Ethica: differenze tra le versioni

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della Sostanza, ovvero una realtà che esiste grazie a (o sulla base di) un'altra realtà, senza la quale la
realtà considerata è inconcepibile.<br />
6. Per ''[[Dio]]'' intendo un Ente assolutamente infinito: cioè una Sostanza che consta di infiniti attrib utiattributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita.<br />
ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita.<br />
'''''Spiegazione''''': Dico infinita ''assolutamente'', e non ''nel suo genere'': infatti a un ente qualsiasi, infinito soltanto nel suo genere, non possiamo sostenere che manchino infiniti attributi; ma all'ente che è infinito ''assolutamente'' compete un'essenza alla quale, invece, è ''proprio'' tutto ''ciò'' che esprime un ''essere'' e che non implica alcuna negazione.<br />
7. Si dice ''libera'' quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura e che solo da se stessa è determinata ad agire; si dice invece ''necessaria'', o piuttosto ''coatta'', la cosa che è determinata da un'altra cosa, e con criteri certi e definiti, ad esistere e ad agire. (Quando sia impiegato in contrapposizione a "contingente" [= ''che può esserci o no''] il termine "necessario" vale invece ''che non può non esserci'': come si vedrà più avanti).<br />
8. Per ''Eternità'' intendo l'esistenza stessa, in quanto essa è pensata discendere necessariamente dalla sola definizione di ''cosa eterna''.<br />
è determinata ad agire; si dice invece ''necessaria'', o piuttosto ''coatta'', la cosa che è determinata da
'''''Spiegazione''''': Una tale ''esistenza'' si concepisce infatti – allo stesso modo dell'''essenza'' della cosa eterna predetta – come una ''verità eterna'' (= affermazione il cui contrario non è logicamente concepibile): per la qual cosa essa non può spiegarsi per mezzo della durata o dei tempo; anche se la durata sia pensata senza principio e senza fine.
un'altra cosa, e con criteri certi e definiti, ad esistere e ad agire. (Quando sia impiegato in contrapposizione
a "contingente" [= ''che può esserci o no''] il termine "necessario" vale invece ''che non può non
esserci'': come si vedrà più avanti).<br />
8. Per ''Eternità'' intendo l'esistenza stessa, in quanto essa è pensata discendere necessariamente dalla
sola definizione di ''cosa eterna''.<br />
'''''Spiegazione''''': Una tale ''esistenza'' si concepisce infatti – allo stesso modo dell'''essenza'' della cosa eterna predetta – come
una ''verità eterna'' (= affermazione il cui contrario non è logicamente concepibile): per la qual cosa essa non può spiegarsi
per mezzo della durata o dei tempo; anche se la durata sia pensata senza principio e senza fine.
 
{{NDR|Spinoza, ''Etica'', traduzione di Renato Peri, [http://www.fogliospinoziano.it/etica.pdf ''fogliospinoziano.it'']}}
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====Originale====
'''Pars secunda – De Naturâ et Origine Mentis'''<br />
Transeo jam ad ea explicanda, quae ex Dei, sive Entis aeterni, et infiniti essentiâ necessariò debuerunt sequi. Non quidem omnia ; infinita enim infinitis modis ex ipsâ debere sequi Prop. 16 Part. 1 demonstravimus : sed ea solummodo, quae nos ad Mentis humanae, ejusque summae beatitudinis cognitionem, quasi manu, ducere possunt. <br />
Definitiones <br />
1. Per corpus intelligo modum, qui Dei essentiam, quatenus, ut res extensa, consideratur, certo, et determinoto modo exprimit ; vid. Coroll. Prop. 25 Part. I.<br />
2. Ad essentiam alicujus rei id pertinere dico, quo dato res necessariò ponitur, et quo sublato res necessariò tollitur ; vel id, sine quo res, et vice versa quod sine re nec esse, nec concipi potest.<br />
<br />
3. Per ideam intelligo Mentis conceptum, quem Mens format, propterea quòd res est cogitans.<br />
2. Ad essentiam alicujus rei id pertinere dico, quo dato res necessariò ponitur, et quo sublato res necessariò tollitur ; vel id, sine quo res, et vice versa quod sine re nec esse, nec concipi potest.
<br />
3. Per ideam intelligo Mentis conceptum, quem Mens format, propterea quòd res est cogitans.
<br />
'''Explicatio''': Dico potiùs conceptum, quam perceptionem, quia perceptionis nomen indicare videtur, Mentem ab objecto pati. At conceptus actionem Mentis exprimere videtur. <br />
4. Per ideam adaequatam intelligo ideam, quae, quatenus in se sine relatione ad objectum consideratur, omnes verae idae proprietates, sive denominationes intrinsecas habet.<br />
 
'''Explicatio''': Dico intrinsecas, ut illam secludam, quae extrinseca est, nempe convenientam ideae cum suo ideato.<br />
4. Per ideam adaequatam intelligo ideam, quae, quatenus in se sine relatione ad objectum consideratur, omnes verae idae proprietates, sive denominationes intrinsecas habet.
5. Duratio est indefinita existendi continuatio.<br />
<br />
'''Explicatio''': Dico indefinitam, quia per se ipsam rei existentis naturam determinari nequaquam potest, neque etiam à causâ efficiente, quae scilicet rei existentiam necessariò ponit, non autem tollit.<br />
'''Explicatio''': Dico intrinsecas, ut illam secludam, quae extrinseca est, nempe convenientam ideae cum suo ideato. <br />
6. Per realitatem, et perfectionem idem intelligo.<br />
 
5. Duratio est indefinita existendi continuatio.
<br />
'''Explicatio''': Dico indefinitam, quia per se ipsam rei existentis naturam determinari nequaquam potest, neque etiam à causâ efficiente, quae scilicet rei existentiam necessariò ponit, non autem tollit. <br />
 
6. Per realitatem, et perfectionem idem intelligo.
<br />
7. Per res singulares intelligo res, quae finitae sunt, et determinatam habent existentiam. Quòd si plura Individua in unâ actione ità concurrant, ut omnia simul unius effectûs sint causa, eadem omnia eatenus, ut unam rem singularem, considero.
