Giuseppe Carlo Marino: differenze tra le versioni

storico e accademico italiano
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Versione delle 15:20, 5 dic 2011

Giuseppe Carlo Marino (1939 - vivente) è docente di Storia Contemporanea.

Biografia del sessantotto

Incipit

Gli anni quaranta erano sembrati tempi nuovi e fecondi. Le parole più in voga per definire quanto stava accadendo erano liberazione, rinascita, ricostruzione, primavera anche se la guerra di liberazione dal nazifascismo era stata vinta dagli italiani nel contesto di una sconfitta e di una tragedia nazionale.

Citazioni

  • Vari fatti turbavano e indignavano gli ex partigiani e le loro famiglie. A parte il caso del deputato comunista Moranino, messo sotto accusa per crimini di guerra, condannato e infine amnistiato, fecero scalpore i diciotto anni di reclusione inflitti a Orfeo Landini per l'uccisione di dodici persone nel corso di un'azione partigiana (p. 111).
  • L'effetto dell'articolo sull'opinione pubblica, ben studiato di recente da un breve saggio di Tiziano Tussi[1], fu travolgente e sfiorò persino il colle del Quirinale su cui era seduto il partigiano Giuseppe Saragat. Sotto la pressione di un gruppo cattolico che si identificava nelle posizioni integraliste di don Giussani, il procuratore aggiunto Oscar Lanzi avviò sul caso delle indagini culminate nell'incriminazione dei redattori del giornalino per reati contro la morale pubblica e dello stesso preside dell'istituto Parini per incitamento alla corruzione (p. 179).
  • Si comunica che in questa città[2], dall'autunno scorso hanno fatto la loro apparizione in numero sempre crescente, gruppi di giovani cd. “capelloni” in gran parte studenti, elementi immigrati dal meridione e disoccupati. L'orientamento politico di siffatti elementi è, in prevalenza, anarchico-libertario, mentre piccole frange, che agiscono autonomamente, si ispirano alla non violenza, all'obiezione di coscienza, all'ideologia delle guardie rosse. Dichiarano di operare con il proprio cervello contro tutte le forme di paternalismo borghese: professano il rifiuto della famiglia con tutte le sue costrizioni e repressioni sessuali, nonché il rifiuto di ogni forma di collaborazione, per staccarsi dalla vecchia generazione, al fine di dimostrare agli latri la validità della provocazione, definita “nuova metodologia” (p. 197).
  • Era il 14 novembre del 1967, una mattinata fredda e uggiosa in cui la nebbia faticava a diradarsi. Riuniti in assemblea da alcuni capi improvvisati (Capanna, Luigi Bruni, Lorenzo Frugiuele, Luciano e Piero Spada tra gli altri) gli studenti tumultuavano per l’aumento delle tasse deciso alla chetichella dal Senato accademico in piena estate, mentre l’Ateneo era vuoto per le vacanze: un atto giudicato provocatorio, compiuto con furbizia pretesca e con l’inganno da un sinedrio docente alimentato dallo spirito di una cristianità costantiniana agli antipodi dei nuovi tempi. L’assemblea chiese, con un documento approvato per alzata di mano:
    #abolizione dell’aumento delle tasse;
    # introduzione di tutte le categorie universitarie negli organi di gestione dell’università;
    # abolizione della censura preventiva sugli organi studenteschi.
    Decisero di aspettare pazientemente la risposta, che non venne.
Il 18 successivo si tenne un’altra assemblea nell’aula “Agostino Gemelli”, alla presenza del rettore Ezio Franceschini. I ribelli rincararono la dose: adesso chiedevano, spalleggiati dai docenti subalterni ostili ai baroni, anche “la pubblicizzazione di tutti gli atti ufficiali dell’Ateneo” (quel che si chiamerebbe oggi “trasparenza”) e l”ammissione degli insegnanti incaricati, degli assistenti e degli studenti nel Consiglio di amministrazione” (quel che si chiamava già allora, e si chiamerebbe oggi, “gestione democratica”).
La conclusione fu, come previsto, un nulla di fatto. Di qui la decisione, a tarda notte, di occupare l’intero Ateneo, ovvero ben sette Facoltà. Trecento studenti chiusero le cancellate di ingresso con catene d’acciaio; rimasero dentro a occupare in centocinquanta, per la prima volta maschi e femmine in ostentata promiscuità, in un ambiente tradizionalmente sessuofobico.
Il Senato accademico decise per il pugno di ferro. Con cinque voti favorevoli, uno contrario e un astenuto, si avvalse di una legge del 1935 (l’art. 16 del Regio Decreto n. 1071) e applicò le sanzioni previste in tema di disciplina: furono espulsi in blocco tutti i centocinquanta di quella prima notte di occupazione.
