John Keats: differenze tra le versioni

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*Il [[poeta]] è la meno poetica delle creature: non ha identità – ma di continuo foggia e riempie qualche altro corpo. [...] Quando sono in una [[stanza (architettura)|stanza]] fra la gente, se per caso non sono assorto nei miei più intimi pensieri, allora non riesco a essere più me stesso, ma la personalità di ciascuno dei presenti comincia a soffocarmi fino addirittura ad annientarmi. E non solo fra gli uomini, sarebbe lo stesso in un asilo. (da ''Lettera a Richard Woodhouse'', 27 ottobre 1818)
*Ammiro la natura umana, ma non mi piacciono gli ''uomini'': mi piacerebbe comporre qualcosa che faccia onore all'uomo, ma che gli ''uomini'' non possano toccare. (da ''Lettera a Benjamin Robert Haydon'', 22 dicembre 1818)
*C'è molta gente superficiale che prende le cose alla lettera. Ma la vita di un uomo che abbia in sé qualche valore è una continua [[Allegoria]]. Solo pochi occhi possono capire il mistero della sua vita. Una vita figurativa, come nelle scritture sacre, che molta gente non può riuscire a capire, non più di quanto possa capire la Bibbia scritta in ebraico. Shakespeare ha vissuto una vita di Allegoria. Le sue opere ne sono il commento. (da ''Lettera a George e Georgiana Keats'', 18 febbraio 1819)
*Non potrebbero esserci degli esseri superiori che godono degli stati d'animo della mia mente, belli anche se istintivi, nello stesso modo in cui io sono attratto dalla vivacità di un ermellino o dall'agitazione di un cervo? Anche se una lite per strada è qualcosa di decisamente deprecabile, le energie che si sprigionano sono belle: persino l'uomo più insignificante diventa in qualche modo attraente quando litiga. Per un essere superiore i nostri pensieri possono tutti prendere lo stesso tono: anche se sbagliati, possono essere belli. (da ''Lettera a George e Georgiana Keats'', 18 febbraio 1819)
*Niente può mai diventare reale, senza essere vagliato dall'esperienza. Persino un [[proverbio]]: che proverbio è, prima che la vita te l'abbia mostrato? (da ''Lettera a George e Georgiana Keats'', 18 febbraio 1819)
*Questo mondo viene di solito chiamato, dai superstiziosi e dagli ignoranti, "una valle di lacrime", da cui saremo redenti grazie a qualche arbitrario intervento di Dio, e portati in cielo. Che concetto ristretto e rigido! Piuttosto, se vi va, chiamiamolo "la valle che forma l'anima". Allora, sì, sarà possibile comprendere a che cosa serve il mondo [...]. Io dico che ''forma l'anima'', distinguendo l'anima dall'intelligenza. Ci possono essere intelligenze o scintille della divinità a milioni – ma non ci sono anime finché le scintille non hanno raggiunto un'identità, finché ognuna non è individualmente sé stessa. Le intelligenze sono atomi di percezione: conoscono, e vedono, e sono pure; in breve sono Dio. Ma allora come si formano le anime? Come riescono queste scintille, che sono Dio, a ricevere un'identità, così da possedere una beatitudine propria, specifica di ogni singola esistenza? Come, se non grazie a un mondo come il nostro? (da ''Lettera a George e Georgiana Keats'', 18 febbraio 1819)
*Recentemente ho cambiato pelle. Ma niente nuove piume e nuove ali. Queste sono sparite, al loro posto spero di avere un paio di pazienti gambe terrestri. Sono cambiato, ma non da crisalide in farfalla, bensì al contrario. Ho delle piccole feritoie dalle quali posso guardare il palcoscenico del mondo e, venendo qui, quel mondo l'ho quasi dimenticato. (da ''Lettera a John Hamilton Reynolds'', 11 luglio 1819)
*Al di là del piacere che sempre danno le lodi – piacere malefico cui è difficile sfuggire – io ho sempre avuto un grande rispetto per l'entusiasmo: c'è qualcosa di glorioso in esso. Ma non posso far finta che il mondo non sia maligno abbastanza da non deridere la più degna semplicità. (da ''Lettera a Benjamin Bailey'', 13 agosto 1819)
*So con certezza che, se volessi, potrei diventare uno scrittore di successo. Per mia scelta, tuttavia, non lo sarò mai. (da ''Lettera a John Taylor'', 23 agosto 1819)
*Amico mio, sarebbe inutile che io cercassi di scrivere cose più ragionevoli. Non ho altro di cui parlare se non di me stesso. E di cosa potrei parlare se non di ciò che sento? Se per qualche ragione questo mio stato di [[eccitazione]] dovesse dispiacerti, ti prego di ricordare che è questa la condizione che ci vuole per la [[poesia]], e della poesia solo m'importa. La poesia è ciò per cui vivo. (da ''Lettera a John Hamilton Reynolds'', 25 agosto 1819)