Maurizio Maggiani: differenze tra le versioni

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===Citazioni===
*Abitava in [[piazza Stella]], un piccolo pozzo d'aria in mezzo ai vicoli tra San Giorgio e San Lorenzo. Il [[Centro storico di Genova|centro di [[Genova]] è pieno di piazze insoddisfacenti, luoghi a prima vista privi di una loro logica e di qualsiasi attrattiva; brandelli di vuoto buttati lì a caso all'incrocio di qualche carrugio. È probabile che questi luoghi siano nati per sbaglio, perché non sono tornati i conti dei mastri muratori, o perché all'ultimo momento sono mancati i soldi per costruirci un palazzo. Oppure c'era un palazzo, più in là nel tempo, una delle cento e più torri di città costruite dalle famiglie nobiliari; e magari questa famiglia si è messa nei guai, ha complottato, ha contrastato, e la Repubblica gli ha disfatto la torre: è capitato spesso nel corso dei secoli. A volte è stato messo un cippo con un messaggio ammonitore, altre volte si è lasciato correre. Restano queste piazze, come piazza Stella, che a fermarcisi nel mezzo ci si sente lievemente a disagio. (p. 17)
*Il lavoro del [[Viticoltore|vignaiolo]] non richiede molta forza, ma una grande sensibilità. A parte la zappatura, che comunque è sempre leggera, per nove mesi dell'anno è un continuo sciogliere e legare, orientare, aggiustare, recidere e ricongiungere con mani che devono essere intelligenti e delicate; nei restanti tre mesi le mani riempiono, svuotano, travasano, sigillano, spostano, stappano, sigillano ancora, costrette sempre all'estrema attenzione e cognizione. Ogni cosa nella vigna e nella cantina deve seguire un ordine perfetto dettato dal moto della luna e del sole, dal mutare dell'aria e dei suoi effluvi, dalla micrometrica intransigenza della chimica; e tutto deve essere pulito dentro e fuori. Un vignaiolo appartiene ad un ordine del lavoro che ha a che fare con la sensualità e la dirittura di un portamento nobile. (pp. 19-20)
*[[Saša|Sascia]] non ha mai capito il suo nome. Se è mai possibile un sentimento del genere nei confronti di una parte di se stessi così intima, Sascia potrebbe odiarlo quel nome. Nello stesso tempo se lo stringe a sé teneramente ogni volta, e cioè ogni giorno, quando le viene sottratto per essere deturpato in qualche stupido modo. La gente dei vicoli, i bottegai, i bambini della piazza, la maestra della scuola, hanno dato a vedere nel corso degli anni di non apprezzare un nome che per loro non significa nulla, che non ha nessun santo a difenderlo, e che, soprattutto, alla lingua genovese risulta impossibile da pronunciare in modo piano. Senza strascicarlo e strattonarlo e insultarlo, alla fine, con un orribile accento che storpia una bella bambina e la riduce alla caricatura di una signora che sa sempre tutto: "Sa a scià". Sascia vorrebbe potersi chiamare Maria o Lucia o qualunque altro nome passabile che non la costringa a doversene occupare in continuazione come di un difetto fisico, una menomazione che la obbliga a esibirlo con cautela ovunque vada. Ma Sascia in cuor suo sente anche che il suo nome la rende unica tra la gente di piazza Stella, la distingue e la separa, la fa in qualche modo partecipe della nobiltà di suo padre, di ciò che di essa è rimasto nell'uomo in fuga dalla sua terra e dal suo ufficio. (p. 21)