Indro Montanelli e Mario Cervi: differenze tra le versioni

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====Citazioni====
dum'' (consentiteci di non scrivere ''referenda'', al plurale) è: pochi ma buoni.
*L'Ulivo era un contenitore, più che un vero schieramento, i «Popolari» in cui [[Romano Prodi|Prodi]] ideologicamente si riconosceva erano un partito minore cui la discendenza diretta dalla Dc di sinistra non dava un gran titolo di nobiltà. Nell'era d'un governissimo il personaggio Prodi avrebbe portato sulla scena politica, come certi simpatici caratteristi, un ''tocco'' di bonomia emiliana, ma poco d'altro. Per di più, come moderato disponibile per un'esperienza interlocutoria, [[Lamberto Dini|Dini]] era più sperimentato di Prodi, tecnico quanto Prodi, meno boiardo di Prodi. Inoltre il suo accento era ''yankee'', non bolognese. L'Ulivo di Prodi era in grado di affrontare la prova delle urne, e di superarla vittoriosamente, se alle urne si andava presto: un'armata composita si decompone, se resta troppo a lungo nei bivacchi.
*L'Ulivo vinse. Di poco o niente in termini di voti: anzi a conti fatti risultò che al Polo era andata una manciata di consensi in più. Ma un sistema maggioritario – o semimaggioritario – ha meccanismi che premiano la qualità oltre che la quantità dei voti. Con i suoi 157 senatori su 315 – cui dovevano essere aggiunti i 2 della Sudtiroler Volkspartei e parte dei 10 senatori a vita – l'Ulivo ebbe una maggioranza abbastanza comoda a Palazzo Madama. I 10 senatori di Rifondazione potevano essergli utili in qualche circostanza, ma non erano necessari. Altro discorso per la Camera. I deputati dell'Ulivo erano 284 sui 630 dell'assemblea. La maggioranza poteva essere raggiunta solo con l'apporto dei 35 di Rifondazione comunista. [[Fausto Bertinotti|Bertinotti]] promise il suo appoggio a un governo Prodi, pur riservandosi libertà d'azione quando si fosse trattato d'approvare singoli provvedimenti. Il Polo gridò che l'Ulivo era prigioniero di Rifondazione e che Bertinotti avrebbe dettato la politica del governo. Era un segnale d'allarme enfatico – come si addice all'opposizione – ma non campato in aria. Proprio l'indispensabilità di Rifondazione faceva la differenza – una differenza profonda – tra la situazione del primo [[François Mitterrand|Mitterrand]] – che già abbiamo ricordata – e quella di Prodi. Mitterrand s'era potuto liberare con cinica soddisfazione del Pcf perché i deputati socialisti facevano, da soli, la maggioranza assoluta all'Assemblea Nazionale. Prodi era invece costretto a tenersi stretto Bertinotti, senza il quale gli era impossibile governare, ma con il quale governare sarebbe stato un tormento.
*Gli obbiettivi che il governo s'era proposti – o che piuttosto gli erano imposti dalla situazione del Paese e dagli impegni internazionali – apparivano d'una chiarezza abbagliante. L'Italia doveva intanto adeguarsi, entro il 1998, ai parametri di Maastricht: ossia alle regole in mancanza delle quali le sarebbe stato negato l'ingresso nel club dell'[[Euro]], la moneta unica europea. Da questo punto di vista l'Italia stava, nel 1996, non solo peggio della Germania e della Francia ma anche peggio della Spagna. Guardiamo i dati. Maastricht vuole un'inflazione al 2,6 per cento e l'Italia era al 4,7, sia pure con un andamento in rapida discesa (la Germania all'1,3, la Francia al 2,1, la Spagna al 3,8). Maastricht vuole che il deficit statale rappresenti il 3 per cento del Prodotto interno lordo, e l'Italia era al 6,6 (la Germania e la Francia al 4, la Spagna al 4,4). Infine – ed è per l'Italia il punto più dolente – Maastricht vuole che il debito pubblico sia al massimo il 60 per cento del Prodotto interno lordo, e in Italia era il 123 per cento (in Germania il 60,8, in Francia il 56,4, in Spagna il 67,8).
*La politicizzazione totale di quelle fucine che erano il Pci, ''l'Unità'', Lotta continua e le pubblicazioni «rivoluzionarie» addestrava al comizio, alla dialettica, allo scontro di idee, al rapporto con gli interlocutori. Quei giovani di sinistra leggevano e studiavano, sia pure per sostenere delle balordaggini, i giovani di destra s'accontentavano in generale di poche – e poco conta che alcune fossero solide e magari vere – ''idées reçues''.