<br />
 
====Traduzione====
'''Parte II – La Mente Umana''' <br />
''Passo ora a spiegare le cose che hanno dovuto derivare necessariamente dall'essenza di Dio, cioè dell'Essere eterno e infinito. Naturalmente non le spiegherò tutte – sono infinite (come ho dimostrato: P. 1, Prop. 16) le cose che in infiniti modi debbono derivare da quell'essenza; mi limiterò a spiegare quelle che possono condurci, come per mano, alla conoscenza della Mente umana e della sua suprema beatitudine.''<br /> ''Definizioni'' <br /> 1. Per ''[[Corpo]]'' intendo un ''modo'', cioè una manifestazione (o forma) circoscritta e individuabile, che esprime in maniera certa e determinata l'essenza di Dio, in quanto egli è considerato come cosa estesa (P. 1, Conseg. d. Prop. 25). <br /> 2. Dico che ''appartiene all'essenza di una cosa'' ciò che, ''essendoci'', fa sì che la cosa ''sia'' necessariamente, e che, ''venendo a mancare'', fa sì che la cosa ''venga meno'' necessariamente; ovvero ciò senza di cui la cosa considerata non può essere né esser pensata, e, viceversa, ciò che senza quella cosa non può essere né esser pensato. <br /> 3. Per ''Idea'' intendo un concetto della [[Mente]], che la Mente forma perché è una ''cosa pensante''.<br /> '''''Spiegazione''''': Dico ''concetto'' piuttosto che ''percezione'', perché il termine "percezione" sembra indicare che la Mente, passiva, riceva una qualche impressione dall'oggetto: mentre il termine "concetto" sembra esprimere un'''azione'' della Mente. <br /> 4. Per ''Idea'' adeguata intendo un'idea che, in quanto è considerata in sé, senza relazione a un oggetto, possiede tutte le proprietà o le caratteristiche intrinseche di un'idea vera; ossia che corrisponde a una concezione razionale e logica nell'ambito di ciò che è nelle possibilità della Sostanza.<br /> '''''Spiegazione''''': Dico infatti proprietà ''intrinseche'' per escludere quella proprietà che è ''estrinseca'': e che è la convenienza dell'idea vera col suo ''ideato'', ossia col suo oggetto quale-esso-è-in-sé (v. P. 1, Ass. 6). <br /> 5. Per ''Durata'' intendo la continuazione indefinita dell'esistenza.<br /> '''''Spiegazione''''': Dico continuazione indefinita perché essa non può mai esser definita, o determinata, dalla natura stessa della cosa esistente, e neanche dalla sua causa efficiente: la quale pone sì necessariamente l'esistenza della cosa, ma non può toglierla. <br /> 6. Per ''[[Realtà]]'' e per ''[[Perfezione]]'' intendo la medesima cosa. <br /> 7. Per ''Cose singolari o singole'' intendo le cose che hanno un'estensione finita e un'esistenza determinata. Se molte Cose singolari (o Individui, se hanno tali caratteristiche di semplicità e di riconoscibilità) cooperino a una medesima azione in modo di essere, tutte insieme, la causa di un unico effetto, io le considero, per questa circostanza, come una sola Cosa singolare.
 
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'''Parte III – Sentire e Sapere''' <br />
'''Prefazione''' <br />
Il maggior numero di coloro che hanno trattato dei sentimenti e della maniera di vivere degli umani sembrano occuparsi non di cose naturali, soggette alle ordinarie leggi della natura, ma di cose estranee alla natura stessa; e addirittura sembrano considerare la posizione dell'Uomo nella natura come quella di uno Stato in uno Stato, credendo, come credono, che l'Uomo turbi l'ordine della natura più che seguirlo, che egli abbia sulle sue azioni un potere assoluto, e che non sia determinato nel suo agire che da se stesso. Essi poi attribuiscono la causa dell'impotenza e dell'incostanza umane non all'ordinario potere della Natura, ma a non so quale difetto della specifica natura umana: che per questa ragione essi compiangono, o deridono, o disprezzano, o – come accade più spesso – deprecano; e a chi sa con maggiore eloquenza o con maggiore arguzia criticare l'impotenza della Mente umana s'attribuisce la più alta ispirazione. Non sono mancati tuttavia uomini di grande valore (alla cui fatica e alle cui ricerche riconosco di dover molto) che hanno scritto parecchie cose eccellenti sulla retta maniera di vivere e hanno dato ai mortali consigli pieni di prudenza; nessuno però, ch'io sappia, ha definito la natura e le forze dei Sentimenti, e quanto possa d'altra parte la Mente per governarli. So certo
Il maggior numero di coloro che hanno trattato dei sentimenti e della maniera di vivere degli umani
che il celeberrimo Cartesio – sebbene anch'egli abbia creduto che la Mente ha sulle sue azioni un potere assoluto – s'è sforzato di spiegare i Sentimenti umani mediante le loro cause prime, e insieme di mostrare la via per la quale la Mente possa avere sui Sentimenti un dominio totale; però, a mio parere almeno, egli non ha reso noto altro che l'acume del suo grande ingegno, come a suo luogo dimostrerò. Ma torniamo a coloro che al capire i sentimenti e le azioni degli umani preferiscono deprecarli o deriderli. Essi giudicheranno indubbiamente degno di meraviglia che io mi dedichi a trattare razionalmente i vizi e le stupidaggini degli umani, e che voglia dimostrare in maniera inoppugnabile cose che essi proclamano a gran voce ripugnanti alla ragione, vane, assurde, orrende. Ma il mio criterio è proprio questo. In natura niente accade che possa imputarsi a un difetto della natura stessa: la natura è infatti sempre la medesima, e dappertutto la sua virtù e il suo potere d'agire sono identici; ossia, le leggi naturali e le regole di natura, in conformità delle quali tutto accade e tutto si trasforma, sono sempre e dappertutto le stesse: e pertanto dev'esserci un solo, e sempre lo stesso, criterio di interpretazione delle cose-come-sono, quali che esse siano: criterio che s'identifica con le leggi e le regole universali della natura. Quindi i Sentimenti di odio, di ira, di invidia, eccetera, considerati in se stessi, procedono dalla stessa necessità e dalla stessa virtù della natura da cui procedono tutte le altre cose singole; e quindi riconoscono cause determinate, mediante le quali essi sono compresi, ed hanno determinate proprietà, degne d'esser conosciute da noi esattamente come le proprietà di qualsiasi altra cosa di quelle della cui contemplazione ci dilettiamo. Con lo stesso metodo, pertanto, col quale nelle pagine precedenti ho trattato di Dio e della Mente, tratterò ora della natura e delle forze dei Sentimenti, e del potere che la Mente ha su di essi; e considererò le azioni e le inclinazioni umane come se fosse questione di linee, di superfici e di solidi.
sembrano occuparsi non di cose naturali, soggette alle ordinarie leggi della natura, ma di cose estranee
alla natura stessa; e addirittura sembrano considerare la posizione dell'Uomo nella natura come
quella di uno Stato in uno Stato, credendo, come credono, che l'Uomo turbi l'ordine della natura più
che seguirlo, che egli abbia sulle sue azioni un potere assoluto, e che non sia determinato nel suo agire
che da se stesso. Essi poi attribuiscono la causa dell'impotenza e dell'incostanza umane non
all'ordinario potere della Natura, ma a non so quale difetto della specifica natura umana: che per questa
ragione essi compiangono, o deridono, o disprezzano, o – come accade più spesso – deprecano; e a
chi sa con maggiore eloquenza o con maggiore arguzia criticare l'impotenza della Mente umana
s'attribuisce la più alta ispirazione. Non sono mancati tuttavia uomini di grande valore (alla cui fatica e
alle cui ricerche riconosco di dover molto) che hanno scritto parecchie cose eccellenti sulla retta maniera
di vivere e hanno dato ai mortali consigli pieni di prudenza; nessuno però, ch'io sappia, ha definito
la natura e le forze dei Sentimenti, e quanto possa d'altra parte la Mente per governarli. So certo
che il celeberrimo Cartesio – sebbene anch'egli abbia creduto che la Mente ha sulle sue azioni un potere
assoluto – s'è sforzato di spiegare i Sentimenti umani mediante le loro cause prime, e insieme di
mostrare la via per la quale la Mente possa avere sui Sentimenti un dominio totale; però, a mio parere
almeno, egli non ha reso noto altro che l'acume del suo grande ingegno, come a suo luogo dimostrerò.
