Carlo Alianello: differenze tra le versioni
Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
fix ultimi inserimenti |
|||
Riga 13:
===Citazioni===
*
*Gli porse la mano e s'avviava a uscire. Ma s'arrestò di nuovo: -Ah! mi dimenticavo! Senti, Pino: c'è una cosa che tu devi considerare ora che resti
*E il popolo riprese quel grido, il suo vero grido, che non muta per re o per repubbliche, e lo scagliò su al cielo, sino a che svanisse col cielo: -Viva Maria! (p. 209)
*
*Pino tese le braccia. Lo divorava uno struggimento profondo, una compassione infinita di sé e di quella piccola donna che nella notte era accorsa a lui, sola... e avrebbe voluto stringerla forte a sé per difenderla da ogni dolore, per consolarla di quel male che la piccola aveva fatto a se stessa, per quel riserbo lacerato, per quella passione amara e coraggiosa, e per piangere anch'egli con lei tutte quelle lacrime che in tre mesi d'angoscia sorda, seppur non intesa, seppur non avvertita, gli erano scese con uno stillicidio lento nell'animo e lo gonfiavano ora fino a traboccare. (pp. 227-228)▼
*- Vi voglio sposare, Titina - disse Pino. <br /> - E perché? <br /> Pino non seppe rispondere subito. Avrebbe avuto tante cose dadire, che non poté trovar subito quella parola che ci voleva e inoltre quella sua offerta l'aveva fatta così, quasi senza saper neppur lui quel che dicesse, spinto da un irresistibile impulso, da un istinto irresponsabile, che dal cuore era passato alle labbra subitamente, senza attraversare la testa. E forse era amore. (pp. 229-230)▼
▲*Pino tese le braccia. Lo divorava uno struggimento profondo, una compassione infinita di sé e di quella piccola donna che nella notte era accorsa a lui,
*E nella mente di Pino, subito, improvviso, ma pieno sì da occuparla tutta, venne il ricordo: l'alba lunare tra i monti di Tito, quella sera, la sera della serenata, quando Titina era a letto e la sua voce forse l'aveva svegliata. Titina... E Pino spalancò gli occhi e tremò, ché il buio gli era parso un tratto vivente. E la chitarra, e il violino e la canzone... Allora sottovoce cominciò Pino a cantare, per lei che lo sentiva: <br /> ''Fenesta ca' lucive e mo' non luce,'' / <br />''segn'è ca' nenna mia starrà ammalata...'' <br />I soldati sospesero di remare, ascoltando sorpresi. (p. 338)▼
*– E la [[libertà]] – chiese Pino – che n'hai fatto? <br />– Ce l'ho qui – rispose Franco e si batté sul petto – dacché fra la mia e quella dei liberali ho scelto liberamente, da uomo. Non mi piace la loro libertà, ché quando te la vengono a imporre con le baionette, non è più essa. Io sto da questa parte, perché così mi piace a me, che sono don Enrico Franco, e mi piace perché oggi è la parte più bella. Altri combattono e muoiono per una conquista, una terra, un'idea di gloria, per un convincimento magari o un ideale, ma noi muoriamo per una cosa di cuore: la bellezza. Qui non c'è vanità, non c'è successo, non c'è ambizione. Noi moriamo per essere uomini ancora. Uomini che la violenza e l'illusione non li piega e che servono la fedeltà, l'onore, la bandiera e la Monarchia, perché son padroni di sé e servitori di Dio. Ieri forse poteva sembrar più nobile, più alta la parte di là, ma oggi con noi c'è la sventura, e questa è la parte più bella. Perché sopra, noi ci possiamo scrivere: senza speranza... (p. 429)▼
▲*
▲*E nella mente di Pino, subito, improvviso, ma pieno sì da occuparla tutta, venne il ricordo: l'alba lunare tra i monti di Tito, quella sera, la sera della serenata, quando Titina era a letto e la sua voce forse l'aveva svegliata.