Si intendeva così, come si dice, tagliare la testa al toro e soprattutto dimostrare che la Cattolica non era la sede adatta per esperienze simili a quelle pisane battezzate da Potere operaio. Invano gli occupanti avrebbero inalberato, non senza intenti di sottile provocazione, un enorme cartello nel quale si leggeva a caratteri cubitali: «Siamo cattolici, non siamo comunisti».
Il rettore Franceschini, che si sarebbe abituato a questa pratica, chiamò in soccorso la polizia per far sgomberare gli occupanti (cosa, a quei tempi, giudicata assai severamente in nome dei tradizionali diritti e privilegi dell’università). Ma avendo ottenuto solo il risultato di esasperare gli animi — perché gli studenti cacciati dai poliziotti uscivano dalle porte e rientravano dalle finestre, mentre un gruppetto resisteva sotto un telone, nell’atrio, al gelo — tentò di applicare il vecchio metodo del “bastone e della carota”: per un verso decise di chiudere l’Ateneo a tempo indeterminato; per un altro, congelò, senza revocarli, i provvedimenti di espulsione, chiedendo consiglio all’intero corpo accademico, compresi gli assistenti e gli incaricati. Se ne ebbe, per tutta risposta, l’inizio di una contestazione da parte degli stessi docenti democratici: tre ordinari (Mazzacchi, Peffizzi e Nicolini), quattro incaricati (Scarpat, Lizzeri, Ferri e Tiziano Treu) e ben quaranta assistenti scrissero e resero pubblica una lettera che muoveva dalla decisione delle espulsioni degli studenti per denunciare la pedagogia e la stessa visione del mondo della Cattolica (p. 268-69)
  • La Facoltà di Lettere, già occupata e poi sgomberata a forza dalla polizia, era stata rioccupata nella notte tra il 24 e 1125 da una cinquantina di docenti, 67 dopo un’imponente manifestazione di protesta nelle vie cittadine. In appoggio ai docenti minacciati dai fascisti, si verificò l’assalto improvviso di cinquecento studenti che riuscirono ad aggirare lo schieramento della forza pubblica e a raggiungere l’aula magna attraverso l’ingresso principale del rettorato, picchiando a sangue nove malcapitati bidelli e scontrandosi[3] con un gruppo di agenti. Porte sfondate, vetrate infrante, le pareti imbrattate da centinaia di slogan “rivoluzionari”. Sette Facoltà occupate o rioccupate, comprese Giurisprudenza e Magistero. Bilancio delle violenze che continuarono ininterrotte, seppure con fasi alterne, per una quindicina di giorni: oltre dieci feriti e centinaia di contusi.
Da parte delle autorità accademiche si tentò ancora la carta delle blandizie con la speranza che il movimento, lasciato al suo libero sfogo, finisse per esaurirsi spontaneamente. Il risultato fu che i gruppi estremistici — tra i quali si distinguevano i guevaristi e i filo-cinesi — mai realmente espulsi dal campus a dispetto delle varie operazioni repressive, divennero padroni del territorio. Le occupazioni risultavano persistenti, animate da apporti crescenti, in un tumulto di voci, di proposte gridate, di scazzottature, tra ubriachi e drogati, raffinati ideologi ed elementi capaci soltanto di menare le mani. Gli studenti del gruppo Che Guevara, facilmente identificabili per le folte barbe alla Fidel Castro e i maglioni a girocollo, dichiaravano a stupefatti giornalisti di «accarezzare il sogno di trasformare gli Atenei italiani in tante cittadelle rivoluzionarie», mentre i loro colleghi cattolici dell’Intesa andavano a Messa nella cappella universitaria e ne uscivano, comunque, con i bastoni.
Il rettore si giustificò pubblicamente per aver di nuovo sollecitato l’intervento delle forze dell’ordine: una decisione legittima, una «decisione imprescindibilmente necessaria», gli fece eco il Senato accademico (p. 276-77).
  • L’osservazione è valida anche per lo scontro più drammatico e vistoso della contestazione studentesca romana: la “battaglia” di Valle Giulia, di cui si erano avute avvisaglie fin dal 26 febbraio e che ebbe il suo culmine in un memorabile primo marzo in cui studenti e poliziotti (con l’ovvia partecipazione di provocatori, teppisti e neofascisti) si batterono per il controllo della Facoltà di Architettura; un evento che sarebbe stato presto caricato di un particolare valore simbolico, destinato successivamente a unire e a dividere, nonché a rappresentare nell’immaginario giovanile la primogenitura del Movimento studentesco italiano anche rispetto al Maggio francese, ancora di là da venire. La polizia aveva fatto un uso soverchiante di candelotti lacrimogeni e di manganelli contro il fronte unito (di sinistra, ma anche di destra) degli studenti ribelli i quali, a loro volta, avevano reagito duramente con pietre e spranghe, nonché dando alle fiamme alcune delle classiche jeep della Celere. Lo scontro, dalle movenze iniziali alla sua fase più acuta, aveva prodotto, sul campo, un centinaio di feriti. Di quell’episodio, Pier Paolo Pasolini (per alcuni versi anche lui un sessantottino) colse l’irritante natura di una prova di pura estetica della violenza e dell’aggressività dei figli di papà dediti al gioco della rivoluzione (p. 279).
