Albio Tibullo: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Nessun oggetto della modifica
Riga 44:
 
===Citato in ''[[Giosuè Carducci]], Opere, vol. XXIX''===
*Non io rimpiango le ricchezze de' miei padri né i beni che all'avo producea la messe ammucchiata ne' granai. Mi basta una piccola raccolta; mi basta un letto da riposarmi, s'io possa, nel sonno, e l'ordinario sedile per posarvi e rinfrancare le membra. Com'è dolce udire dal letto l'infuriare dei venti e stringersi al petto amoroso la sua donna; o quando l'austro d'inverno riversa le gelide piogge, seguitar sicuri i lunghi sonni allo scrosciar della pioggia. Ciò mi avvenga; e arricchisca pure, ché ne ha il diritto, chi può sopportar le furie del mare e le tristi ire dei nembi. Oh perisca quanto v'è al mondo d'oro e di smeraldi, più tosto che un'amante pianga la mia dipartita! (''Libro I, Elegia I'', Carducci, p. 152-153)
*A te sta bene, o Messalla, portar la guerra per terra e per mare, sì che la tua casa ostenti le spoglie de' nemici. Io rimango prigioniero nei lacci d'una bella fanciulla, e veglio, come uno schiavo incatenato alla guardia, dinanzi alla porta inesorabile. Che importa a me, Delia mia, della gloria? Sia teco; e mi chiamino pure poltrone e da poco. Oh che in te possa io fissar gli occhi, quando mi sopravverrà l'ora suprema; ch'io possa stringerti morendo con la mano mancante. Tu piangerai, posto che m'abbi, o Delia, sul letto del rogo, e mescolerai alle amare lacrime i baci. Piangerai: tu non hai cinte le viscere d'insensibile ferro, non hai nel tenero cuore una selce. (''Libro I, Elegia I'', Carducci, p. 153)
*Chi serve ad [[Amore]], vada {{sic|securo}} per tutto: egli è sacro, né gli conviene temere d'insidie. A me non fa nulla il freddo d'una notte pigra d'inverno, né la pioggia che cade a rovesci; tutto questo a me non fa male, pur che Delia mi apra la porta e zitta mi chiami a sé con uno scocco delle dita. Guardia agli occhi, o uomini o donne che siate sulla mia strada: [[Venere (divinità)|Venere]] vuole per i suoi furti il silenzio. Non mi date timore col rumore dei passi, non domandatemi il nome, non avvicinate l'indiscreto chiaror delle fiaccole. E se qualcuno, pur senza volerlo, mi ha {{sic|scòrto}} e riconosciuto, taccia e neghi per tutti gli dèi di ricordarsene; perché l'indiscreto, chiunque siasi, proverà che Venere è nata dal sangue, è nata dal mare in tempesta. (''Libro I, Elegia II'', Carducci, pp. 155-156)
*Come vivevano bene quando regnava Saturno, prima che la terra fosse aperta in immensi viaggi! Il pino non aveva ancora sfidato le cerule onde, né spiegato al soffio dei venti il seno delle vele; né ancor vagando in cerca di guadagni per terre ignote il nocchiero aveva caricato di merce straniera il vascello. Allora il vigoroso toro non subiva il giogo, non il cavallo mordeva con bocca domata il freno: non c'era casa che avesse porte; non c'era piantato nei campi un sasso che determinasse confini certi ai terreni coltivati. Le querce davano {{sic|mèle}} di per sé, spontanee venivano le pecore a offrire le mammelle piene di latte ai tranquilli uomini. Non eserciti, non furori, non guerre; né un rozzo fabbro aveva ancora con feroce arte temprata una spada. Ora sotto il regno di Giove sangue sempre e strage; ora i pericoli del mare; ora aperte d'un tratto mille vie alla morte. (''Libro I, Elegia III'', Carducci, pp. 159-160)
*Un lungo andar di giorni insegnò a' leoni ubbidire l'uomo, un lungo andar di giorni col picciol gocciolar d'un'acqua scavò le rocce: l'anno matura le uve su' colli aprici, l'anno rimena con ferma vicenda i lucidi segni del cielo. Ma il tardare sarebbe errore. Passerà la giovinezza, oh come presto! il giorno non s'arresta né ritorna. Come presto perde la terra i purpurei colori, come presto il bianco pioppo le belle chiome! Come langue, quando sopravvennero i fati dell'inferma vecchiezza, il cavallo che un giorno balzò primo dal carcere eleo! E già vidi un giovine, incalzato oramai dall'età più tarda, a piangere i bei giorni stoltamente passati. Dèi crudeli! il serpente spoglia gli anni e rinnovasi, alla bellezza i fati non concessero indugio. (''Libro I, Elegia IV'', pp. 162-163)
*Quegli cui cantin le Muse vivrà fin che la terra avrà querci, stelle il cielo, il fiume acque. Ma chi è sordo alla voce delle Muse, chi vende l'amore, quegli séguiti su l'Ida il carro di Cibele e percorra né suoi errori trecento citàà, e taglisi al suono de' flauti frigi gli osceni pesi.<ref>Mancano i versi 71-76. {{cfr}} ''Opere'', vol. XXIX, p. 165.</ref>Ciascuno ha la sua gloria: la mia è d'essere il consultore degli amanti disprezzati: la mia porta è loro aperta a tutti. (''Libro I, Elegia IV'', pp. 164-163)
*Ma anche tu, Foloe, ricòrdati di non esser crudele a questo giovinetto (Venere punisce i disdegni e i rigori), né chiedere doni: dia doni un amante canuto, acciò tu gli riscaldi le gelide membra contro il molle tuo seno. Assai più caro dell'oro è un giovine a cui splendon liscie le gote e non pungono con aspra barba gli abbracciamenti. Passagli sulle spalle le candide braccia, e disprezza tutti i tesori dei re. (''Libro I, Elegia VIII'', p. 175)
 
==Note==
<references />