*La conquista dell'Euro è stata la grande promessa e la grande scommessa di Prodi e dei suoi ministri finanziari. Conquista dell'Euro voleva dire essere in regola con i parametri di Maastricht alle scadenze fissate (e ancora valide quando andava in stampa questo libro). Nel marzo del 1998 dovrebbe essere compilata la lista dei Paesi che, avendo onorato gli impegni di Maastricht, parteciperanno alle fasi successive per la creazione della moneta unica europea. Nel secondo semestre dello stesso anno saranno decise le parità monetarie, ossia i cambi tra le varie monete, e il cambio di ogni moneta con l'Euro. Il 1º gennaio 1999 le parità diventeranno, in base alla tabella di marcia, irrevocabili, nascerà la banca centrale europea, cominceranno gli scambi internazionali in Euro. Il 1º gennaio 2002 circoleranno in tutti i Paesi ammessi nel club della moneta unica le banconote e le monete in Euro, valide per un semestre insieme alle monete e alle banconote nazionali. Dal 1º luglio 2002 rimarrà solo l'Euro, le banconote nazionali avranno perduto valore legale, ma i distratti che non se ne fossero sbarazzati disporranno di tempi lunghi per cambiarle agli sportelli delle banche autorizzate.
*La disfatta del 15 giugno ha ispirato riflessioni sulle modifiche da apportare all'istituto del ''referendum'' e in particolare sull'opportunità d'introdurre il ''referendum'' propositivo, che non si limita ad abrogare una legge, ma crea una legge. Ci dispiace per [[Marco Pannella|Pannella]], ma la prima regola dei ''referendum'' (consentiteci di non scrivere ''referenda'', al plurale) è: pochi ma buoni.
*Dopo la fuga del dittatore Siad Barre da Mogadiscio (gennaio 1991) la [[Somalia]] era stata preda delle convulsioni d'una feroce guerra civile. Nell'intento di risollevarla dall'abisso in cui era sprofondata, I'[[Organizzazione delle Nazioni Unite|Onu]] aveva approvato l'invio di 36 mila uomini messi a disposizione da venti Paesi diversi, e coordinati da un comando degli [[Stati Uniti d'America|Stati Uniti]]. A capo del contingente italiano s'erano succeduti i generali Giampiero Rossi, Bruno Loi e Carmine Fiore. Nel maggio del 1993 la responsabilità dell'impresa – la cui etichetta era diventata ''Continue Hope'' – passava direttamente all'Onu, senza che per questo ne crescesse l'efficacia. Poi fu il «tutti a casa», e il contingente italiano abbandonò Mogadiscio il 20 marzo 1994, lo stesso giorno in cui fu assassinata la giornalista Ilaria Alpi del Tg3. ''Restore Hope'' aveva forse lenito sofferenze materiali, ma non pacificato né ripristinato un tollerabile contesto d'istituzioni democratiche. Insomma poco meno che un disastro: del quale non poteva essere chiamata a rispondere l'Italia, coinvolta in un'impresa fallimentare voluta e organizzata dagli Stati Uniti. I reparti italiani avevano pagato un prezzo di sangue (con una dozzina di morti) per la loro presenza, e altri morti s'erano avuti, in quell'imperversare di banditi e di fazioni sanguinarie, tra giornalisti, fotografi, cineoperatori. Carmen Lasorella era scampata a un agguato nel quale aveva perso la vita il suo operatore Marcello Palmisano, in un altro agguato era stata uccisa, come s'è accennato, Ilaria Alpi. Quelle tragedie erano ormai passate all'archivio, nella coscienza del Paese.