▲*
===[[Explicit]]===
Cos'era finito? Un governo, un regno, un'
==''L'eredità della Priora''==
Line 31 ⟶ 38:
===Citazioni===
*Ma adesso è in chiesa e lì, nel tabernacolo, c'è Dio. Come una persona che aspetta e guarda chi
*I [[montagna|monti]] non è vero che chiudono l'orizzonte, anzi lo spalancano a ogni svolta, a ogni cima, e tutti i giorni tu ricominci il tuo viaggio dalla montagna nuova che ti sta di fronte che ti porterà altri pendii, altre frane, altri boschi e poi montagne
*Ma subito ogni voce si fuse in un grido solo che sormontò anche il canto delle suore, l'appello dei padri, il richiamo contro ogni ingiustizia e l'avvio a tutte le speranze, il grido della Santa Fede: "Viva Maria!" (1993, p. 84)
*Allora Gerardo prese quella piccola mano, bianca tuttavia e morbida, la tenne tra le sue e poi si chinò a baciarla. Un bacio corretto, cortese come quando, ufficiale di cavalleria, baciava la mano alle gentildonne napoletane. Lei capì. Tirò indietro la mano imbarazzata, incredula quasi: "Come?" disse lenta. "Tu, che si' nu signore, baci la mano a me, che sò na pevera serva?" <br />"Bacio la mano alla principessa che è scesa da una carrozza tutta d'
*"Io," disse Isabella "ho conosciuto Mazzini. Un giorno venne in visita al nostro colleggio, proprio lui, Giuseppe Mazzini. Ero
*[[Carmine Crocco|Carmine Donatello Crocco]] fu un bellissimo uomo, alto, slanciato, con ventre magro e torso grande, amplissime le spalle, ladro, assassino, disertore dell'esercito borbonico, lancia spezzata dei liberali nell'insurrezione lucana, garibaldino e poi ancora disertore, assassino ancora, ladro sempre. Fu soprattutto il cafone armato che infuria, il motore e il banditore della rivoluzione contadina, piuttosto che della reazione borbonica. La sua è la rivolta del popolo magro, del "popele bass", contro la durezza dei piemontesi che han portato con loro tristi novità, tasse, sequestri, sfratti e fucilazioni, ma soprattutto contro i loro alleati, i signori, dove si acclama a re Francesco II di Borbone, in quanto anche lui è stato vittima dei galantuomini liberali. (1963, p. 568)
Line 50 ⟶ 57:
*Il [[William Ewart Gladstone|Gladstone]] doveva avere inteso, o tramite biglietti furtivi o a voce, fra sussurri e fiati mozzi e incerti, di segrete sotterranee, di torture, di celle sepolte sotto il livello del mare, di aguzzini bastonatori e di galantuomini bastonati. Immaginando forse d'esser tornato per magia ai tempi di Tiberio e di Diocleziano, così concludeva la sua missiva: «II governo borbonico rappresenta l'incessante, deliberata violazione di ogni diritto; l'assoluta persecuzione delle virtù congiunta all'intelligenza, fatta in guisa da colpire intere classi di cittadini, la perfetta prostituzione della magistratura, come udii spessissimo volte ripetere; la negazione di Dio, la sovversione d'ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo». Oggi si sa che il Gladstone non visitò mai né una prigione né una segreta, e non ebbe modo di parlare con nessuno dei prigionieri. Si sa soltanto, anzi si dice, che passasse in barca al largo di un'isola, forse Ponza, forse Nisida, in compagnia di carissimi amici, tutti più o meno registrati nei libri della polizia. (p. 8)
*Nell'Italia meridionale non c'era da scialare, ma nessuno moriva di fame, almeno a quei tempi. Diremo più innanzi delle provvidenze borboniche per i bisognosi, per i contadini, per gli zappaterra, mentre non solo in Irlanda ma in tutta l'Inghilterra l'uomo del terzo stato, il plebeo, conduceva un'esistenza infinitamente più squallida e miserabile, quale mai lazzarone napoletano o pastoriello di Calabria o Basilicata conobbe. (p. 12)
*In Irlanda
*E in patria? E nei quartieri poveri delle città, nel lurido intrico dei vicoli presso il Tamigi a Londra, nelle campagne sparse di miseri casolari di strame dai quali i lords cacciavano i contadini per crearsi comode e ricche riserve di caccia? Ma tutto ciò non interessava Gladstone; lui si occupava soltanto del regno borbonico e degli amici liberali o mazziniani. Fu lui stesso a confessarlo candidamente: «Gladstone, tornato a Napoli nell'anno 1888-1889, fu ossequiato e festeggiato dai maggiorenti del così detto Partito Liberale, i quali non mancarono di glorificarlo per le sue famose lettere con la negazione di Dio, che tanto aiutarono la nostra rivoluzione; ma a questo punto il Gladstone versò una vera secchia d'acqua gelata sui suoi glorificatori. Confessò che aveva scritto per incarico di lord Palmerston, con la buona occasione che egli tornava da Napoli, che egli non era stato in nessun carcere, in nessun ergastolo, che aveva dato per veduto da lui quello che gli avevano detto i nostri rivoluzionari». (p. 14)
