Michela Marzano: differenze tra le versioni

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* Più il tempo passa, più sono convinta che questa smaterializzazione progressiva della donna, come unica via d'accesso all'uguaglianza, sia un'''impasse''. Non mi sembra che l'esistenza oggettiva di una differenza sessuale implichi automaticamente la svalutazione della donna e la supremazia maschile. Al contrario, proprio quando si rinuncia alla differenza per conformarsi a un modello unico d'umanità si rischia di rinunciare definitivamente a tutto ciò che ci rende uniche e insostituibili.
* Ho imparato a utilizzare il mio corpo in un certo modo perché sono immersa in un mondo «sessuato», in cui tutto contribuisce a insegnarmi ciò che è un [[uomo]] e ciò che è una donna. E allora? Devo per questo concludere che è più interessante «fare», indipendentemente dalla mia identità di donna, piuttosto che «essere» donna in tutto quello che faccio? Perché, per essere considerata uguale agli uomini, dovrei rinunciare alla mia specificità, a ciò che mi caratterizza come donna?
* Nel momento in cui tutto diventa frutto di una costruzione, il corpo finisce col diventare un «niente», una sorta di composto chimico che si scioglie nel solvente delle critiche. La porta si spalanca allora di fronte alla possibilità stessa di negare qualsiasi ruolo alla realtà. Non ci si accontenta più solo di denunciare la dominazione maschile - che vede nel corpo delle donne un oggetto a disposizione degli uomini -, ma si arriva addirittura a negare che il corpo delle donne sia diverso da quello degli uomini.
* Ciò che conta non è solo essere ascoltata, ma esserlo in quanto donna. Fino a quando l'unico modo per essere accettate e riconosciute uguali agli uomini sarà quello di negare la nostra differenza e fare come se tutti fossimo identici, noi donne non avremo vinto la nostra lotta per l'uguaglianza. Ci sarà sempre qualcuno che rifiuterà valore e dignità a chi non è «perfettamente identico».
* Senza un preliminare riconoscimento dell'altro, la [[maternità]] non esiste. La procreazione è un atto relazionale, un processo lungo e complesso che implica l'esistenza di un dialogo, seppur silenzioso, tra il futuro bambino e la madre all'interno del corpo materno. Se il riconoscimento non avviene, questo dialogo silenzioso non comincia, ed è difficile pensare che un dialogo mai nato possa instaurarsi in seguito. Ciò che, invece, è certo è che non si può imporre a una donna di portare avanti una gravidanza con la scusa che «avrebbe dovuto pensarci prima».
* La legalizzazione dell'aborto non obbliga nessuna donna ad abortire se non lo vuole. Non obbliga nessuno a considerare l'aborto moralmente legittimo. Permette solo a tutte coloro che non possono, o non vogliono, portare avanti una gravidanza di farlo nelle migliori condizioni, senza «pagare» un prezzo eccessivo per una scelta che, lo ripeto, non è mai banale. Al contrario, coloro che vogliono criminalizzare l'aborto non solo cercano di imporre agli altri la loro concezione del mondo e della morale, ma sono anche «indifferenti» di fronte alle tragiche conseguenze che potrebbe avere, per molte donne, il fatto di tornare a praticare l'aborto clandestino.
* Nel caso dell'aborto, ogni donna sa che il problema non riguarda solo il suo corpo, ma anche una «relazione impossibile» con un figlio che, per motivi spesso diversi, non si vuole o non si è in grado di avere. Lo difendo soprattutto perché la legalizzazione dell'aborto è l'unica possibilità che esiste, in uno stato civile, per garantire il rispetto delle donne. Non solo perché la vita di una donna - che esiste, vive, soffre, agisce - è infinitamente più preziosa di quella di un essere che non è ancora nato; ma anche perché sono convinta che non basta vivere perché la propria vita abbia un senso.
