Walter Barberis: differenze tra le versioni

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*L'[[unità]], nella storia italiana, quasi mai andò oltre la dimensione del nucleo famigliare. E la differenza dei ruoli, pur nella condivisa appartenenza a una comunità, rimase un concetto pressoché sconosciuto. (I, I; p. 23)
*Venezia fu la capitale di uno Stato, dove tutti, le primarie famiglie patrizie, i grandi e piccoli mercanti, gli artigiani e i marinai furono assoggettati a una rigida struttura giuridica e a un preciso sistema di comando. L'interesse privato e lo spirito di servizio si confusero in una realtà statuale fondata sulle ragioni dell'economia. Fu senza dubbio un'esperienza unica. A cui contribuirono tre principali fattori.<br />In primo luogo, la sostanziale assenza di un'autorità religiosa che contendesse il potere alle autorità civili. [...]<br />In secondo luogo, il [[doge]] non fu mai un principe; ma soltanto il rappresentante di una magistratura repubblicana, il vertice designato di una struttura di consigli. [...]<br />In terzo {{sic|luogo Venezia}} esaltò l'idea della propria indipendenza: mai affidò a stranieri cariche di comando o pubblici uffici. (I, II; p. 35)
*[...] l'Italia ha vinto, con Venezia prima e con il Piemonte poi, quando ha alleato tutte le iniziative di una società vitale con delle istituzioni pubbliche; e ha perso, regolarmente, quando questa alleanza fra il privato e il pubblico non si è realizzata. Per secoli, sino ai fatidici anni Sessanta dell'Ottocento. E comunque, con alterne fortune, anche dopo.<br />Di [[Niccolò Machiavelli|Machiavelli]] si ricorda con proterva inesattezza l'adagio di comodo maneggio individuale secondo cui il fine giustifica i mezzi, ma si ignora che l'intero corpo della sua riflessione fa perno sulla necessità di un elemento fiduciario fra governanti e governati e sulla convinzione che solo un solido apparato militare nazionale ne sia il garante interno ed esterno. (I, III; pp. 39-40)
*La [[memoria]] infatti, secondo un grande testimone del Novecento, [[Primo Levi]], è «meravigliosa ma fallace»: ovvero è semplicemente individuale, inesorabilmente particolare, soggettiva, intima, e non può essere scambiata con quella di altri. Essa è un angolo visuale ed emotivo irriducibilmente personale, soggetta proprio per ciò a fenomeni di logoramento fisiologico, di rimozione, di alterazione: fino alla creazione di quelle verità di comodo che altro non sono che la soglia di tollerabilità di un ricordo doloroso, di una memoria di avvenimenti traumatici bisognosi di una edulcorazione, di una riscrittura intima. Ma non solo: la memoria è la risorsa primaria di una testimonianza, ma è anche la fonte eccellente del falso in buona fede, ancorché del falso in mala fede, della manipolazione intenzionale del ricordo. La memoria è di parte, come parziale è lo sguardo su cui si fonda. E la parzialità, lo scontro fra sguardi diversi, la contesa fra memorie differenti, di memorie che tendono a farsi storia, è esattamente ciò che una società deve evitare. (II, I; pp. 53-54)
*Ma è storia recente, tutta a ridosso della nostra, quella che ha inventato l'''ethnos'' a svantaggio del ''demos''. Le premesse erano tutt'altre. E l'Italia, per la sua posizione, non fu altro che quello, fino alle estreme conseguenze, anche negative: un ponte fra civiltà, la piazza degli incontri piú significativi. Questo l'ha fatta diversa, la molteplicità degli uomini e delle culture: questo è il suo tratto di identità, la sua esperienza, il contributo storico all'Europa che fu, il fondo di conoscenza possibile per l'Europa che viene. Questa è la patria degli italiani. (III, III; p. 135)