Ma torniamo a coloro che al capire i sentimenti e le azioni degli umani preferiscono deprecarli o deriderli.
Essi giudicheranno indubbiamente degno di meraviglia che io mi dedichi a trattare razionalmente
i vizi e le stupidaggini degli umani, e che voglia dimostrare in maniera inoppugnabile cose che essi
proclamano a gran voce ripugnanti alla ragione, vane, assurde, orrende. Ma il mio criterio è proprio
questo. In natura niente accade che possa imputarsi a un difetto della natura stessa: la natura è infatti
sempre la medesima, e dappertutto la sua virtù e il suo potere d'agire sono identici; ossia, le leggi naturali
e le regole di natura, in conformità delle quali tutto accade e tutto si trasforma, sono sempre e
dappertutto le stesse: e pertanto dev'esserci un solo, e sempre lo stesso, criterio di interpretazione delle
cose-come-sono, quali che esse siano: criterio che s'identifica con le leggi e le regole universali della
natura. Quindi i Sentimenti di odio, di ira, di invidia, eccetera, considerati in se stessi, procedono dalla
stessa necessità e dalla stessa virtù della natura da cui procedono tutte le altre cose singole; e quindi riconoscono
cause determinate, mediante le quali essi sono compresi, ed hanno determinate proprietà,
degne d'esser conosciute da noi esattamente come le proprietà di qualsiasi altra cosa di quelle della cui
contemplazione ci dilettiamo. Con lo stesso metodo, pertanto, col quale nelle pagine precedenti ho trattato
di Dio e della Mente, tratterò ora della natura e delle forze dei Sentimenti, e del potere che la Mente
ha su di essi; e considererò le azioni e le inclinazioni umane come se fosse questione di linee, di superfici
e di solidi.
 
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====Traduzione====
'''Parte IV – Sottrarsi al Selvaggio''' <br />
'''Prefazione''' <br />
Chiamo Selvaggio, o Servitù, l'impotenza degli umani a governare e a reprimere i sentimenti: dato
che l'agire di un umano sottomesso ai sentimenti è guidato non dall'umano stesso, ma dalla sorte: in potere della quale egli si trova ad un punto tale, che spesso è costretto, sebbene veda ciò che per lui è meglio, a scegliere invece il peggio. Dimostrare la causa di questa situazione, e dimostrare inoltre che cosa i sentimenti abbiano di buono o di cattivo, è ciò che in questa Parte mi sono proposto. Ma prima di cominciare vorrei premettere poche parole a proposito della perfezione e dell'imperfezione e del bene e del male. <br /> Chi ha stabilito di fare una certa cosa, e l'ha portata a compimento, dirà che la sua opera è perfetta; e così dirà anche ognuno che conosca correttamente, o creda di conoscere, il pensiero e lo scopo dell'autore di quell'opera. Per esempio, se qualcuno vede un'opera – che suppongo non essere ancora compiuta – e sa che lo scopo dell'autore di quell'opera è, poniamo, la costruzione di una casa, dirà che, in tale suo stato, la casa è incompiuta, o imperfetta; e la dirà invece compiuta, o perfetta, dal momento che l'avrà vista portata a quel compimento che l'autore aveva progettato di darvi. Ma chi veda un'opera della quale non abbia mai visto un altro esemplare, e non conosca il pensiero del costruttore, non potrà certo sapere se quell'opera sia perfetta o imperfetta. E sembra che questo sia stato il primitivo significato di tali termini. Ma dopo che gli umani han cominciato a formarsi idee universali (v. P. II, Prop. 40, Chiarim. 1°), e a concepire modelli di case, di palazzi, di torri, eccetera, e a preferire determinati modelli di cose ad altri modelli, è accaduto che ognuno chiami perfetto ciò che gli sembri combaciare meglio con 1'idea universale che egli s'è fatto di quella tal cosa, e imperfetto, al contrario, ciò che egli veda meno combaciante col modello da lui concepito – benché a giudizio dell'artefice dell'oggetto esso possa essere perfettamente compiuto. E non sembra che sia diversa la ragione dell'abitudine, che gli umani hanno, di chiamare perfette o imperfette anche le cose naturali, quelle cioè che non sono prodotte da mano umana: ché gli umani sogliono infatti formarsi, sia delle cose naturali sia delle cose artificiali, idee universali, che essi prendono come modelli delle cose, e che secondo loro la natura (la quale, secondo loro, non fa nulla senza un fine) tiene ben presenti e adotta anch'essa come modelli. Quando poi vedono che nella natura si presenta qualche cosa che s'adatta non completamente al loro modello ideale di quella cosa, essi credono allora che la natura stessa abbia avuto un mancamento o un ghiribizzo e abbia lasciato imperfetta la cosa considerata. Vediamo pertanto che gli umani si sono abituati a chiamare le cose "perfette" o "imperfette" più per pregiudizio che per una vera conoscenza delle cose stesse. Abbiamo infatti mostrato nell'Appendice della Prima Parte che la Natura non agisce in vista d'un fine: l'Ente eterno e infinito, che chiamiamo Dio, o Natura, opera per la medesima necessità per la quale esiste. E che esso agisca per la medesima necessità di natura per
che l'agire di un umano sottomesso ai sentimenti è guidato non dall'umano stesso, ma dalla sorte: in
la quale esiste è dimostrato nella Prop. 16 della I Parte. Quindi la ragione, o la causa, per cui Dio, o la Natura, opera, e per cui esiste, è la medesima, cioè una sola. Come dunque esso non esiste per alcun fine, esso anche non opera per alcun fine; e come per il suo esistere, così per il suo operare esso non ha alcuna ragione né alcuno scopo. La causa detta finale non è nulla all'infuori dello stesso appetito umano, in quanto è considerato il principio o ragione o causa primaria di una cosa: quando diciamo, per esempio, che la causa finale di questa o quella casa è stata l'abitarci, noi sicuramente non intendiamo altro che questo, che un Uomo, per aver immaginato i vantaggi del disporre di una casa per viverci, ha avuto il desiderio, o l'appetito, di costruirsela. Quindi l'abitare, in quanto è considerato causa finale, non è altro che questo specifico appetito, il quale è in realtà una causa efficiente: che è considerata causa prima perché gli umani, ordinariamente, ignorano le cause dei loro appetiti. Essi sono infatti, come ho detto spesso, ben consapevoli delle loro azioni e dei loro appetiti, ma ignari delle cause dalle quali essi sono determinati ad appetire qualcosa. Quel che poi si dice dalla gente, che la Natura talvolta sia manchevole, o sbagli per sbagliare, e produca cose imperfette, va annoverato tra le fantasie di cui ho trattato nell'Appendice della Prima Parte. Quindi la "[[perfezione]]" e l'"[[imperfezione]]" sono, in realtà, soltanto modi del pensare: vale a dire, nozioni che noi ci costruiamo col confrontare fra di loro individui della medesima specie o del medesimo genere: e per questa ragione ho detto più sopra (P. II, Def. 6) che coi termini realtà e perfezione io intendo la medesima cosa. Noi siamo soliti, infatti, ridurre tutti gli esseri che sono in Natura a quell'unico genere che è chiamato generalissimo: appunto alla nozione 86 di ente, ossia di cosa che è: nozione pertinente a tutte, senza eccezione, le cose che sono in Natura. In quanto, allora, noi riduciamo tutti gli esseri individui della Natura a questo genere, e li confrontiamo fra di loro, e rileviamo che taluni hanno più entità, o più realtà, o sono più cosa, di altri, in tanto noi diciamo che gli uni sono più perfetti degli altri; e in quanto attribuiamo a questi ultimi qualche particolarità che implica una negazione – come limite, finitezza, impotenza eccetera – in tanto noi