Fausta Cialente: differenze tra le versioni

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'''Fausta Cialente''' (1898 – 1994), scrittrice italiana.
 
==Citazioni di Fausta Cialente==
*Il compito di un [[Scrittore|narratore]] è anzitutto quello di rappresentare. Un [[libro]] che si apre è come un sipario che si alza: i personaggi entrano in scena, la rappresentazione comincia.<ref name=>citatoCitato in ''Fausta Cialente vince il «Savarese», ''La Fiera Letteraria'', n. 16, aprile 1973.</ref>
 
==''Le quattro ragazze Wieselberger''==
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*{{NDR|Su proprio padre}} La collera e lo sdegno che gli conoscevo da sempre gli venivano dal suo disprezzo per i regnanti e per la carriera alla quale non s'era mai adattato e l'aveva indubbiamente fatto soffrire; ma la sua ribellione, le sue critiche non si legavano — come dovetti giudicare più tardi — alla realtà d'un fermento sociale che gli era invece estraneo e del quale non riusciva a cogliere i bagliori. L'avevo, sì, udito condannare aspramente l'infamia del Bava Beccaris di tanti anni prima, ma anche quell'episodio, per lui vergognoso, l'aveva messo sul conto dell'ottusità e del cinismo dei regnanti e della viltà d'un governo che giudicava incapace o irresponsabile — mai reazionario e classista. Sembrava anzi ignorare non solo il significato di questi termini, che del resto non adoperava, ma anche la crescente potenza d'una classe dirigente borghese, quindi non poté allora capire quel che la storia c'insegnò poco dopo, a noi che non avevamo ancora vent'anni: e cioè che la guerra del '15 non era stata affatto una continuazione del Risorgimento (oh, le frasi romantiche e patetiche che come zucchero caramellato filavano nell'aria scintillante del giardino di via dell'Istria!) bensì la grossa manovra d'una borghesia paurosa e irritata che voleva sopra tutto ostacolare l'avanzata del socialismo. Anche i reazionari triestini irredentisti avevano dimostrato, al tempo loro, come il Venezian, un congenito disprezzo per i lavoratori ("date il superfluo ai poveri!") e un loro miope, livido antisocialismo. La conseguenza che ai nostri occhi diveniva sempre più chiara ed evidente era che la borghesia nazionale aveva senz'alcuno scrupolo gettato in guerra una massa composta quasi unicamente di contadini, e di contadini del sud, i più ignoranti e i più miseri, quindi i più adatti a esser precipitati in un conflitto di cui non avrebbero capito nulla e avrebbero sopportato come una delle tante sciagure che piovevano sulla loro vita faticosa e primitiva — un diluvio o un terremoto, per l'appunto — con quella pazienza e quella rassegnazione che insegnava loro una chiesa tanto dolce e mite per i ricchi e tanto severa per i poveri. (parte III, cap. II, p. 175)
*Non gli piaceva, quella parola [rivoluzione], è chiaro; e nemmeno che le donne, costrette a sostituire gli uomini e a farsi operaie, si agitassero tanto e andassero per le strade urlando a contestare la guerra, a chiedere pane e pace. A me sembrava giusto, invece, una finestra s'era, per esse, fortunatamente spalancata sul mondo e sulla realtà, ma a lui le donne piacevano a casa, era indubbio; ancora meglio nel letto degli uomini, le "male arti" a loro esclusivo servizio, anche se camuffate nel matrimonio. (parte III, cap. III, p. 185)