  • In qualche modo, la vocazione del movimento era anche moralistica e pedagogica, contro la banalità della cosiddetta civiltà del benessere e dei consumi; lo strumento prescelto per realizzarla, più ancora che la necessaria violenza, da ritenere scontata negli scontri con i poliziotti, era soprattutto la gogna. Il tutto, nella serrata dinamica di cui ritroviamo qui di seguito, attraverso la documentazione archivistica, gli episodi salienti.
A Milano, il 26 marzo, un corteo di dimostranti con una folta partecipazione di femministe paralizza a lungo il centro cittadino e blocca piazza San Babila. Da qui si muove un gruppo di “cinesi” che va a infrangere le vetrate del “Corriere della Sera” provocando panico nella redazione. Il giorno dopo dilagano in città le manifestazioni contro la repressione, con assembramenti e comizi davanti al palazzo di Giustizia e alla Prefettura. Poi blocchi stradali e conseguenti tafferugli a piazzale Loreto e in altri luoghi.
Il 28 marzo, alla Cattolica si guerreggia con i neofascisti che, con un imprevisto assalto alle guarnigioni di sinistra, sfondano le porte e consentono al rettore Franceschini di entrare nei suoi uffici “alla testa di un manipolo di bideffi”[4]. Tra la sera e la notte si svolge, dinanzi al Teatro alla Scala, la prima grande dimostrazione anti-borghese con una fitta pioggia di uova marce sulle pellicce delle eleganti signore parate per una prima della stagione operistica.
Il 4 aprile, mentre è in corso anche una vistosa mobilitazione nelle scuole medie, gli universitari del Movimento studentesco definiscono il modello organizzativo e il sistema di alleanze della contestazione globale: un fronte unito degli studenti di ogni ordine e grado con i docenti precari e subalterni, nonché, a riuscirci, con gli operai delle fabbriche.
I primi successi sembrano promettenti. In opposizione al ministro Gui, riesce l”aggancio” con gli studenti medi e i docenti precari e subalterni, nelle assemblee convocate “in concomitanza dello sciopero degli insegnanti aderenti alla Cgil”; nel contempo, si decidé “per gli operai, di appoggiare i loro scioperi, contribuendo nell’effettuazione di picchettaggi dinanzi alle fabbriche”. In una situazione di caos, mentre le Facoltà, non più occupate ma sempre in stato di agitazione, restano di fatto sotto il dominio degli studenti (che altro non consentono ai professori se non di dare svolgimento alle operazioni per gli esami di fine d’anno con inedite procedure di cui ci occuperemo avanti) si va verso la pausa estiva. Che cosa fare alla riapertura autunnale?
I cosiddetti moderati tendevano al contenimento della contestazione entro le misure delle istanze anti-autoritarie coltivate per la prosecuzione degli studi; di contro, gli intransigenti sostenevano le ragioni rivoluzionarie della contestazione globale. C’erano numerosi soggetti che teorizzavano la necessità di rendere permanenti le occupazioni delle sedi universitarie, di istituzionalizzarle “anche prescindendo da motivi contingenti di protesta”, poiché — rilevavano, tra gli altri, gli studenti pisani — “l’università appartiene alla base universitaria e questo possesso va affermato contro le strutture esistenti che lo negano” (pp. 288-89)
  • Il problema della classe dominante è quello di subordinare la scuola alle esigenze del sistema produttivo. Di conseguenza, la scuola diventa un fondamentale strumento di integrazione preposto all'asservimento dell'intero mondo del lavoro e delle professioni. L'ingegnere, il medico, il filologo, tutti i vari tecnici e professionisti escono dalle scuole provvisti di una preparazione strettamente specialistica, ma incapaci di coscienza critica”, sicché “la scuola perpetua e approva delle differenze sociali che non hanno affatto corrispondenza nella realtà produttiva. La vita universitaria è vissuta come corsa all’acquisizione di un privilegio da conseguire attraverso la memorizzazione acritica di nozioni che verranno presto dimenticate”. In perfetta coerenza con questo suo uso capitalistico, la scuola diventa “strumento di selezione” e “strumento di subordinazione”. In essa a tutti i livelli, “la didattica autoritaria sopprime le esigenze culturali e le istanze politiche, nega la loro autonomia e vi sostituisce la loro subordinazione e l’accettazione delle imposizioni dell’autorità e il conformismo dell’ordine costituito”. Da queste premesse, l’indicazione strategica: “La prospettiva di movimento della lotta studentesca è quella del diritto allo studio espressa dalla contestazione globale all’assetto del sistema” (p. 293-94)
