Attilio Momigliano: differenze tra le versioni

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*{{NDR|''Il Milione'' è}} il libro più grandioso del Duecento: leggendolo vi si sente l'uomo felice di aver vissuto una vita così straordinaria: un senso di potente fecondità, di incommensurabile ricchezza, di gigantesca attività sale da queste pagine; e [[Marco Polo]], il protagonista instancabile e imperterrito, sembra un personaggio degno d'esser messo vicino all'Ulisse dantesco. (da ''Storia della letteratura italiana''<ref name=Ant>Citato in ''Antologia della critica'', p. 16, ''Letteratura Italiana'', Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1965.</ref>)
*Il [[Carlo Porta|Porta]] è uno di quegli uomini franchi che non offendono nemmeno quando spiattellano la verità sul muso. (in Acrosso, p. 485)
*Le sue pagine più grandi sono questa squallida trenodiatrenodìa di mastro-don Gesualdo e l'elegia che chiude ''I Malavoglia'': la nostalgia del lavoro e la nostalgia delle pareti sacre della casa, i due motivi dominatori dello spirito verghiano. Dopo il [[Alessandro Manzoni|Manzoni]] nessuno ha scritto in Italia pagine marmoree come quelle della morte di don Gesualdo: per la loro grandezza sinistra, per la loro sobrietà terribile le so paragonare soltanto alla scena del Griso che deruba don Rodrigo. Don Gesualdo muore, abbandonato dalla figlia, affidato ai servi cinici: il tono freddo di quelle due pagine ripercuote sordamente il loro fastidio e la loro insensibilità. Bisogna leggerle e ripensare alla nostra letteratura contemporanea, per sentire l'enorme differenza tra l'arte e la frase.<ref>Da ''Dante, Manzoni, Verga'', D'Anna, 1955, pp. 258-260.</ref> (in Acrosso, p. 597)
*L'unico vero e grande storico dei primi secoli della nostra letteratura è [[Dino Compagni]], contemporaneo di [[Dante Alighieri|Dante]] e simile a lui per forza della tempra morale ed artistica. (da ''Storia della letteratura italiana''<ref name=Ant/>)
*{{NDR|Riferendosi alla frase «Il coraggio, uno non se lo può dare»}} Questa confessione è un così fedele e compiuto ritratto di [[Alessandro Manzoni|Don Abbondio]], circoscrive così bene l'angustia invincibile del suo spirito, svela una tale penosa coscienza della sua natura e una tale rassegnazione a non saperla mai varcare, che in questo momento il nostro giudizio tace. (citato in Tommaso Giartosio, ''Perché non possiamo non dirci'', Feltrinelli, 2004, p. 182)