Manlio Cancogni: differenze tra le versioni

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*L'indomani {{NDR|delle aggressioni degli squadristi}}, i contadini, i capilega o qualche dirigente socialista, andavano dai carabinieri a denunciare le bastonature, i ferimenti, le uccisioni, gli incendi, il saccheggio: i carabinieri li cacciavano via, e, se insistevano, li arrestavano. Avevano l'ordine di fare così. Nessuno osava testimoniare contro il capitano [[Cesare Forni|Forni]] che si faceva vedere in pubblico durante il giorno, alto e grosso, con la faccia spavalda, come se niente fosse accaduto. Eppure tutti sapevano che era alla testa delle squadre. (Capitolo terzo, p. 69)
*Carosi<ref>«Nel pisano primeggiava su tutti Sandro Carosi, un farmacista di Vecchiano ch'era diventato il terrore della provincia», M. Cancogni, ''op. citata'', p. 106.</ref> giocava con l'arma e intanto guardava, senza parlare, gli operai e i contadini che, dal momento che i fascisti erano entrati, tacevano fermi ai loro tavoli con le carte in mano. «Tu», disse indicandone uno. L'interpellato guardava impaurito ora gli amici ora il fascista. «Mettiti là», disse Carosi. Indicandogli il punto con la pistola lo fece andare in fondo alla stanza con le spalle appoggiate al muro. Si alzò, si accostò a una credenza, prese da una fruttiera una mela, la mise sulla testa dell'uomo. «Adesso sta' fermo», disse. Andò al capo opposto della stanza, puntò la pistola, fece fuoco. L'uomo scivolò per terra colpito in fronte. Si chiamava Pietro Pardi. (Capitolo VI, p. 107)
 
*Nei primi tempi dello squadrismo a Cremona, i socialisti avevano dato a [[Roberto Farinacci]] il soprannome di Tettoia che poi gli conservarono anche quando, alle elezioni del '21, fu eletto deputato. Lo chiavano così perché era impiegato alle ferrovie, ma il soprannome nascondeva un'allusione maligna. Infatti Farinacci, durante la guerra, benché fosse interventista e avesse l'età e la salute per la vita di trincea, era rimasto in servizio nelle ferrovie, non staccandosi mai dall'amica tettoia. (Capitolo ottavo, p. 137)
 
*{{NDR|Francesco}} Misiano durante la guerra {{NDR|del 1915-18}} aveva disertato e alle elezioni del '19 era stato eletto alla Camera dai socialisti. [[Gabriele D'Annunzio|D'Annunzio]] gli aveva promesso «il castigo supremo a ferro diaccio» e i fascisti non perdevano un'occasione per offenderlo e tormentarlo. Il poveretto girava armato di pistola, ma con quell'arma non aveva mai sparato un colpo.<br>Un giorno alla Camera, un gruppo di deputati fascisti gli dette l'assalto. Misiano estrasse la rivoltella ma non premette il grilletto e, dopo qualche secondo d'incertezza, consegnò l'arma. Farinacci se ne impadronì e come se fosse stato lui a disarmare il nemico, andò a mostrarla a [[Giovanni Giolitti|Giolitti]] che non s'era mosso dal suo scanno presidenziale. «Con questa pistola», gridò, «si tentava di assassinare i deputati d'Italia.»<br>Giolitti annuiva senza rispondere. «Gliela consegno», insisté Farinacci gettando la pistola sul banco. Giolitti guardò la pistola senza toccarla. «Veramente», rispose, «non ho il porto d'armi.» (Capitolo ottavo, p. 137-138)
 
*Facendo il lattaio, il carbonaio, l'incettatore di fieno, di lana, l'allevatore di pecore, di maiali, il camionista, {{NDR|[[Amerigo Dumini]], trasferitosi in Cirenaica}} era riuscito a frasi una posizione. S'era anche sposato con la figlia di un colono dell'altipiano, una ragazza molto più giovane di lui, piccola e timida. Allo scoppio della guerra {{NDR|seconda guerra mondiale}} viveva a Derna dove dirigeva una azienda di trasporti. S'era fatto molti amici fra gli arabi. Forse quella gente apprezzava proprio ciò che nella sua persona lo rendeva pauroso agli occhi degli italiani: la fissità opaca dello sguardo, la capacità di tacere a lungo guardando nello stesso punto, l'incedere duro e indifferente, e quella sorta di fatalità che lo accompagnava dovunque fosse. (Capitolo undicesimo, p. 200)