Enzo Erra: differenze tra le versioni

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*Tutto questo non toglie, anzi aggiunge, valore ‘alle imprese di chi realmente si impegnò a compierle: perché è evidente che minore è il numero dei combattenti, maggiore è il loro coraggio. Vale però a stabilire che non la città di Napoli ma un piccolo, forse piccolissimo, numero di napoletani sparò sui tedeschi. E c’è quindi da chiedersi perché si sia sempre detto e si continui a dire il contrario. Se lo chiesero, probabilmente, anche alcuni dei protagonisti, se risponde al vero l’osservazione di De Antonellis sugli elenchi gonfiati da un lato e deficitari dall’altro (p. 168).
*Sembra infatti di comprendere che, mentre altri si affollavano, una parte dei combattenti non si sia preoccupata, o abbia addirittura evitato, di farsi includere negli elenchi e di ottenere la relativa qualifica. Che una certa riluttanza a mettersi in mostra, e persino a farsi avanti, sia emersa tra i veri partecipanti agli scontri, risulta anche da altre fonti. « Nelle quattro giornate di Napoli », scriveva [[Giovanni Artieri]] nel 1963, « rarissimo caso, nessuno dei capi o dei combattenti avanzò pretese a ricompense, sbandierò ferite e mutilazioni. Tarsia morì oscuro e povero qualche anno fa; Stimolo continuò a fare il partigiano in imprese arrischiatissime, e cadde durante una missione in Romagna per conto del CLN di [[Genova]]. Parente è tornato ai suoi libri e ai suoi studi, e via dicendo» (p. 169).
*Di questo stato d’animo si avvide anche il giornalista Vittorio Ricciuti, che nella presentazione editoriale del film dedicato da Nanni Loy alle « quattro giornate » osservò: « Sono riuscito durante le mie ricerche a identificare alcuni di questi patrioti che non vogliono nemmeno sentir parlare di quel periodo. Sostengono di non ricordare quel che avvenne e come cronologicamente avvenne. In fondo, quelle memorabili giornate divennero leggenda nel momento stesso in cui coloro che ne erano protagonisti le vivevano ». Ecco: non sappiamo se il giornalista lo comprese in pieno, ma forse fu proprio la leggenda che non piacque a chi l’aveva vissuta come realtà (p. 169).
*La leggenda era già sui muri, mentre i guerriglieri consegnavano agli angloamericani le armi che avevano usato contro i tedeschi, e mentre gli « scugnizzi » si toglievano le cartucciere dal collo per impugnare le spazzole dei lustrascarpe. Il manifesto fatto affiggere dal comitato dei partiti affermava che la città aveva « subìto in [[silenzio]], senza odiare, oltre cento azioni aeree », che « non appena aveva potuto aveva cacciato con le armi gli ultimi reparti tedeschi », che aveva « nascosto i suoi figli per preservarli alla lotta contro l’invasore tedesco », e che gli alleati avrebbero ritrovato « la vecchia amicizia tradizionale, non scalfita dalla assurda guerra » e « l’animo immutato che ci unì nel periodo 1915-1918 ». Non da meno il manifesto di Piccardi, che si diceva « compensato di ogni dolore e amarezza » dal privilegio di aver assistito « al superbo risveglio di questa popolazione, la quale, fedele alle più nobili tradizioni, si è levata in armi per cacciare l’odiato invasore », e invitava la popolazione medesima ad « accogliere le forze liberatrici delle [[Nazioni Unite]] con una dignitosa e fiera manifestazione di entusiasmo e di simpatia » (p. 170).
*In queste prime parole, stampate e affisse mentre ancora durava l’eco viva dei fatti, era già evidente l’intenzione di usare le « giornate », per quante fossero o non fossero state, come supporto per una precisa tesi ideologica: gli italiani — e nel caso specifico i napoletani — non avevano mai considerato gli angloamericani come nemici, tanto è vero che avevano già dimenticato (e, prima ancora, vissuto « senza odiare ») lo spaventoso massacro a cui, talvolta persino senza motivo, erano stati sottoposti; avevano invece sempre odiato i tedeschi, e avevano accolto in massa e con gioia la prima occasione per trattarli da nemici quali erano sempre stati, e per rinverdire il conflitto ‘15-’ 18. Tesi che conduceva per via logica al corollario: guerra ingiusta e impopolare la prima; guerra giusta e popolare la seconda (p. 170).