*L'impresa di questi secessionisti da sbarco, che s'erano impadroniti d'una motonave lagunare per raggiungere il loro obbiettivo e che disponevano d'armi per fortuna non utilizzate e d'un artigianale mezzo blindato (Vtd ossia Veneto Tank Distruttore, più colloquialmente tanko, o tanketo) ha scosso l'Italia e interessato il mondo. L'azione di guerriglia incruenta s'era svolta nello scenario più suggestivo e solenne che si potesse immaginare, e i richiami alla gloriosa Repubblica dominatrice dei mari, ai dogi, a un cattolicesimo integralista di tipo vandeano, erano fatti apposta per ispirare romantiche fantasticherie e nostalgie. Accantonate le quali gli assaltatori e i loro complici apparivano solo l'espressione di confusi risentimenti e di grossolane velleità politiche: il tutto tradotto in un ''blitz'' vernacolo da «Se no i xe mati no li volemo». Gente modesta gli incursori e – fuori da questa parodia del Chiapas – onesta e tranquilla: ma ubriacata – oltre che dalla grappa – dalla predicazione del professor [[Gianfranco Miglio|Miglio]], ad altissimo tasso d'alcol ideologico, da letture male assimilate e da trascorsi storici male adattati all'attualità. Dapprima questi fanatici da bar s'erano limitati al disturbo di trasmissioni televisive della RAIRai, e intanto preparavano i mezzi e le armi per l'attacco ad un simbolo famoso della venezianità. I risvolti goliardici della spedizione hanno sollecitato l'estro di cronisti e commentatori. Gli autodidatti dell'insurrezione erano provvisti – oltre che d'ordigni bellici pericolosi soprattutto per chi si fosse azzardato ad impiegarli, nonché di bevande tra le quali non figurava l'acqua – anche di biancheria pulita per il caso che dovessero subire un assedio di lunga durata. Ma il ministro dell'Interno [[Giorgio Napolitano|Napolitano]], personaggio alieno da violenze anche verbali, ha dato – ci scommettiamo a malincuore – l'ordine di usare le maniere forti.
*[[Armando Cossutta|Cossutta]] e Bertinotti sono una strana coppia. Cossutta è un ''apparatchik'' di matrice sovietica, Bertinotti ha le sue radici ideologiche nel socialismo di Riccardo Lombardi: che era intelligente e di un'onestà cristallina: ma covava la voluttà dello sfascio, era contento come una pasqua se gli riusciva di mettere a soqquadro un governo, o il suo partito, o la sua corrente. Quell'insegnamento Bertinotti non l'ha dimenticato. Il male oscuro del governo Prodi veniva dunque da lontano, dalle desistenze che erano utili ma piuttosto disoneste, e da una maggioranza che di quelle desistenze era il frutto: e che metteva insieme gli inflessibili contabili di Bankitalia e gli sbarazzini inventori dell'occupazione per decreto. Pare che all'estero Bertinotti sia piaciuto: è piaciuto anche [[Dario Fo]], insignito del Nobel mentre Prodi annunciava il suo congedo dopo 514 giorni a Palazzo Chigi e mentre Silvio Berlusconi rinunciava ad essere candidato ''premier'' per il Polo nell'eventualità di elezioni ravvicinate, riservandosi i compiti di regista della coalizione di centrodestra. Bertinotti, Fo, anche Bossi sono, a modo loro, divertenti. L'Italia seria lo è molto meno.
*S'è perpetuata l'anomalia di questa stagione della politica italiana: l'opposizione che il governo deve tenere a bada non è quella ufficiale, è quella interna alla maggioranza. L'anomalia durerà – quale che sia lo schieramento al potere – finché dureranno in Italia non solo regole imperfette avvolte da una giungla di cavilli, ma un costume politico bizantino, allergico alla chiarezza. Un costume che ci propina le quasi-crisi, le quasi-maggioranze, le quasi-riforme. E non c'è rimedio.
