramelli, aggredito sotto casa sua all'Ortica (un quartiere periferico milanese) mentre parcheggiava il ciclomotore. Ramelli era un simpatizzante dell'estrema destra: per questo nell'istituto tecnico industriale Molinari, dove studiava, l'avevano sottoposto a un «processo» assembleare, e costretto a cambiare scuola. I fanatici che lo perseguitavano non ne furono appagati. Radunatisi nei locali della facoltà di Medicina dell'Università Statale – dove la facevano da padroni – decisero di «dare una lezione» al ragazzo. La «lezione» gli costò la vita, Ramelli morì dopo oltre un mese di agonia (elementi della stessa Avanguardia operaia assalirono con bottiglie Molotov, biglie, spranghe un bar milanese frequentato dai «neri», e di «neri» o presunti tali ne ferirono seriamente sette). Nei covi dell'eversione si auspicò che la marcia rivoluzionaria annoverasse «cento, mille, centomila Ramelli». Morti, ovviamente. Dieci anni dopo l'agguato a Ramelli i suoi uccisori furono individuati e arrestati: alcuni resero piena confessione. Erano quasi tutti ex-studenti di Medicina che, approdati alla laurea, avevano per lo più trovato posto in strutture sanitarie pubbliche. Professionisti rispettati, con famiglia, anche se uno di loro era rimasto in politica, come dirigente di Democrazia proletaria. Le condanne furono abbastanza severe: dagli undici anni per i «capi» della squadraccia a sei anni per i gregari. Così come per l'omicidio di Calabresi, anche per questo di Ramelli apparve scioccante, negli imputati, l'apparente estraneità psicologica e anche ideologica alla cieca e sanguinaria furia del tempo in cui imperava la legge della chiave inglese. (pp. 251-252)
*Il 16 aprile successivo (1975) un neofascista noto, Antonio Braggion, uccise con un colpo di pistola uno studente – anche lui, come Ramelli, diciassettenne – Claudio Varalli. Quasi tutta la stampa invocò una pena durissima, e quando fu pronunciata la sentenza la sinistra protestò rumorosamente perché era stata – sostenne – troppo mite. I fatti furono così ricostruiti: un gruppo di studenti reduci da una manifestazione contestataria aveva avvistato, in piazza Cavour a Milano, tre neofascisti: due erano scappati, il terzo, appunto il Braggion, oltretutto impedito nei movimenti perché zoppicava, s'era rifugiato nella sua auto, parcheggiata lì vicino. Il gruppo gli era piombato addosso, ed aveva cominciato a tempestare con le aste delle bandiere o con altro la vettura, infrangendone il lunotto posteriore. Allora il terrorizzato Braggion, che teneva una pistola nell'auto, l'aveva impugnata e aveva sparato centrando uno degli assalitori, appunto Claudio Varalli. Questo era tanto vero che la Corte d'Assise inflisse in primo grado al Braggion cinque anni per eccesso colposo di legittima difesa e cinque per possesso abusivo d'arma: in secondo grado la condanna fu di tre anni e tre mesi, per gli stessi reati. I giudici seppero resistere ad una pressione politica, di stampa e di piazza, che avrebbe voluto fosse disconosciuto il fatto, evidente, che l'omicida non aveva aggredito, ma era stato aggredito. (pp. 252-253)
*Fu invece inequivocabilmente volontario e «nero» l'assassinio di Alberto Brasili, il 25 maggio 1975, in piazza San Babila, che era a Milano l'area privilegiata del peggior neofascismo. Brasili, uno studente che militava alla sinistra estrema, fu circondato da una pattuglia di forsennati ''ultras'' di destra. Uno di loro l'accoltellò, a morte. L'episodio era esecrabile. Ma non per questo diventano credibili i commenti, come quello del ''Corriere'', secondo i quali «chi ammazza deliberatamente, chi disprezza la vita altrui, chi è pronto a usare la pistola e il coltello, sono i fascisti». Anche i fascisti. Ma non solo loro. (p. 253)
*La storia non si fa – e nemmeno la cronaca – con i se. Ma è legittimo ipotizzare ciò che sarebbe potuto accadere se i brigatisti rossi, anziché obbedire alla voluttà di distruzione e di morte – quella che induceva un militante a sognare l'avvento d'un regime alla [[Pol Pot]], con una immane e salvifica carneficina – avessero liberato Moro: quel Moro che aveva coperto d'accuse e recriminazioni i suoi amici di partito, che aveva rinnegato la Dc, che sarebbe riemerso dalla segregazione catacombale di via Montalcini gonfio di rancori, e ansioso di vendette da assaporare a freddo. Per la Dc la sua presenza sarebbe stata dirompente, se non devastatrice. Il martire sfuggito alla morte poteva diventare – lo diventeranno del resto la moglie e i figli – il peggior nemico della ''Nomenklatura'' democristiana. Altro che Cossiga (il Cossiga del 1991, per intenderci). (p. 293)
*Emersero invece dai ''referendum'' due tendenze opposte dell'elettorato. Per la legge Reale esso rispettò i suggerimenti dei partiti di governo. Ventiquattro milioni di elettori su trentun milioni di voti validi furono per il mantenimento della legge. Ben diverso il risultato del ''referendum'' sul finanziamento pubblico dei partiti. Il no passò, ma con il 56 per cento dei voti. Questa maggioranza diventava minoranza rispetto all'intero corpo elettorale (calcolando cioè anche le astensioni). Il sì prevalse in molte grandi città: Milano, Torino, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Cagliari. Tenuto conto dell'indirizzo adottato dai partiti, e del tambureggiamento propagandistico che ne era derivato nei mezzi d'informazione, e in particolare nella Televisione di Stato, quella vittoria risicata fu per il Palazzo un autentico schiaffo. Se i politici ne ebbero le guance arrossate, durò poco. Continuarono ad incassare serenamente i finanziamenti, e ad incrementarli con varie forme di tangenti. (pp. 296-297)
*Di [[Sandro Pertini|lui]], scrivemmo «a caldo» che «rappresentava al meglio il peggio degli italiani». A cadavere raffreddato, lo confermiamo. Gli italiani si riconobbero in Pertini, nel quale la classe politica non s'era mai riconosciuta. Fu la sua forza. (p. 316)
 
===''L'Italia degli anni di fango''===