  • Nel quadro delle molteplici opzioni di studio e ricerca che la nuova organizzazione è chiamata a mettere in campo, ogni studente è libero di seguire i seminari che ritiene opportuno. È previsto che sia la stessa assemblea a stabilire un numero minimo di seminari da seguire nel corso dell'iter universitario, definendone all'inizio di ogni anno accademico il numero complessivo e i titoli. Ciò al fine di rendere superflua e superata ogni distinzione tra piani di studio e facoltà nel quadro di un ordinamento ricostituito di sana pianta mediante radicali innovazioni puntigliosamente indicate con toni da diktat:
  1. Completa abolizione della figura tradizionale del docente, della sua inamovibiità e insindacabilità del suo operato, nonché delle “chiamate” come strumento corporativo.
  2. Abolizione della lezione cattedratica e dei suoi strumenti (manuali, dispense, ecc.). Ogni seminario potrà articolare fasi preliminari dei propri lavori a seconda della sua necessità.
  3. Abolizione dell’esame di profitto e di laurea (scritti e orali) e sua sostituzione con una valutazione pubblica complessiva ad opera dello stesso seminario.
  4. Tesi di laurea. Questa non potrà essere un’esercitazione avulsa dal lavoro precedente e non personalmente scelta, ma dovrà essere la logica conclusione di una ricerca organica rispondente agli effettivi interessi dello studente. Potrà quindi essere un lavoro di gruppo e non necessariamente individuale e settoriale quale è stato finora (p. 295)
  • Siamo noi, in quanto e perchè fascisti, i veri contestatori del sistema. Siamo rivoluzionari tanto quanto siamo antidemocratici, rifiutando integralmente la tradizione illuministica dalla quale è nata la società materialista sfociata nella cd. “società del benessere” (p. 312)
  • Rilevate le speciali passioni per l'ordine di quegli elementi di punta, doveva ovviamente risultare ben poco conturbante il fatto che tra loro vi fossero dei pericolosi picchiatori quali l’assai noto Pier Luigi Concutelli — da lì a poco destinato a distinguersi in torbide imprese del terrorismo di destra — e l’altrettanto noto e violento Francesco Mangiamei. Con il tempo, intorno al nocciolo duro del Fronte nazionale del “principe nero”, si sarebbe formata un’area molto più vasta di forze giovanili eversive comprendente anche numerosi elementi iscritti al Msi e che da qui ottenevano un’ufficiosa approvazione, tanto più che si stavano moltiplicando le autorità statali disposte a vederli di buon occhio, in quanto ritenuti capaci — rilevava, tra gli altri, il prefetto di Sassari— «di costituire una valida opposizione alle ideologie e alle iniziative attuate dal Movimento studentesco al quale, come è noto, aderiscono soprattutto giovani estremisti di sinistra». Il che la dice lunga sulle premesse, almeno di mentalità, di un processo che già stava favorendo, e avrebbe poi reso endemiche, certe complicità di intere parti dell’apparato statuale (a partire dai Servizi segreti) con gli elementi più aggressivi e avventuristi della destra; i Concutelli, i Stefano Delle Chiaie, i Fioravanti, i Giannettini, i Franco Freda, i Ventura (p. 322).
  • Gli studenti del fronte sessantottino ragionavano sulle questioni del lavoro dal punto di vista delle professioni che avrebbero esercitato nella vita civile dopo il conseguimento della laurea e rigettavano un futuro nel quale era prevedibile che le loro specifiche competenze intellettuali avrebbero assunto un ruolo di servizio a favore e a sostegno di un sistema ingiusto e oppressivo. Aborrivano un avvenire professionale che pareva in sé predisposto alla mercificazione dei loro saperi. Questa percezione “pura” e disinteressata del valore della professione, che si temeva potesse scadere a un mero strumento per far soldi al servizio dei ricchi e dei potenti o, peggio, trasformarsi in un’opportunità per esercitare potere nel potere, li induceva a sentirsi esposti alla stessa sorte di alienazione nella quale incorrevano normalmente i lavoratori salariati (p. 358).
