Indro Montanelli e Mario Cervi: differenze tra le versioni

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*Pietro Cavallero, che nel settembre 1967 aveva compiuto con la sua ''gang'' una rapina nella quale tre persone persero la vita, proclamava esaltato che «colpendo le banche io colpivo il sistema capitalistico nel suo cuore vitale, nel suo simbolo più evidente e prepotente». Erano i germi della contestazione e del terrorismo. Milano era matura per altri – e bui – anni e destini. I sindaci che erano politici ''part-time'', come Greppi, Ferrari, Cassinis, lo stesso Bucalossi, avevano fatto il loro tempo. S'erano preoccupati della città più che della popolarità. Scoccava l'ora degli uomini pienamente fedeli al motto di Nenni: ''politique d'abord''. Scoccava l'ora di Aldo Aniasi.
*L'11 marzo 1969 Trimarchi tenne una sessione di esame. Quattro studenti superarono la prova, il quinto cadde perché, lo ammette Capanna, «francamente impreparato». Lo studente, Marco Orefice, chiese gli fosse restituito lo «statino» senza che il voto fosse annotato. Trimarchi si oppose. Bisognava «convincerlo». La folla eccitata degli studenti gli ingiunse di spiegare perché volesse certificare il voto negativo (la bocciatura era ritenuta un atto d'inaudita repressione). Trimarchi taceva e resisteva. Fu «liberato» dalla forza pubblica. Nei giorni successivi gli fu impedito, con clamori e insulti, di tenere lezione. In via Albrici, inseguito e attorniato da esagitati, fu coperto di sputi. La contestazione diventava violenza. Nell'Università tra gli irruenti seguaci di Capanna s'andavano consolidando le schiere dei katanghesi nel cui arsenale facevano la loro apparizione le bottiglie molotov. Sull'opposto fronte politico i neofascisti, in grande inferiorità numerica, abbozzarono o progettarono conati di reazione.
*La contestazione camminò a un certo punto parallelamente alle grandi rivendicazioni operaie del momento, senza mai saldarsi veramente da esse. In questa Milano inquieta, e a giorni angosciata, che vedeva dissipati in breve tempo i frutti – per la verità non distribuiti equamente – del «miracolo economico» e d'una straordinaria crescita sociale, deflagrò la [[Strage di piazza Fontana|bomba di piazza Fontana]]. Un'esplosione terrificante, la cui caligine morale politica e giudiziaria pesa tuttora sulla città.
*Erano le 16.37 del 12 dicembre 1969. Un venerdì, e l'orario di chiusura della Banca dell'Agricoltura, in [[Strage di piazza Fontana|piazza Fontana]], era passato già di mezz'ora abbondante. Ma nel salone si assiepava ancora la clientela – tra essa molti agricoltori o mediatori provenienti dalla provincia – che stava concludendo le operazioni. L'ordigno distruttore era collocato sotto un tavolo attorno al quale molta gente compilava moduli o consultava documenti. È superfluo chiedersi se l'attentatore avesse fisato il ''timer'' della bomba su un'ora in cui riteneva che la banca sarebbe stata vuota, o se di proposito avesse voluto fare una carneficina. Sta di fatto che la banca era gremita e l'ordigno provocò 16 morti e molti feriti. Tra questi ultimi un ragazzino, Enrico Pizzamiglio, cui dovette essere amputata una gamba dilaniata: tragico, vivente simbolo d'uno dei più tenebrosi episodi della vita della città, e dell'Italia.
*Nel corso degli anni i riflettori dell'accusa si spostarono dagli anarchici ai neofascisti. Valpreda fu assolto anche se un tassista di probità insospettabile, Cornelio Rolandi, comunista, aveva riconosciuto in lui un «cliente» portato in piazza Fontana in concomitanza con l'attentato. È possibile, anzi probabile, che il povero Rolandi, da tempo morto, si fosse sbagliato. Ma il linciaggio morale cui fu sottoposto ebbe aspetti crudeli.
*Il mite anarchico [[Giuseppe Pinelli]] – uno specchiato galantuomo – precipitò nel cortile della Questura di Milano, da un locale del quarto piano, mentre veniva interrogato sui possibili coinvolgimenti di suoi compagni di fede nell'atto terroristico. Era stato buttato nel vuoto dagli inquirenti, asserirono molti esponenti della sinistra e d'un giornalismo che si definiva «impegnato». Questa tesi – poi smentita dall'epilogo di due istruttorie – fu corredata dall'indicazione d'un colpevole del «delitto»: il commissario di polizia Calabresi. Era un'accusa temeraria. Non fu neppure dimostrato, anzi venne escluso, che Calabresi si trovasse nella stanza dell'interrogatorio di Pinelli al momento della tragedia. Ma si ritenne non occorressero prove per fare di Calabresi il bersaglio di fanatici «giustizieri». Il giovane commissario doveva essere, per logica politica, il bieco boia d'un innocente.