*{{NDR|Dopo [[battaglia di Caporetto|Caporetto]]}} Una specie di patriottismo s'era svegliato anche in me, ed era logico. Per quanto educata fin da bambina a vedere le cose in una luce realistica, e quasi mai dilatata la loro importanza, l'idea del "nostro suolo calpestato dal nemico" mi sconvolgeva, era un prezzo troppo alto che pagavamo all'imprevidenza e insufficienza dei comandi, all'ottusa stupidità dei governi e dei politici. Tuttavia non potevo allora capire, né, con me, i miei giovani amici, che la furibonda reazione di certa borghesia sedicente patriottica ci preparava il fascismo; c'era chi aveva ben calcolato quanto una disfatta poteva generarlo! Lo capimmo più tardi quando a guerra finita tornarono i combattenti e li vedemmo insoddisfatti, delusi o stomacati da ciò che trovarono nel paese: chi s'era tranquillamente imboscato o spudoratamente arricchito, altri avevano tutto perduto, e ai giovani o quasi giovani reduci la ricompensa che la nazione offriva dopo tanti rischi, rinunce e sacrifici era un avvenire incerto, deludente o misero addirittura; nulla da stupire quindi se tanti di essi, spesso in buona fede, qualche tempo dopo si lasciarono trascinare sulla via sbagliata. (parte III, cap. III, p. 190)
*Nella casa di mio marito, a Alessandria, avevo trovato un'assai ricca biblioteca e mi ci ero gettata dentro con l'entusiasmo della mia età. Tutto era meravigliosamente nuovo, per me, e tutto leggevo con avidità. La " ''Nouvelle Revue Française'' ", ch'era nei suoi anni migliori, i più splendenti forse, tra le due guerre; la rivista politico-letteraria " ''Europe'' ", la " ''Revue Musicale'' ", allora diretta da [[Henri Prunières]]. Mi nutrivo abbondantemente e disordinatamente di cultura francese sopra tutto, ma anche di quel che ci offrivano allora l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Avevo ritrovato con una gioia immensa le opere complete di Conrad, e poi fu, via via, l'incontro fatale con [[André Gide]] che divenne per molti anni il mio autore prediletto («quanto ti piace il diavolo che c'è in lui!» diceva sogghignando mio marito), con Roger Martin de Gard, [[Alain-Fournier]], [[Raymond Radiguet]], la [[Katherine Mansfield|Mansfield]], e più tardi la Woolf, Proust, [[James Joyce|Joyce]]; e mi sentii come folgorata la prima volta che lessi ''La Metamorfosi'' di [[Franz Kafka|Kafka]] e ''La morte a Venezia'' di [[Thomas Mann|Mann]]. (parte IV, cap. I, pp. 208-209)
*L'impero crollato era forse soltanto un sogno per qualche suo poeta che lo vedeva ancora in una luce favolosa e romantica, visione accompagnata di certo dalla brillante, lieta armonia dei walzer; a me era caro invece il ricordo di non averlo odiato, come avrebbe voluto l'ingannevole e torbida storia che c'insegnavano, e di aver odiato piuttosto le deplorevoli follie dei visionari che ci avevano buttato in una guerra di cui portavamo ancora i segni dolorosi, ma ch'era servita se non altro a far maturare il mio giusto risentimento. (parte IV, cap. II, p. 218)
*La Resistenza era stata, certo, una bellissima pagina che qualche speranza aveva suscitato in tutti noi, e col nostro giornale l'avevamo esaltata il più possibile; ma era ''una'' pagina soltanto, e per di più era stata condotta da una minoranza, proprio come da una minoranza era stato fatto il nostro Risorgimento su cui ancora oggi si discute, illuminandone gli angolini. Le pagine che in seguito si sarebbero lentamente voltate sotto i miei occhi durante anni, non ebbero proprio nulla che potesse esaltarmi o confortarmi; così, a freddo, facevo del giornalismo con ben poco convincimento e avevo cominciato a scrivere la ''Ballata''. Dovevo ogni tanto ripensare a mio padre quando aveva detto all'avvento del fascismo: "siamo un gran popolo di cialtroni", continuavo a non dargli ragione, ma il comportamento, o meglio il costume degl'italiani è quasi sempre tale che ho quasi sempre voglia di andarmene, e non perché "fuori" io trovi gran che di meglio, ma essendo fuori non vedo e non sento. (parte IV, cap. III, p. 240)
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[[Categoria{{DEFAULTSORT:Scrittori italiani|Cialente, Fausta]]}}
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