  • Un episodio del genere si verificò a Taranto a scapito di alcuni militanti di Lotta continua provenienti dall’Italia settentrionale, impegnatisi, con uno stile che ricordava quello degli anarchici ottocenteschi alla Mikail Bakunin, nel tentativo d far insorgere contro lo sfruttamento dello “Stato padrone” (ovvero dell’Iri) i metallurgici dell’Italsider, in maggioranza fieri di aver conquistato un posto di lavoro in una realtà normalmente funestata dalla disoccupazione. Ben comprensibilmente, quegli ingenui agitatori (i piemontesi Michele Imperiale e Aurelio Ferraris e la romagnola Morena Mordente) non riuscirono a raccogliere “alcun consenso per l’ostruzionismo degli elementi comunisti locali” e se ne ripartirono con le pive nel sacco, “aggrediti verbalmente” dagli operai (p. 364)
  • Il contrasto esplose all’interno dell’area gruppettara che faceva riferimento al pisano Potere operaio e si concluse con una scissione, ovvero con l’apertura di due strade che con il tempo si sarebbero ancor più nettamente divaricate. La vicenda cominciò il 25 e 26 luglio, a Torino, nell’assise nazionale delle “avanguardie operaie e studentesche”, a poche settimane dalla già ricordata “battaglia” di corso Traiano. Nel corso del dibattito si evidenziò la contrapposizione tra la linea indicata da Franco Piperno, che proponeva di dare vita a un’organizzazione strutturata sul modello bolscevico-leninista, e l’altra, sostenuta da Guido Viale per una fondamentale ispirazione di Adriano Sofri, favorevole soltanto alla costituzione di un coordinamento nazionale delle “avanguardie”. Successivamente, in autunno, su quelle premesse bolscevico-leniniste, una parte del Movimento studentesco capeggiata a Roma da Piperno e Oreste Scalzone e sostenuta da un gruppo di militanti torinesi, diede vita alla nuova, pretenziosa struttura nazionale di Potere operaio. Adriano Sofri, a sua volta, in novembre, perfezionò e tradusse in pratica la su risposta a quella provocazione scissionista: formalizzò e consolidò la scissione, decidendo di fondare il periodico “Lotta continua”, centrale di attivazione critica e di coordinamento di un omonimo movimento al quale aderirono subito, insieme ai suoi seguaci del vecchio Potere operaio pisano, alcune intraprendenti forze di studenti rivoluzionari, soprattutto trentini, veneziani, bolognesi, fiorentini e napoletani, ma anche romani, torinesi e milanesi. A “Lotta continua” sarebbe affluita una parte importante dell’area culturale già costituita dai “Quaderni piacentini”, mentre Potere operaio si sarebbe alimentato soprattutto di forze intellettuali formatesi nella redazioni di “Quaderni rossi” e di “Classe operaia”. Com’è ben intuibile, sui fili arroventati del contrasto correvano tutte le profonde differenze di giudizio dei due schieramenti sulla storia e sulla politica dell’Unione sovietica, sulla Cina e sulle potenzialità rivoluzionarie del Terzo mondo. E anche, a parte i diversi stili di militanza che si sarebbero evidenziati in seguito, le differenze tra una cultura di sinistra nella quale lo spirito libertario e gli umori anarchici prevalevano sul marxismo-leninismo, rispetto a un’altra nella quale accadeva il contrario (p. 272-73).
  • Al di là del frastuono delle iniziative degli studenti, nella società allargata si produssero trasformazioni molecolari che incisero sul costume e modificarono i comportamenti e le idee persino degli anziani (p. 344)
  • A Firenze, nella lotta alla repressione, era stata in prima fila Magistratura democratica: la sua sezione toscana, con i magistrati Ramat, Senese, Margara, Onorato, Gratteri e altri, era parte importante di un comitato costituitosi in gennaio a palazzo Medici-Riccardi nel corso di una riunione alla quale avevano partecipato personalità appartenenti a un ampio orizzonte politico e culturale: da sindacalisti della Cgil e della Cisl (Cardinali, Bertolini, Annunziati, Paolucci e Tesi) a personalità investite di ruoli pubblici istituzionali come il presidente della Provincia Elio Gambuggiani e due membri del Consiglio Superiore della Magistratura (i professori Cavallaro e Curatola), a parlamentari socialisti, comunisti e radicali (Calamandrei, Codignola, Fabiani e Raicich), a un fervoroso uomo di chiesa come don Mazzi della Comunità dell’Isolotto e a un militante dell’area marxista-leninista come l’avvocato Gracci. Quest’ultimo aveva accusato “il potere politico di omissione per avere volutamente rinunziato ad abrogare i codici fascisti”, sostenuto apertis verbis dal giudice Ramat. A Trento, l’Associazione giuristi democratici fu l’anima di una convergenza unitaria contro la repressione di Ms, Pci, Psiup, Cgil e Acli. E così pure a Cagliari, dove l’alleanza, fin da gennaio, si era allargata anche ai gruppi fiocinesi” (p. 441)