li definiamo imperfetti: questo, però, perché la nostra Mente non ne è colpita come dagli esseri che a noi sembrano perfetti, e non perché agli esseri "imperfetti" manchi qualcosa che ad essi compete o perché la Natura abbia sbagliato. Alla natura di una qualsiasi cosa non compete infatti nient'altro che ciò che deriva dalla necessità della natura della causa efficiente; e qualsiasi cosa che derivi dalla necessità della natura della causa efficiente viene ad essere ''necessariamente''. <br /> Quanto ai termini di ''bene'' e di ''male'', anch'essi non indicano alcunché di positivo nelle cose, se le consideriamo in sé, e non sono altro che modi del pensare, ossia nozioni, che noi ci formiamo in conseguenza del nostro confrontare le cose le une con le altre. Una stessa cosa, infatti, può essere nello stesso tempo buona, e cattiva, e anche indifferente: la Musica, per esempio, è buona per chi è melanconico e cattiva per chi soffre; e per chi è sordo non è buona né cattiva. Ma, sebbene le cose stiano così, ci conviene egualmente continuare ad usare quei termini. Poiché, infatti, noi vogliamo configurare un'idea di Uomo che sia il modello della natura umana, al quale fare poi riferimento, ci sarà utile conservare i termini in parola nel senso che ho detto. Di qui in poi, pertanto, intenderò per buono (o per bene) ciò che sappiamo con certezza essere un mezzo per avvicinarci sempre più a quel modello della natura umana che ci proponiamo; per cattivo (o per male) invece intenderò ciò che sappiamo con certezza esserci d'ostacolo alla realizzazione in noi di quel modello. In base a questo noi definiremo gli umani come più perfetti o più imperfetti in proporzione del loro maggiore o minore avvicinarsi al modello predetto. Si deve poi far molta attenzione a questo: che quando dico che un umano passa da una minore ad una maggiore perfezione io intendo dire non che quegli cambi in un'altra essenza o forma la sua propria essenza o forma (un cavallo, per esempio, cessa di esistere come cavallo sia che si muti in un Uomo, sia che si muti in un insetto): ma che noi ci rendiamo conto che la sua potenza di agire, in quanto essa risulta dalla sua natura, aumenta o diminuisce. Infine, per perfezione in generale intenderò, come ho detto, la realtà, cioè la natura di una cosa qualsiasi in quanto essa esiste ed agisce in un certo modo, senza alcun riferimento alla sua durata. Nessuna cosa singola può infatti dirsi più perfetta perché ha perseverato più a lungo nell'esistere, dato che la durata delle cose non può determinarsi in base alla loro essenza. L'essenza delle cose, invero, non implica alcuna certa e determinata durata dell'esistenza nel tempo: ma una cosa qualsiasi, sia essa più o meno perfetta, potrà sempre perseverare nell'esistenza con la medesima forza con la quale comincia ad esistere: così che in questo tutte le cose sono eguali.
potere della quale egli si trova ad un punto tale, che spesso è costretto, sebbene veda ciò che per lui è
meglio, a scegliere invece il peggio. Dimostrare la causa di questa situazione, e dimostrare inoltre che
cosa i sentimenti abbiano di buono o di cattivo, è ciò che in questa Parte mi sono proposto. Ma prima
di cominciare vorrei premettere poche parole a proposito della perfezione e dell'imperfezione e del bene
e del male. <br /> Chi ha stabilito di fare una certa cosa, e l'ha portata a compimento, dirà che la sua opera è perfetta;
e così dirà anche ognuno che conosca correttamente, o creda di conoscere, il pensiero e lo scopo
dell'autore di quell'opera. Per esempio, se qualcuno vede un'opera – che suppongo non essere ancora
compiuta – e sa che lo scopo dell'autore di quell'opera è, poniamo, la costruzione di una casa, dirà che,
in tale suo stato, la casa è incompiuta, o imperfetta; e la dirà invece compiuta, o perfetta, dal momento
che l'avrà vista portata a quel compimento che l'autore aveva progettato di darvi. Ma chi veda
un'opera della quale non abbia mai visto un altro esemplare, e non conosca il pensiero del costruttore,
non potrà certo sapere se quell'opera sia perfetta o imperfetta. E sembra che questo sia stato il primitivo
significato di tali termini. Ma dopo che gli umani han cominciato a formarsi idee universali (v. P.
II, Prop. 40, Chiarim. 1°), e a concepire modelli di case, di palazzi, di torri, eccetera, e a preferire determinati
modelli di cose ad altri modelli, è accaduto che ognuno chiami perfetto ciò che gli sembri
combaciare meglio con 1'idea universale che egli s'è fatto di quella tal cosa, e imperfetto, al contrario,
ciò che egli veda meno combaciante col modello da lui concepito – benché a giudizio dell'artefice
dell'oggetto esso possa essere perfettamente compiuto. E non sembra che sia diversa la ragione
dell'abitudine, che gli umani hanno, di chiamare perfette o imperfette anche le cose naturali, quelle
cioè che non sono prodotte da mano umana: ché gli umani sogliono infatti formarsi, sia delle cose naturali
sia delle cose artificiali, idee universali, che essi prendono come modelli delle cose, e che secondo
loro la natura (la quale, secondo loro, non fa nulla senza un fine) tiene ben presenti e adotta
anch'essa come modelli. Quando poi vedono che nella natura si presenta qualche cosa che s'adatta non
completamente al loro modello ideale di quella cosa, essi credono allora che la natura stessa abbia avuto
un mancamento o un ghiribizzo e abbia lasciato imperfetta la cosa considerata. Vediamo pertanto
che gli umani si sono abituati a chiamare le cose "perfette" o "imperfette" più per pregiudizio che per
una vera conoscenza delle cose stesse. Abbiamo infatti mostrato nell'Appendice della Prima Parte che
la Natura non agisce in vista d'un fine: l'Ente eterno e infinito, che chiamiamo Dio, o Natura, opera
per la medesima necessità per la quale esiste. E che esso agisca per la medesima necessità di natura per
la quale esiste è dimostrato nella Prop. 16 della I Parte. Quindi la ragione, o la causa, per cui Dio, o la
Natura, opera, e per cui esiste, è la medesima, cioè una sola. Come dunque esso non esiste per alcun
fine, esso anche non opera per alcun fine; e come per il suo esistere, così per il suo operare esso non ha
alcuna ragione né alcuno scopo. La causa detta finale non è nulla all'infuori dello stesso appetito umano,
in quanto è considerato il principio o ragione o causa primaria di una cosa: quando diciamo, per
esempio, che la causa finale di questa o quella casa è stata l'abitarci, noi sicuramente non intendiamo
altro che questo, che un Uomo, per aver immaginato i vantaggi del disporre di una casa per viverci, ha
avuto il desiderio, o l'appetito, di costruirsela. Quindi l'abitare, in quanto è considerato causa finale,
non è altro che questo specifico appetito, il quale è in realtà una causa efficiente: che è considerata
causa prima perché gli umani, ordinariamente, ignorano le cause dei loro appetiti. Essi sono infatti,
come ho detto spesso, ben consapevoli delle loro azioni e dei loro appetiti, ma ignari delle cause dalle
quali essi sono determinati ad appetire qualcosa. Quel che poi si dice dalla gente, che la Natura talvolta
sia manchevole, o sbagli per sbagliare, e produca cose imperfette, va annoverato tra le fantasie di cui
ho trattato nell'Appendice della Prima Parte. Quindi la "[[perfezione]]" e l'"[[imperfezione]]" sono, in realtà,
soltanto modi del pensare: vale a dire, nozioni che noi ci costruiamo col confrontare fra di loro individui
della medesima specie o del medesimo genere: e per questa ragione ho detto più sopra (P. II, Def.
