Indro Montanelli e Mario Cervi: differenze tra le versioni

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*I veri padroni, i tedeschi, erano appostati nei dintorni, tranne Kesselring che aveva mantenuto il Quartier generale a Frascati. Rahn e l'ambasciata erano nella Villa Bassetti a Fasano, Wolff e i suoi accoliti a Gardone (successivamente a Desenzano), i servizi di sicurezza a Verona, il plenipotenziario militare generale Toussaint nei pressi di Verona. Rommel restò a Belluno fino a quando, in novembre, tornò in Germania, il che segnò il passaggio di tutti i poteri militari a Kesselring. Il colonnello Jandl, ufficiale di collegamento, fu addetto alla persona di Mussolini ed era, in questo incarico, il più elevato in grado. A lui dobbiamo un resoconto della ''routine'' di Mussolini, presto non molto dissimile, negli orari, da quella ch'egli seguiva a Palazzo Venezia: «Va regolarmente in ufficio alle 8,45 e riceve i visitatori fino alle 2-2,30. Fa una breve pausa di circa mezz'ora a mezzogiorno e nel pomeriggio continua a lavorare di solito fino alle 9. Spesso lavora di notte per conto proprio. Recentemente ha lavorato fino alle 6 del mattino. Capita sovente che si ritiri prima di mezzanotte, si alzi alle 4, faccia un po' di lavoro fino alle 5, e dorma ancora un po'». Una giornata intensa e insieme vuota. Il Duce riceveva, esortava, scriveva, emanava ordini, ma tutto questo mancava di risonanza e di rispondenza. Trascorreva ore oziose, a fissare il muro, o in letture vagamente filosofiche. Come gli era accaduto in tutta la vita, non aveva amici e non ne cercava. Era finito e lo sapeva. Unica vera passione e interesse, gli era rimasto il giornalismo. La sua scrittura era sempre diretta, efficace, polemica.
*Attorno a lui brulicavano ancora passioni e interessi. Se Dolfin, prefetto e console della Milizia, era il segretario ufficiale, il figlio Vittorio istituì presto un doppione anomalo di segreteria affollata di sportivi – che erano i suoi compagnoni abituali – e di parenti; tra essi il figlio di Arnaldo, Vito, e il cognato Vanni Teodorani. Di Vittorio Mussolini il già citato diplomatico Bolla scrisse, in un suo diario, che «è uno dei più grossi beceri che esistano sulla faccia della terra» e che «ne combina di tutti i colori, in parte per virtù propria, in parte per spinta del suo seguito di atleti e pugilatori, ex compagni di palestra». (Ma delle due, l'una: o il ritrattista ha calcato la mano, o il ritrattato, con l'esperienza, maturò.) (cap. 2)
*Era così nata la Repubblica di Salò. Ma la sua capitale – o meglio l'arcipelago delle sue capitali – non ne interpretava esattamente né la sostanza né l'anima. Anzi le anime, perché in questa estrema versione del fascismo confluirono cinque filoni fondamentali. V'erano i fanatici, mossi da una fede fascista cieca e da un odio violento per i badogliani, che cercavano più la vendetta che la rivincita ben sapendo – almeno gli intelligenti – che la rivincita era un sogno irrealizzabile. Il fanatismo divenne violenza e crudeltà anche in uomini che, come Alessandro Pavolini, avevano sensibilità e cultura. V'era in loro una sorta di ansia di distruzione e di autodistruzione, di propensione al sangue e di aspirazione all'olocausto. E strano che alla schiera degli irriducibili votati alla morte abbiano finito per aggregarsi individui che non avevano alcun motivo razionale per farlo, un ex comunista come Nicola Bombacci e un ex perseguitato come Carlo Silvestri. I fanatici credevano al fascismo rigenerato anche se soccombente, purificato prima della fine da un lavacro di sangue, dei nemici e suo. (cap. 2)
*L'avvio della Resistenza fu ricco di episodi umanamente toccanti, ma povero di risultati. In questo periodo i tedeschi si preoccuparono molto poco delle «bande» anche se, quando esse si manifestavano, reagivano con prontezza a volte feroce. Il fenomeno partigiano era considerato uno strascico minore e non allarmante dell'8 settembre. In effetti le poche migliaia di «ribelli» non costituivano una forza militare, privi com'erano di un comando unificato, di direttive, di una strategia. I primi a dare un assetto organico alle loro formazioni furono, ed era logico, i comunisti, che già ai primi di novembre istituirono a Milano un Comando generale delle formazioni Garibaldi, con Longo, il veterano delle brigate internazionali in Spagna, comandante militare, e [[Pietro Secchia]] – un intrattabile fanatico – commissario politico. I comunisti disposero che tutte le loro organizzazioni cittadine mandassero in montagna a combattere il 10 per cento dei quadri e il 15 per cento degli iscritti. Che siano stati obbediti, è dubbio: ma che abbiano potuto fornire un numero di partigiani superiore a quello di ogni altro schieramento ideologico, è certo. (cap. 3)