 
====[[Explicit]]====
Questo volume segna il capolinea della nostra Storia dell'Italia contemporanea. [[Mario Cervi]], di parecchi anni più giovane di me, potrà, se vorrà (e io spero che lo voglia) continuarla da solo. Io debbo prendere congedo dai nostri lettori. E non soltanto per ragioni anagrafiche, anche se di per sé abbastanza evidenti e cogenti. Ma perché il congedo l'ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più appartenere. [...] Credemmo che l'Italia avesse liquidato [...] un regime {{NDR|quello [[fascismo|fascista]]}} che le aveva impedito di essere se stessa. Ed invece gli eventi [...] ci dimostravano che non era affatto cambiata con il cambio del regime. Erano cambiate le forme, ma non la sostanza. Era cambiata la retorica, ma era rimasta retorica. Erano cambiate le menzogne, ma erano rimaste menzogne. Erano soprattutto cambiate le mafie del potere e della cultura, ma erano rimaste mafie. [...] Entrambi assistemmo e fummo i cronisti della rapida degenerazione della democrazia in partitocrazia, cioè in un oligopolio di camarille e di gruppi che esercitavano il potere in nome della cosiddetta «sovranità popolare»; in realtà nel solo interesse di quei gruppi e camarille, che di interesse ne avevano uno solo: che il potere restasse «cosa nostra», come infatti per quasi cinquant'anni è stato, e come seguita ad essere anche ora che ha cambiato titolari, ma sempre restando «cosa nostra». [...] Anche la Repubblica, «nata dalla Resistenza», com'era d'obbligo chiamarla, riconobbe ed anzi enfatizzò l'indipendenza della Magistratura dal potere politico. E per meglio garantirla, la dotò di un organo di autogoverno, il Consiglio superiore della magistratura, riservandosene però una componente «laica», cioè di non magistrati nominati ai quei posti dal potere politico, e per esso dai tre maggiori partiti, che se lo contendevano, o meglio se lo spartivano. [...] È questo che spiega l'impunità con cui le forze politiche poterono compiere la loro opera di corruzione, che non consisteva soltanto nel prelievo dei pedaggi imposti a tutte le attività economiche pubbliche e private, [...] che alla corruzione avrebbero dovuto porre un freno e che invece ne diventarono lo strumento. La [[corruzione]] non è un fenomeno soltanto italiano. [[Georges Clemenceau|Clemenceau]] diceva che non c'è democrazia che ne sia al riparo. Ma quella che aveva sotto gli occhi lui, in Francia, si limitava alla classe politica, forse non molto migliore della nostra. Ma a sbarrarle la strada c'era uno Stato che dai tempi di Colbert era servito da una vera e propria casta di ''commis'', di funzionari rigorosamente selezionati in scuole speciali ed alla corruzione impermeabili. La burocrazia italiana non disponeva di un personale di altrettanto livello e non oppose resistenza al potere politico che se l'annesse distribuendo favori soprattutto di carriera agli arrendevoli e castighi a chi non si adeguava. I due milioni di miliardi e passa di debito pubblico non si possono spiegare che come il frutto di un reticolo di complicità fra classe politica e classe amministrativa che rese del tutto vano il disposto costituzionale secondo cui lo Stato non poteva procedere a spese che non fossero coperte da adeguate entrate. [...] Studente negli anni Venti, ho sognato, come tanti, quasi tutti i miei coetanei, di contribuire a fare del fascismo una cosa seria, e automaticamente ce ne trovammo emarginati. Ci schierammo con le poche forze liberaldemocratiche della Resistenza, e ce ne ritraemmo vedendola trasformata in uno strumento di partito e ridotta a grancassa della sua propaganda col consenso – o la sottomissione – della maggioranza degl'italiani. La speranza di contribuire a qualcosa di buono si riaccese subito dopo la Liberazione sotto la guida di pochi vecchi uomini del prefascismo, presto anch'essi emarginati dalle nuove leve di mestieranti della politica, abilissimi nei giochi di potere, ma soltanto in quelli. E da allora iniziò la degenerazione mafiosa della democrazia sotto gli occhi indifferenti, o ipocritamente indignati, di una pubblica opinione alle mafie assuefatta da secoli. Oramai sono giunto alla conclusione che la corruzione non ci deriva da questo o quel regime o da queste o quelle «regole», di cui battiamo, inutilmente, ogni primato di produzione. Ci deriva da qualche virus annidato nel nostro sangue e di cui non abbiamo mai trovato il vaccino. Tutto in Italia ne viene regolarmente contaminato. [...] Ho smesso di credere all'utilità di una Storia scritta al di fuori di tutti i circuiti della politica e della cultura tradizionali. Anzi, ad essere sincero sino in fondo, ho smesso di credere all'[[Italia]]. Questo volume, che include la sceneggiata di piazza San Marco, include anche la convinzione di uno dei suoi due autori che in un'Italia come questa anche una sceneggiata può bastare a provocarne la decomposizione. Sangue non ce ne sarà: l'Italia è allergica al dramma, e per essa nessuno è più disposto ad uccidere e tanto meno a morire. Dolcemente, in stato di anestesia, torneremo ad essere quella «terra di morti, abitata da un pulviscolo umano», che Montaigne aveva descritto tre secoli orsono. O forse no, rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giuochi di potere e d'interesse. L'Italia è finita. O forse, nata su dei plebisciti-burletta come quelli del 1860-'61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere. Per me non è più la Patria. È solo il rimpianto di una Patria.