6) che coi termini realtà e perfezione io intendo la medesima cosa. Noi siamo soliti, infatti, ridurre tutti
gli esseri che sono in Natura a quell'unico genere che è chiamato generalissimo: appunto alla nozione
86 di ente, ossia di cosa che è: nozione pertinente a tutte, senza eccezione, le cose che sono in Natura. In
quanto, allora, noi riduciamo tutti gli esseri individui della Natura a questo genere, e li confrontiamo
fra di loro, e rileviamo che taluni hanno più entità, o più realtà, o sono più cosa, di altri, in tanto noi
diciamo che gli uni sono più perfetti degli altri; e in quanto attribuiamo a questi ultimi qualche particolarità
che implica una negazione – come limite, finitezza, impotenza eccetera – in tanto noi li definiamo
imperfetti: questo, però, perché la nostra Mente non ne è colpita come dagli esseri che a noi sembrano
perfetti, e non perché agli esseri "imperfetti" manchi qualcosa che ad essi compete o perché la
Natura abbia sbagliato. Alla natura di una qualsiasi cosa non compete infatti nient'altro che ciò che deriva
dalla necessità della natura della causa efficiente; e qualsiasi cosa che derivi dalla necessità della
natura della causa efficiente viene ad essere ''necessariamente''. <br /> Quanto ai termini di ''bene'' e di ''male'', anch'essi non indicano alcunché di positivo nelle cose, se le consideriamo in sé, e non sono altro che modi del pensare, ossia nozioni, che noi ci formiamo in conseguenza del nostro confrontare le cose le une con le altre. Una stessa cosa, infatti, può essere nello stesso tempo buona, e cattiva, e anche indifferente: la Musica, per esempio, è buona per chi è melanconico
e cattiva per chi soffre; e per chi è sordo non è buona né cattiva. Ma, sebbene le cose stiano così,
ci conviene egualmente continuare ad usare quei termini. Poiché, infatti, noi vogliamo configurare
un'idea di Uomo che sia il modello della natura umana, al quale fare poi riferimento, ci sarà utile conservare
i termini in parola nel senso che ho detto. Di qui in poi, pertanto, intenderò per buono (o per
bene) ciò che sappiamo con certezza essere un mezzo per avvicinarci sempre più a quel modello della
natura umana che ci proponiamo; per cattivo (o per male) invece intenderò ciò che sappiamo con certezza
esserci d'ostacolo alla realizzazione in noi di quel modello. In base a questo noi definiremo gli
umani come più perfetti o più imperfetti in proporzione del loro maggiore o minore avvicinarsi al modello
predetto. Si deve poi far molta attenzione a questo: che quando dico che un umano passa da una
minore ad una maggiore perfezione io intendo dire non che quegli cambi in un'altra essenza o forma la
sua propria essenza o forma (un cavallo, per esempio, cessa di esistere come cavallo sia che si muti in
un Uomo, sia che si muti in un insetto): ma che noi ci rendiamo conto che la sua potenza di agire, in
quanto essa risulta dalla sua natura, aumenta o diminuisce. Infine, per perfezione in generale intenderò,
come ho detto, la realtà, cioè la natura di una cosa qualsiasi in quanto essa esiste ed agisce in un certo
modo, senza alcun riferimento alla sua durata. Nessuna cosa singola può infatti dirsi più perfetta perché
ha perseverato più a lungo nell'esistere, dato che la durata delle cose non può determinarsi in base
alla loro essenza. L'essenza delle cose, invero, non implica alcuna certa e determinata durata
dell'esistenza nel tempo: ma una cosa qualsiasi, sia essa più o meno perfetta, potrà sempre perseverare
nell'esistenza con la medesima forza con la quale comincia ad esistere: così che in questo tutte le cose
sono eguali.