*Il 25 novembre i fascisti fecero irruzione nella grande masseria di Praticello, tra Campegine e Gattatico, vicino a Reggio Emilia, dove viveva la famiglia Cervi. Erano, i Cervi, dei fittavoli che si erano insediati nel podere dal 1934: il padre, Alcide, la madre Genoveffa Cocconi, sette figli, il maggiore di 42 il più giovane di 22 anni. Nel loro cascinale i Cervi avevano dato ospitalità dopo l'8 settembre a prigionieri e sbandati – e di questo venivano sospettati dalle autorità fasciste – ma avevano anche organizzato azioni di squadre per disarmare i presidi fascisti. Il rastrellamento del 25 novembre mirava proprio a snidare i prigionieri rifugiati a Praticello (vi furono infatti catturati un russo, due sudafricani, un francese gollista, un irlandese, e un «rinnegato» italiano). I maschi della famiglia Cervi furono tutti trasferiti nelle carceri di San Tommaso, a Reggio Emilia. Due giorni dopo Natale a Bagnolo in Piano, nelle campagne di Reggio, venne ucciso da un ''commando'' il segretario fascista Vincenzo Onfiani, e questo segnò la condanna a morte, per rappresaglia, dei sette fratelli «rei confessi di violenze e aggressioni di carattere comune e politico, di connivenza e favoreggiamento con elementi antinazionali e comunisti». Il padre non seppe della feroce strage fino a quando uscì di prigione. (cap. 5)
*L'attentato di via Rasella, e la strage delle Fosse Ardeatine che ne fu la conseguenza, posero allora alla coscienza civile, e lo pongono tuttora allo storico, il problema d'un giudizio sulla legittimità morale dell'attentato, sulla ammissibilità della rappresaglia, sulla responsabilità personale di chi volle l'attentato e di chi volle la rappresaglia. L'attacco al reparto tedesco che ogni pomeriggio, puntualmente, percorreva la via Rasella, una parallela di via Tritone in pieno centro di Roma, era stato preparato da un GAP comunista con scrupolosa cura, e con un controllo minuzioso dei tempi. L'incarico di collocare le due bombe – l'una dodici chili di tritolo, l'altra sei chili – fu affidato a Rosario Bentivegna, studente in medicina, che sarebbe stato aiutato, al momento della fuga, da Carla Capponi. Erano entrambi giovani ma sperimentati gappisti, cimentatisi in imprese contro il cinema Barberini, e contro Regina Coeli. In una via laterale si sarebbero appostati altri partigiani, tra essi Franco Calamandrei, pronti a segnalare a Bentivegna il sopraggiungere della colonna di soldati e a sparare contro i tedeschi dopo lo scoppio per accrescere il panico. Bentivegna si travestì da spazzino, pose su un carretto due bidoni con l'esplosivo, e rimase in attesa. (cap. 7)
*Quel giorno i tedeschi erano in ritardo. Attesi per le 15, fecero udire il loro passo cadenzato solo verso le 15,30. Calamandrei si tolse il cappello (era il segnale convenuto), Bentivegna accese la miccia e si allontanò verso via Quattro Fontane dove lo aspettava Carla Capponi, che lo copri con un impermeabile. Quella che stava marciando era la lla compagnia del terzo battaglione del ''Polizei Regiment Bozen'', territoriali altoatesini che, troppo anziani per essere mandati al fronte, erano stati destinati al servizio d'ordine in città. L'esplosione fu apocalittica, e seguita da raffiche di mitra. Il ''leader'' comunista Giorgio Amendola discuteva in quel momento con De Gasperi, in un edificio non lontano. A De Gasperi, che si domandava cosa potesse essere quella esplosione, Amendola rispose asciutto «deve essere una delle nostre» e l'altro, con un blando sorriso: «Dev'essere così. Voi una ne pensate e mille ne fate». Poi ripresero a occuparsi della crisi del CLN, con Bonomi che minacciava di dimettersi per i contrasti che lo dilaniavano.
*Gli ordigni esplosivi fecero strage. Trentadue militari tedeschi rimasero sul terreno insieme a un bambino e a sei civili italiani, che per fatalità erano in quei pressi (il comando partigiano affermò poi che i civili erano stati vittime della sparatoria forsennata cui i tedeschi si erano abbandonati, nella prima reazione all'attentato). Il decesso d'un ferito portò poi il totale delle vittime tedesche a 33. Sopraggiunsero in breve il comandante militare di Roma generale Maeltzer, il colonnello Dollmann e il console Moellhausen. Congestionato per l'emozione, e anche perché veniva da un lungo e copioso pranzo all'Hotel Excelsior, Maeltzer urlava, gli occhi pieni di lacrime, e inveiva contro Moellhausen e la sua politica «morbida». Hitler, avvertito al suo Quartier generale (era malandato in salute, e pochi giorni prima aveva dovuto ordinare l'occupazione dell'Ungheria per timore di un «tradimento all'italiana» dell'ammiraglio Horthy), dispose che fosse raso al suolo un intero quartiere, e che venissero passati per le armi cinquanta italiani per ogni morto tedesco. Kesselring, in ispezione al fronte, era introvabile, ma quando tornò ritenne eccessiva la misura della rappresaglia. Vi fu una sorta di patteggiamento tra Kappler – il maggiore delle SS cui sarebbe toccato il compito di trovare gli ostaggi da sacrificare – Kesselring e il Quartier generale del Führer, e la proporzione di dieci a uno fu accettata, e ritenuta da Kesselring equa, tanto che alle 7 del giorno successivo ripartì per il fronte. Dollmann a sua volta andò a visitare padre Pfeiffer, che aveva accesso al Papa e lo pregò di intervenire perché si preparava qualcosa di grave. Dal Vaticano fu fatta una telefonata all'ambasciata tedesca, per sapere se fossero in vista esecuzioni, e la risposta fu evasiva. La Santa Sede stava portando a conclusione la trattativa con i tedeschi per la proclamazione di Roma città aperta, e non aveva interesse a rompere i ponti.