* La [[maternità]] non è né una necessità né una maledizione. È un'esperienza straordinaria che permette alla donna, nel momento in cui decide di diventare madre, di ricomporre la famosa divisione tra [[corpo]] e [[anima]], senza che per questo il [[desiderio]] femminile si identifichi con il desiderio di maternità. Durante una gravidanza, il tempo biologico si impone al tempo biografico, ma non lo cancella mai completamente. Il corpo della donna diventa uno spazio in cui la madre e il nascituro entrano in relazione. La donna ha la possibilità di vivere una condizione del tutto particolare: da un lato, si identifica con il suo corpo che si trasforma; dall'altro, se ne allontana, talvolta fino al punto di estraniarsene. I movimenti interni non sono più solo i suoi movimenti. Appartengono a un'altra creatura che comincia a vivere. Sono i confini stessi del corpo materno che si aprono.
* Per certi aspetti, non esistono parole che suonino vere per descrivere la maternità. Non si tratta di una condizione naturale, né di un bisogno socialmente indotto. [...] Durante la gravidanza non è solo il corpo della donna che si trasforma, ma anche il suo immaginario. E, all'interno di questo immaginario, il figlio viene spesso caricato di molte aspettative. La maternità non è ''solo'' l'avventura di una donna; coinvolge sempre anche gli altri: i nonni, il padre, e, naturalmente, il bambino che nascerà e che ha il diritto, a sua volta, di essere accudito e riconosciuto pienamente.
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* In una società in cui il messaggio predominante è che ogni donna può (e deve) modellare il suo destino, autodeterminarsi e dare forma alla sua identità, molte ragazze si sono sentite prigioniere di un'ingiunzione terribile: se vuoi riuscire nella vita devi controllarti, diventare quello che gli altri si aspettano da te, essere impeccabile, anche a costo di sacrifici e rinunce dolorose.
* Il problema delle donne che soffrono di [[anoressia]] non è la [[fame]]. Perché in realtà le anoressiche [...] hanno sempre fame. Una fame enorme. Una fame che le perseguita costantemente, proprio perché non «possono» e non «devono» mangiare. Il vero problema dell'anoressia è il sentimento di onnipotenza che nasce quando si ha la sensazione di poter controllare tutto, anche la fame. Nel loro corpo emaciato, le anoressiche sfidano la [[morte]], proprio mentre la portano in giro come una medaglia da mostrare; sfidano i desideri, negando i bisogni primari del corpo, proprio mentre il desiderio non riesce più a emergere; sfidano le norme sociali per sentirsi libere, proprio mentre costruiscono da sole un sistema di leggi intransigenti che non possono mai trasgredire.
* Difendere un'[[idea]] - e battersi perché possa un giorno trionfare - è diventato il simbolo dell'incapacità di adattarsi al mondo e al [[futuro]]. Le idee non hanno più nessun valore. Siamo in un mondo pragmatico, dove solo i «fatti» contano, a prescindere dai mezzi che si sono utilizzati per arrivare ai propri scopi. E anche i «fatti», in fondo, contano relativamente, perché basta negare ciò che si è fatto, magari alla televisione davanti a milioni di telespettatori, per convincere gli altri che non si è fatto nulla. [...] È il trionfo di «tutto e il contrario di tutto», reso possibile dal fatto che si cresce con l'illusione che non si è mai del tutto responsabili, nel caso qualcosa possa non andare per il verso giusto.
* Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all'uomo, tanto più l'uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende aggressivo, brutale, volgare. [...] Si tratta di uomini che non accettano l'autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al loro volere. Esercitano la violenza (da quella verbale a quella fisica e sessuale) per paura di perdere il loro potere: il loro atteggiamento viene percepito come «normale»; fa parte del copione della virilità cui in genere aderiscono profondamente.
* Paradossalmente, il «declino dell'impero patriarcale» va di pari passo con l'aumento delle violenze contro le donne. L'emancipazione della donna non porta ancora all'equilibrio sperato. Il bisogno dell'uomo di dimostrare la propria superiorità prende al contrario forme estremamente inquietanti. Dietro lo stupro c'è quasi sempre il bisogno di umiliare la donna, la volontà di lasciare una traccia di sé su quest'essere che si continua a considerare inferiore.