 
{{NDR|Spinoza, ''Etica'', traduzione di Renato Peri, [http://www.fogliospinoziano.it/etica.pdf ''fogliospinoziano.it'']}}
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'''Parte V – Vivere Liberi''' <br />
'''Prefazione''' <br />
Passo finalmente alla Parte di questo lavoro, l'ultima, che concerne il modo, o la via, per raggiungere la Libertà. In questa Parte tratterò così della potenza della Ragione, mostrando quanto la Ragione stessa possa sui sentimenti e in che cosa consista la Libertà della Mente o Beatitudine: e da questa esposizione risulterà evidente il vantaggio che il sapiente ha sugli umani grezzi e carnali, ossia quanto la Saggezza sia preferibile all'insipienza. Non è questa la sede per indicare come e per qual via l'Intelletto debba essere condotto a perfezione, e con quali criteri il Corpo debba essere conservato in grado di svolgere correttamente le sue funzioni: si tratta di mansioni che competono, rispettivamente, alla Logica e alla Medicina. Qui, come ho detto, tratterò soltanto della potenza della Mente, ossia della potenza della Ragione, e mostrerò in primo luogo la natura e l'entità dell'imperio che essa ha sui sentimenti e col quale li raffrena e li mòdera: perché abbiamo già dimostrato che sui nostri sentimenti noi non abbiamo un dominio ''assoluto''. <br /> Gli Stoici credettero, invero, che i sentimenti dipendano assolutamente dalla nostra volontà e che noi possiamo dominarli assolutamente. Ma, a malgrado dei loro princìpi, l'esperienza li costrinse a riconoscere che per almeno raffrenare e moderare i nostri sentimenti sono necessari una costanza e un impegno non piccoli. (Qualcuno s'è sforzato di mostrare questa possibilità portando l'esempio, se ricordo bene, dei due cani, l'uno da compagnia e l'altro da caccia: che a forza di addestramento s'avvezzarono, il primo a rincorrere le lepri, il secondo a disinteressarsene). All'opinione stoica originaria è molto favorevole il Cartesio. Egli infatti stabilisce che l'Anima, o Mente, è unita precipuamente ad una parte del cervello, la cosiddetta ghiandola pineale o epifisi, per mezzo della quale la Mente percepisce sia tutti i movimenti del Corpo, sia gli oggetti esterni, e che la Mente può variamente muovere soltanto col volerlo; e afferma ancora che questa ghiandola è sospesa nel mezzo del cervello in modo tale da poter essere mossa dalla minima azione degli spiriti animali. II Cartesio sostiene poi che questa ghiandola, appesa com'è, assume tante posizioni diverse quanto diversamente la colpiscono gli spiriti animali, e che vi s'imprimono tanti vestigi diversi quanti sono i diversi oggetti esterni che orientano verso di essa gli spiriti animali stessi: e da ciò consegue che poi, quando la ghiandola, appesa al suo picciuolo, sia girata dall'Anima – che la muove a suo piacere – in questo o in quel modo in cui a suo tempo la girarono gli spiriti animali agitati in questo o in quel modo, la ghiandola stessa spingerà e determinerà quegli spiriti nella medesima maniera in cui essi in precedenza erano stati respinti dalla ghiandola quando essa si trovava nella stessa posizione, nella quale l'avevano posta gli spiriti animali agitati da cause esterne. Il Cartesio afferma inoltre che ciascuna volizione della Mente è per natura connessa a una determinata posizione della ghiandola: così che, per esempio, se qualcuno vuole osservare un oggetto lontano, questa volontà farà sì che la pupilla gli si dilati; ma se qualcuno intende soltanto dilatare la pupilla, questa volontà non avrà alcun effetto, perché la natura non ha collegato il movimento della ghiandola – che serve a spingere gli spiriti animali verso il nervo ottico nel modo idoneo a dilatare o a restringere la pupilla – con la volontà di dilatarla o di restringerla, ma solo con la volontà di osservare oggetti lontani o vicini. Egli stabilisce infine che, sebbene ciascun movimento della ghiandola considerata sembri connesso per natura, fin dall'inizio dell'esistenza di ciascun umano, a un determinato nostro pensiero, l'esercizio e l'abitudine possono collegare altri movimenti ad altri pensieri: e si sforza di dimostrare questa affermazione nella prima parte, art. 50, del suo "Le Passioni dell'Anima"; e da un tale postulato il Cartesio conclude che non c'è Anima tanto incapace che non possa, se ben diretta, acquistare un potere assoluto sulle sue Passioni. Queste infatti, come egli le definisce, sono "percezioni, o sensazioni, o commozioni dell'anima, che si riferiscono ad essa in modo specifico", e che, si noti, "sono prodotte, conservate e corroborate da qualche movimento degli spiriti" (ibidem, art. 27). Ma dato che a qualsiasi volizione noi possiamo collegare un qualsiasi moto della ghiandola, e quindi degli spiriti, e dato che la determinazione della volontà è totalmente in nostro potere, qualora noi determiniamo la nostra volontà mediante i giudizi certi e sicuri secondo i quali noi vogliamo orientare le azioni della nostra vita, e colleghiamo a questi giudizi i movimenti delle passioni che vogliamo avere, noi allora acquisteremo un dominio assoluto sulle nostre Passioni. L'opinione di quell'uomo celeberrimo è proprio questa che ho esposto, se l'ho costruita correttamente sulle sue proprie parole: e difficilmente io l'avrei creduta espressa da un così grand'uomo, se essa fosse stata meno acuta. Certo non posso meravigliarmi abbastanza che un filosofo, il quale aveva fermamente deciso di non dedurre alcunché se non da princìpi spontaneamente evidenti, e di non affermare alcunché che egli non percepisse in maniera chiara e distinta; che un filosofo il quale, ancora, aveva tante volte criticato i seguaci della Scolastica per il loro volere spiegare mediante qualità occulte le cose difficilmente comprensibili, accetti un'ipotesi più occulta di ogni qualità occulta. Che cosa intende egli, per favore, parlando di unione della Mente e del Corpo? quale concetto chiaro e distinto ha, dico, di un pensiero strettissimamente unito a una determinata particella di sostanza misurabile? Vorrei davvero che egli avesse spiegato una tale unione mediante la sua causa prossima; ma egli ha concepito la Mente così distinta dal Corpo da non poter escogitare alcuna causa singolare né dell'unione predetta, né della Mente stessa: e gli è stato necessario ricorrere alla causa di tutto 1'Universo, cioè a Dio. Vorrei poi – lo vorrei molto – sapere con quale finezza la Mente può comunicare il moto a codesta ghiandola pineale, e con quanta forza può conservarla così sospesa e suscettibile di rotazione: perché non so se la ghiandola in questione sia ruotata dalla Mente più velocemente o più lentamente che dagli spiriti animali, e se i moti concernenti le Passioni, che abbiamo strettamente collegato con i predetti giudizi saldi, non possano separarsi da quei giudizi per cause meccaniche, cioè per cause attribuibili al Corpo: tanto che accada, per esempio, che la Mente si sia fermamente proposta di affrontare un qualche pericolo, e a questa decisio ne abbia collegato il movimento della ghiandola che corrisponde all'Audacia; ma che, alla vista del pericolo, la ghiandola – che è pure una parte di un Corpo animale – si giri in modo che la Mente non possa pensare che alla fuga. E poiché in effetti non c'è un criterio per le operazioni della volontà che possa essere applicato alle operazioni del moto, non c'è nemmeno alcun confronto fra la potenza – o le forze – della Mente e quelle del Corpo; e di conseguenza le forze dell'uno non possono in alcun modo essere regolate o governate dalle forze dell'altra. A ciò s'aggiunga poi che né la ghiandola in parola si trova situata nel mezzo del cervello in condizioni tali da poter agevolmente ruotare secondo ogni asserita necessità, né tutti i nervi del corpo si spingono fino alle cavità del cervello. E infine non prendo in considerazione tutte le affermazioni che il Cartesio fa a proposito della volontà e della sua libertà, avendo qui sopra dimostrato a sufficienza – e anche più – che si tratta di affermazioni non corrispondenti al vero. Poiché dunque la potenza della Mente, come poco fa ho mostrato, è definita soltanto dalla sua intelligenza, noi determineremo il modo di rendere innocui i sent imenti, e anzi di servircene, mediante la sola conoscenza che la Mente possiede: modo del quale, credo, tutti hanno una qualche esperienza, ma che in genere non ve dono distintamente né analizzano con cura; e, una volta determinato quel modo, sulla base di esso dedurremo tutto ciò che concerne la beatitudine della Mente.
