Kṣemarāja: differenze tra le versioni

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==''Śivasūtravimarśinī''==
===[[Incipit]]===
*L'attività del percepire (dell'"avere coscienza di") si estende senza eccezione ad ogni realtà, poiché non può darsi esistenza di alcunché nell'universo che non sia oggetto di [[coscienza]]. [...] Coscienza, che qui ha il significato di relazione con l'illimitata attività cognitiva, è lo stesso che libertà assoluta. Tale libertà è soltanto del supremo [[Shiva|Śiva]]. (comm. a I.1; 1999)<ref>La ''Śivasūtravimarśinī'' è il commento agli ''Śivasūtra'', opera di [[Vasugupta]].</ref>
''Ciò da cui l'insieme dei Rudra e dei 'conoscitori del campo' scaturisce e in cui si trova riposo, quello che è il supremo principio, quella realtà il cui sfolgorare è la sostanza del tutto, che costituisce essa stessa l'universo intero in tutta la sua vastità, è la Coscienza (''caitanya'') del [[Shiva|Benigno]]. Ad Essa sia lode. Sua natura è l'energia vibrante (''spanda'') che da nulla è trascesa, traboccante d'ambrosia, massa compatta di libertà e di beatitudine. In sé non duale, si manifesta nel segno della dualità.''<br/>Avendo constatato l'inadeguatezza dei commentari agli ''[[Vasugupta#Śivasūtra|Śivasūtra]]'', attenendomi alla tradizione dei maestri li illustrerò in quest'opera, secondo verità.<ref>La ''Śivasūtravimarśinī'' è opera commento agli ''Śivasūtra'', opera di [[Vasugupta]].</ref><br />
{{NDR|Kṣemarāja, ''Śivasūtravimarśinī''; in Vasugupta, ''Gli aforismi di Śiva, con il commento di Kṣemarāja'', a cura e traduzione di Raffaele Torella, Mimesis, 1999}}
 
===Citazioni===
*L'attività del percepire (dell'"avere coscienza di") si estende senza eccezione ad ogni realtà, poiché non può darsi esistenza di alcunché nell'universo che non sia oggetto di [[coscienza]]. [...] Coscienza, che qui ha il significato di relazione con l'illimitata attività cognitiva, è lo stesso che libertà assoluta. Tale libertà è soltanto del supremo [[Shiva|Śiva]]. (comm. a I.1; 1999)<ref>La ''Śivasūtravimarśinī'' è il commento agli ''Śivasūtra'', opera di [[Vasugupta]].</ref>
*Permeata di questa triplice maculazione, la natura del multiforme conoscere, di cui si è detto, risulta così fondata su una erronea convinzione di limitatezza, sulla visione di una realtà conoscibile differenziata e su latenze karmiche buone o cattive. La Potenza che presiede a tale conoscere è la Mātṛkā – la 'madre sconosciuta' – formata dall'insieme dei fonemi da A a Kṣ, la generatrice del tutto. (comm. a I.4; 1999)
*Lo slancio della coscienza che è per sua natura espansione e consapevolezza riflessa, l'emergenza dell'intuizione suprema come un improvviso erompere: Bhairava non è altro che questo. (comm. a 1.5; 1999)
*Come uno che vede una cosa fuori dall'ordinario prova un senso di stupore, così il sentimento dello stupore, nel godere del contatto con le varie manifestazioni della realtà conoscibile, continuamente si produce in questo grande [[yoga|yogin]] con tutt'intera la ruota dei sensi, sempre più dispiegata, immota, pienamente dischiusa, in forza della penetrazione nella sua più intima natura, unità compatta di coscienza e di meraviglia (''camatkāra'') sempre nuova, estrema, straordinaria. (comm. a I.12; 1999)
 
*La [[Conoscenza]] è il rivelarsi della suprema non-dualità. (comm. a II.3; 1999)
*Quello che è il [[corpo]] – materiale, sottile, ecc., – da tutti consacrato come il soggetto conoscente, quello appunto è per il grande yogin, l'offerta sacrificale, deposta nel supremo fuoco della [[conoscenza]]. Per questo grande yogin, infatti, la qualifica di soggetto conoscente spetta alla coscienza sola ed egli è permanentemente compenetrato in tale convinzione, avendo cessato di identificare la soggettività con il corpo. (comm. a II.8; 1999)
 
*Tale assenza di discernimento è [[Māyā]], la proliferazione che è fondata sulla non percezione della vera realtà. (comm. a III.3; 1999)
*Per lo yogin divenuto simile a Śiva, nel modo che si è detto – il cui esistere è improntato alla modalità del suo riconoscersi come Śiva – l'essere, il sussistere della forma corporea costituisce l'osservanza religiosa. Un'osservanza da praticare rigorosamente, intenti ad un supremo atto di adorazione, ininterrotto, che altro non è se non la continua consapevolezza della propria intima natura. (comm. a III.26; 1999)