*{{NDR|su l'[[Unità d'Italia]]}} Chi l'ha costruita sono stati politicanti e studiosi del Nord e del Sud, in nome dell'unità, del progresso, della rivoluzione, del Re, del Duce. Non tutti insieme, si capisce, né tutti con la medesima voce, ma un po' per volta, in armonica disarmonia. Gente magari in buona fede, ma che ignorava i fatti, quelli veri: oppure gente che voleva nascondere qualcosa, per diversissime ragioni spesso contrastanti. La ragione, o meglio il pretesto più comune e più facile era, anzi è l'unità d'Italia, alibi necessario che ogni sozzura copre con le sue grandi santissime ali. Il risultato? Oggi più che mai l'Italia è divisa in due parti, una tutta bianca, l'altra tutta nera. Di questo mito il tempo ha fatto un baluardo così roccioso e inattaccabile che il conformismo liberale, anche se a volte dubitoso ed erudito, non osa neppure scalfirlo. (p. 113)
*{{NDR|su [[Ferdinando II delle Due Sicilie]]}} Volle strade, volle porti, volle bonifiche, ospizi e banche; poco sopportava una borghesia saccente e rapace, la cosiddetta borghesia dotta, i «galantuomini». Cercò piuttosto di creare una borghesia che mirasse al sodo. Non fu fortunato per la ragione che nel Napoletano altra borghesia non esisteva che quella delle professioni e degli studi, «permanili e pagliette», quelli che avevano cacciato suo nonno da Napoli, legati a fil doppio allo straniero per sole ragioni ideologiche che il Re, come re, non capiva; e l'avida e avara schiera dei proprietari terrieri. (p. 121)
*Riporto dall'Almanacco reale del regno delle Due Sicilie del 1854, dopo una lunga e particolareggiata lista d'istituti di credito e di beneficenza, la seguente nota: «Si ha, oltre i luoghi pii ecc. ecc., pei domini continentali un totale di 761 di stabilimenti diversi di beneficenza, oltre 1131 monti frumentarii, ed oltre de' monti pecuniarii, delle casse agrarie e di prestanza e degli asili infantili. (p. 122)
*Per sua volontà «si badò a costruire strade, che dalle 1505, quante se ne sommavano nel 1828, erano divenute nel 1855 la bellezza di 4587 miglia. E non straduzze da poco, ma quelle sole che rimanevano ancora laggiù sino a una dozzina d'anni fa». E furono l'Amalfitana, la Sorrentina, la Frentana (incominciata e non compiuta per l'improvviso sopraggiungere dell'Unità). L'ultima, nel disegno originale approvata da Ferdinando II, contava ben tre gallerie di molte miglia attraverso l'intero massiccio della Maiella e il Principato esterno. L'han fatta adesso, col ritardo di qualche decina d'anni (più di cento), ma nel Sud la gente è abituata ad attendere. «E aggiungiamo alle suddette la strada della costiera adriatica, la strada di Sora che portava a Roma, l'Appulo Sannitica che metteva in comunicazione diretta gli Abruzzi con la Capitanata, l'Aquilonia che apriva al commercio il Molise e congiungeva più brevemente il Tirreno con l'Adriatico, la Sannita che arrivava attraverso Campobasso sino a Termoli. E via
*Lo sbarco di Garibaldi, la sua fortunata galoppata dalla Sicilia a Napoli, le battaglie di Capua, del Volturno, di Mola e di Gaeta non furono vera guerra, voglio dire non furono guerra combattuta tra nemici cordiali e accaniti. La diserzione della borghesia napoletana, di quasi tutta l'ufficialità dell'esercito, di tutta la flotta che a Calatafimi, avendo alzata la bandiera tricolore in luogo dell'odiata frittata borbonica, prese di fianco i difensori e costrinse l'eroico IX cacciatori col suo comandante Bosco a ritirarsi nella fortezza per non essere massacrato dalle bombe un tempo amiche, il tradimento dei ministri in carica, dell'intera burocrazia, della magistratura, avevano deciso la sorte della monarchia napoletana sin dallo sbarco a Marsala, e forse prima. (p. 130)
*Secondo la stampa estera, dal gennaio all'ottobre del 1861, si contavano nell'ex Regno delle Due Sicilie 9860 fucilati, 10.604 feriti, 918 case arse, 6 paesi bruciati, 12 chiese predate, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 13.629 imprigionati, 1428 comuni sorti in armi. E questo martirio, questa insana persecuzione assai anni durò, finché i morti furon troppi, nauseati soldati e ribelli dal lungo e sfibrante lezzo dei cadaveri. (p. 133-134)
|