Passo finalmente alla Parte di questo lavoro, l'ultima, che concerne il modo, o la via, per raggiungere
la Libertà. In questa Parte tratterò così della potenza della Ragione, mostrando quanto la Ragione
stessa possa sui sentimenti e in che cosa consista la Libertà della Mente o Beatitudine: e da questa esposizione
risulterà evidente il vantaggio che il sapiente ha sugli umani grezzi e carnali, ossia quanto la
Saggezza sia preferibile all'insipienza. Non è questa la sede per indicare come e per qual via
1'Intelletto debba essere condotto a perfezione, e con quali criteri il Corpo debba essere conservato in
grado di svolgere correttamente le sue funzioni: si tratta di mansioni che competono, rispettivamente,
alla Logica e alla Medicina. Qui, come ho detto, tratterò soltanto della potenza della Mente, ossia della
potenza della Ragione, e mostrerò in primo luogo la natura e l'entità dell'imperio che essa ha sui sentimenti
e col quale li raffrena e li mòdera: perché abbiamo già dimostrato che sui nostri sentimenti noi
non abbiamo un dominio ''assoluto''. <br /> Gli Stoici credettero, invero, che i sentimenti dipendano assolutamente dalla nostra volontà e che
noi possiamo dominarli assolutamente. Ma, a malgrado dei loro princìpi, l'esperienza li costrinse a riconoscere
che per almeno raffrenare e moderare i nostri sentimenti sono necessari una costanza e un
impegno non piccoli. (Qualcuno s'è sforzato di mostrare questa possibilità portando l'esempio, se ricordo
bene, dei due cani, l'uno da compagnia e l'altro da caccia: che a forza di addestramento
s'avvezzarono, il primo a rincorrere le lepri, il secondo a disinteressarsene). All'opinione stoica originaria
è molto favorevole il Cartesio. Egli infatti stabilisce che l'Anima, o Mente, è unita precipuamente
ad una parte del cervello, la cosiddetta ghiandola pineale o epifisi, per mezzo della quale la Mente percepisce
sia tutti i movimenti del Corpo, sia gli oggetti esterni, e che la Mente può variamente muovere
soltanto col volerlo; e afferma ancora che questa ghiandola è sospesa nel mezzo del cervello in modo
tale da poter essere mossa dalla minima azione degli spiriti animali. II Cartesio sostiene poi che questa
ghiandola, appesa com'è, assume tante posizioni diverse quanto diversamente la colpiscono gli spiriti
animali, e che vi s'imprimono tanti vestigi diversi quanti sono i diversi oggetti esterni che orientano
verso di essa gli spiriti animali stessi: e da ciò consegue che poi, quando la ghiandola, appesa al suo
picciuolo, sia girata dall'Anima – che la muove a suo piacere – in questo o in quel modo in cui a suo
tempo la girarono gli spiriti animali agitati in questo o in quel modo, la ghiandola stessa spingerà e determinerà
quegli spiriti nella medesima maniera in cui essi in precedenza erano stati respinti dalla
ghiandola quando essa si trovava nella stessa posizione, nella quale l'avevano posta gli spiriti animali
agitati da cause esterne. Il Cartesio afferma inoltre che ciascuna volizione della Mente è per natura
connessa a una determinata posizione della ghiandola: così che, per esemp io, se qualcuno vuole osservare
un oggetto lontano, questa volontà farà sì che la pupilla gli si dilati; ma se qualcuno intende soltanto
dilatare la pupilla, questa volontà non avrà alcun effetto, perché la natura non ha collegato il movimento
della ghiandola – che serve a spingere gli spiriti animali verso il nervo ottico nel modo idoneo
a dilatare o a restringere la pupilla – con la volontà di dilatarla o di restringerla, ma solo con la volontà
di osservare oggetti lontani o vicini. Egli stabilisce infine che, sebbene ciascun movimento della
ghiandola considerata sembri connesso per natura, fin dall'inizio dell'esistenza di ciascun umano, a un
determinato nostro pensiero, l'esercizio e l'abitudine possono collegare altri movimenti ad altri pensieri:
e si sforza di dimostrare questa affermazione nella prima parte, art. 50, del suo "Le Passioni
dell'Anima"; e da un tale postulato il Cartesio conclude che non c'è Anima tanto incapace che non
possa, se ben diretta, acquistare un potere assoluto sulle sue Passioni. Queste infatti, come egli le definisce,
sono "percezioni, o sensazioni, o commozioni dell'anima, che si riferiscono ad essa in modo
specifico", e che, si noti, "sono prodotte, conservate e corroborate da qualche movimento degli spiriti"
(ibidem, art. 27). Ma dato che a qualsiasi volizione noi possiamo collegare un qualsiasi moto della
ghiandola, e quindi degli spiriti, e dato che la determinazione della volontà è totalmente in nostro potere,
qualora noi determiniamo la nostra volontà mediante i giudizi certi e sicuri secondo i quali noi vo118
gliamo orientare le azioni della nostra vita, e colleghiamo a questi giudizi i movimenti delle passioni
che vogliamo avere, noi allora acquisteremo un dominio assoluto sulle nostre Passioni. L'opinione di
quell'uomo celeberrimo è proprio questa che ho esposto, se l'ho costruita correttamente sulle sue proprie
parole: e difficilmente io l'avrei creduta espressa da un così grand'uomo, se essa fosse stata meno
acuta. Certo non posso meravigliarmi abbastanza che un filosofo, il quale aveva fermamente deciso di
non dedurre alcunché se non da princìpi spontaneamente evidenti, e di non affermare alcunché che egli
non percepisse in maniera chiara e distinta; che un filosofo il quale, ancora, aveva tante volte criticato i
seguaci della Scolastica per il loro volere spiegare mediante qualità occulte le cose difficilmente comprensibili,
accetti un'ipotesi più occulta di ogni qualità occulta. Che cosa intende egli, per favore, parlando
di unione della Mente e del Corpo? quale concetto chiaro e distinto ha, dico, di un pensiero
strettissimamente unito a una determinata particella di sostanza misurabile? Vorrei davvero che egli
avesse spiegato una tale unione mediante la sua causa prossima; ma egli ha concepito la Mente così
distinta dal Corpo da non poter escogitare alcuna causa singolare né dell'unione predetta, né della
Mente stessa: e gli è stato necessario ricorrere alla causa di tutto 1'Universo, cioè a Dio. Vorrei poi –
lo vorrei molto – sapere con quale finezza la Mente può comunicare il moto a codesta ghiandola pine ale,
e con quanta forza può conservarla così sospesa e suscettibile di rotazione: perché non so se la
ghiandola in questione sia ruotata dalla Mente più velocemente o più lentamente che dagli spiriti animali,
e se i moti concernenti le Passioni, che abbiamo strettamente collegato con i predetti giudizi saldi,
non possano separarsi da quei giudizi per cause meccaniche, cioè per cause attribuibili al Corpo:
tanto che accada, per esempio, che la Mente si sia fermamente proposta di affrontare un qualche pericolo,
e a questa decisio ne abbia collegato il movimento della ghiandola che corrisponde all'Audacia;
ma che, alla vista del pericolo, la ghiandola – che è pure una parte di un Corpo animale – si giri in modo
che la Mente non possa pensare che alla fuga. E poiché in effetti non c'è un criterio per le operazioni
della volontà che possa essere applicato alle operazioni del moto, non c'è nemmeno alcun confronto
fra la potenza – o le forze – della Mente e quelle del Corpo; e di conseguenza le forze dell'uno non
possono in alcun modo essere regolate o governate dalle forze dell'altra. A ciò s'aggiunga poi che né
la ghiandola in parola si trova situata nel mezzo del cervello in condizioni tali da poter agevolmente
ruotare secondo ogni asserita necessità, né tutti i nervi del corpo si spingono fino alle cavità del cerve llo.