Explicit

I ragazzi “no global” interrogano e si interrogano, con l'ansia di conoscere se, e in quale misura, siano adesso somiglianti ai ritratti culturali dei loro anziani, ai volti giovanili ormai sbiaditi negli album di famiglia. Loro, gli anziani, non lo sanno. Alcuni lo vorrebbero. Altri lo temono.

Note

  1. cfr. Quella zanzara che punse i benpensanti, “Millenovecento”, n. 12
  2. Cfr. il rapporto del Prefetto di Milano Boselli al Ministero dell'Interno, 27 febbraio 1967
  3. In una recente intervista a Piero Sansonetti (Adesso Fini è antifascista?, in “L’Unità”, 29 novembre 2003), la signora Assunta Almirante ha raccontato che suo marito in persona, certamente almeno una volta, fu presente sulla scena degli scontri, alla guida di una squadra di neofascisti: «L’Università era occupata dai giovani comunisti e i giovani fascisti volevano liberarla. Giorgio andò con loro e prese un sacco di bastonate». C’era anche Giulio Caradonna, inteso a sinistra come “il mazziere pugliese.” Secondo il racconto di donna Assunta, il Caradonna se ne stette da parte, in un angolo. Invece Almirante, maturo cinquantenne, si gettò nella mischia e ne uscì malconcio. «Tornò a casa pesto. Un colpo in testa gli ridusse del 40% la vista ad un occhio». Sansonetti, presente anche lui sulla scena dei fatti ma nel fronte opposto, ha ricordato a sua volta che, in quella occasione, i fascisti lanciarono un banco da una finestra e «il banco spezzò la schiena a Oreste Scalzone, che era il capo degli studenti di sinistra»
  4. In “Comunicato del Movimento giovanile della Dc sulla situazione dell’Università Cattolica”, ACS, Mm. mt. Gab., aa. 1967-70, b. 32, f. 1584/48.

Bibliografia

Marino G.C. (2004) Biografia del sessantotto, Milano, Bompiani, ISBN 88-452-3258-1.

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