E infine non prendo in considerazione tutte le affermazioni che il Cartesio fa a proposito della volontà
e della sua libertà, avendo qui sopra dimostrato a sufficienza – e anche più – che si tratta di affermazioni
non corrispondenti al vero. Poiché dunque la potenza della Mente, come poco fa ho mostrato,
è definita soltanto dalla sua intelligenza, noi determineremo il modo di rendere innocui i sent imenti,
e anzi di servircene, mediante la sola conoscenza che la Mente possiede: modo del quale, credo, tutti
hanno una qualche esperienza, ma che in genere non ve dono distintamente né analizzano con cura; e,
una volta determinato quel modo, sulla base di esso dedurremo tutto ciò che concerne la beatitudine
della Mente.
 
{{NDR|Spinoza, ''Etica'', traduzione di Renato Peri, [http://www.fogliospinoziano.it/etica.pdf ''fogliospinoziano.it'']}}
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====Traduzione====
Prop. 42. <br /> La Beatitudine non è il premio della Virtù: ma la Virtù medesima è premio a se stessa e beatitudine; e noi non ne godiamo perché reprimiamo le nostre inclinazioni irrazionali, ma, al contrario, siamo in grado di reprimere le nostre inclinazioni irrazionali perché godiamo della Beatitudine. <br />
'''''Dimostrazione''''': La Beatitudine consiste nell'Amore verso Dio, e questo Amore sorge dalla conoscenza di terzo genere; questo Amore, perciò, deve riferirsi alla Mente in quanto essa è attiva: e perciò s'identifica con la virtù; e questo è il primo punto. Inoltre – secondo punto – quanto più la Mente gode di questo Amore divino, o Beatitudine, tanto più essa conosce o intèllige, ossia tanto maggior potere essa ha sui sentimenti, e tanto meno è passiva rispetto ai sentimenti che sono cattivi: per il suo godere di questo Amore divino o Beatitudine, quindi, la Mente ha il potere di reprimere le voglie – o inclinazioni irrazionali, o appetiti sregolati – che sorgono in essa; e come la potenza che l'Uomo ha di coartare i sentimenti consiste soltanto nell'intelletto, nessuno dunque gode della Beatitudine perché ha coartato i propri sentimenti (sregolati), ma, viceversa, il potere di coartare o reprimere le proprie voglie s'origina dalla stessa Beatitudine posseduta. (P. III, Prop. 3; Prop. 59; P. IV, Def. 8; P. V,
e noi non ne godiamo perché reprimiamo le nostre inclinazioni irrazionali, ma, al contrario, siamo
in grado di reprimere le nostre inclinazioni irrazionali perché godiamo della Beatitudine. <br />
'''''Dimostrazione''''': La Beatitudine consiste nell'Amore verso Dio, e questo Amore sorge dalla conoscenza di
terzo genere; questo Amore, perciò, deve riferirsi alla Mente in quanto essa è attiva: e perciò s'identifica con la
virtù; e questo è il primo punto. Inoltre – secondo punto – quanto più la Mente gode di questo Amore divino, o
Beatitudine, tanto più essa conosce o intèllige, ossia tanto maggior potere essa ha sui sentimenti, e tanto meno è
passiva rispetto ai sentimenti che sono cattivi: per il suo godere di questo Amore divino o Beatitudine, quindi, la
Mente ha il potere di reprimere le voglie – o inclinazioni irrazionali, o appetiti sregolati – che sorgono in essa; e
come la potenza che l'Uomo ha di coartare i sentimenti consiste soltanto nell'intelletto, nessuno dunque gode
della Beatitudine perché ha coartato i propri sentimenti (sregolati), ma, viceversa, il potere di coartare o reprimere
le proprie voglie s'origina dalla stessa Beatitudine posseduta. (P. III, Prop. 3; Prop. 59; P. IV, Def. 8; P. V,
Conseg. d. Prop. 3; Prop. 32 e sua Conseg.; Prop. 36; Prop. 38). <br />
'''''Chiarimento''''': Con questo ho esaurito tutto ciò che volevo mostrare a proposito del potere della Mente sui sentimenti e a proposito della Libertà della Mente. Da ciò che ho esposto risulta chiaro quanto possa il Saggio, e quanto egli valga più dell'Uomo grezzo, o Uomo carnale, che agisce soltanto per ricavarne vantaggi immediati ed angusti. L'Uomo carnale, oltre che essere agitato in molti modi dalle cause esterne e non arrivar mai a godere di una vera Soddisfazione interiore, vive quasi inconsapevole di sé e di Dio e delle cose, e come cessa di patire cessa anche di essere. Il Saggio invece, in quanto è davvero tale, ben difficilmente incontra cagioni di turbamento interiore; e non cessa mai – per una precisa necessità eterna: ossia perché, in assoluto, la massima parte della sua Mente esiste nell'Eternità – di essere cosciente di sé e di Dio e delle cose; e sempre possiede e gode la vera Soddisfazione interiore o Pace dell'anima. <br />
'''''Chiarimento''''': Con questo ho esaurito tutto ciò che volevo mostrare a proposito del potere della Mente sui
Ora, se la via che ho mostrato condurre a questa condizione di Letizia inalterabile [(v. qui sopra, Prop. 36, Chiarim., a mezzo)] sembra difficilissima, essa però può essere percorsa. Certo deve essere difficile ciò che sì vede conseguito così di rado. Se la Salvezza fosse a portata di mano e potesse esser trovata senza una grande fatica, è mai possibile che quasi tutti gli umani rinunciassero a cercarla? Il fatto è che tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare.
sentimenti e a proposito della Libertà della Mente. Da ciò che ho esposto risulta chiaro quanto possa il Saggio, e
quanto egli valga più dell'Uomo grezzo, o Uomo carnale, che agisce soltanto per ricavarne vantaggi immediati
ed angusti. L'Uomo carnale, oltre che essere agitato in molti modi dalle cause esterne e non arrivar mai a godere
di una vera Soddisfazione interiore, vive quasi inconsapevole di sé e di Dio e delle cose, e come cessa di patire
cessa anche di essere. Il Saggio invece, in quanto è davvero tale, ben difficilmente incontra cagioni di turbamento
interiore; e non cessa mai – per una precisa necessità eterna: ossia perché, in assoluto, la massima parte della
sua Mente esiste nell'Eternità – di essere cosciente di sé e di Dio e delle cose; e sempre possiede e gode la vera
Soddisfazione interiore o Pace dell'anima. <br />
Ora, se la via che ho mostrato condurre a questa condizione di Letizia inalterabile [(v. qui sopra, Prop. 36,
Chiarim., a mezzo)] sembra difficilissima, essa però può essere percorsa. Certo deve essere difficile ciò che sì
vede conseguito così di rado. Se la Salvezza fosse a portata di mano e potesse esser trovata senza una grande fatica,
è mai possibile che quasi tutti gli umani rinunciassero a cercarla? Il fatto è che tutte le cose eccellenti sono
tanto difficili quanto rare.
 
{{NDR|Spinoza, ''Etica'', traduzione di Renato Peri, [http://www.fogliospinoziano.it/etica.pdf ''fogliospinoziano.it'']}}