Giuseppe Rensi: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Nessun oggetto della modifica
Riga 48:
==''Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte''==
===Citazioni===
*Filosofo e farmacista.
Un filosofo maturo ed esperto a chi gli chiede consiglio sui libri di filosofia da studiare, dovrebbe rispondere: che filosofia vuoi? Perché io so già che tu ne vuoi una: ossia che tu vuoi una dottrina filosofica che ti dimostri ciò che previamente e già sin d’ora credi e vuoi credere. Che vuoi adunque? Dio o gli atomi? La libertà o il determinismo? Dimmelo. Io ho qui nella mia farmacia i barattoli che contengono ciascuna di queste cose. Ti posso dare dell’una o dell’altra a seconda dei tuoi desideri o bisogni.
*Il Bene è la Pace, la pace assoluta e immutabile. «Requiescat in pace». Ma lo può solo ciò che non si muove verso alcunché e non è mosso da alcunché, che non desidera e non teme, quindi non sente, non pensa, non vive – cioè il Nulla.
*Vuoi la pace? L’hai, ma con la morte. Vuoi la «vita» (cioè l’agitazione e la passionalità vitale)? L’hai, ma con l’irrequietezza, la fluttuazione continua tra mancanza e sazietà, tra contento e malcontento, tra gioia e dolore: l’hai, cioè, col tormento. La pace è la morte. La vita è il tormento.
*Sapersi in balia dell’imprevisto, sotto la mano dell’impensato, in potere del «caso»; titubanza e trepidanza circa il futuro della propria vita; paura del futuro; dubbio, timore e tremore per le proprie vicende avvenire; tali sono le caratteristiche essenziali della religiosità. Poiché le vicende avvenire, avvertite nella loro imprevedibilità e incontrollabilità, il Futuro, il Ciò Che Sarà, nella sua assoluta indipendenza da noi, è per chi non crede nel Dio delle religioni, esso stesso Dio, e, per chi vi crede, la manifestazione della potenza imperscrutabile e irresistibile di Dio.
*Perché nel mondo fenomenico si manifesta tanto dolore, guerre, lotte, malattie, morte, contrarietà, dispiaceri (e per di più i dolori immaginari, a nobis ispsis facti, come l’amore e le sue delusioni), perché soffriamo tanto, perché tutta questa produzione di dolore nel mondo, se non perché nel germe o nell’essenza di questo, nel principio da cui scaturisce, nel suo Essere in sé (in Dio), c’è un fondo di dolore infinito?
*Si dice: se vuoi essere felice abbandona i pensieri delle cose terrene e riempi la tua mente delle cose eterne. Così Spinoza, così Fichte […]. Così Aristotele […]. Ma, pur troppo, lo stesso pensiero delle cose eterne rende specialmente infelici, qualora, approfondendolo, vi si trovi la constatazione che il Tutto, l’Eterno, l’Essere, è assurdo, cattivo, vano, e l’«ordine morale» del mondo una menzogna. E contro Spinoza, Fichte, Aristotele, contro tutti gli allucinati dalla fissazione intellettualistica che la vita di pensiero dia la felicità, ha ragione l’Ecclesiaste (1, 18): «chi accresce la scienza, accresce il dolore».
*Viviamo sotto strati di dolore, uno soggiacente all’altro e che per la presenza di quest’altro non viene percepito, ma che è pronto a far sentire la sua punta non appena quest’altro scompare.
*Più vera dell’affermazione socratica che piacere e dolore sono attaccati a un unico capo, è quella che lo sono infelicità e speranza. Lo sono perché la speranza è la List della natura, o la «funzione fabulistica» che, nell’economia della vita, serve a tener testa all’effetto micidiale dell’infelicità, della sfortuna, del dolore e quindi a questi si accompagna, in uguale misura di essi, come al veleno il contravveleno.
*Le credenze e le preoccupazioni morali e religiose rovinano irreparabilmente la concezione filosofica e la conoscenza della realtà. Dal momento che tu vuoi che le cose siano (religione) o debbano essere (morale) in un certo modo, non riesci più a vedere come effettivamente sono.
*Hai disgrazie d’ogni sorta, economiche, pubbliche, familiari, ecc.? Non crucciartene! Anche quando tutte le tue disgrazie fossero tolte e sciolte tutte le difficoltà e i problemi ad esse inerenti, ti resta l’altra disgrazia ineliminabile, l’altra difficoltà insolubile, la morte. Questa è la disgrazia totale e finale, a cui, anche risolte e tolte tutte le altre, dài di cozzo in modo irreparabile. Perché angustiarti di quelle e cercar di levartele di dosso? Che cosa, riuscendovi, avresti ottenuto, poiché ti rimane questa? Se riuscissi a liberarti di quelle, non otterresti che di far giganteggiare questa. La presenza di quelle ti serve perché getta su questa un velo.
*Quando si vede avvicinarsi la fine della vita, il pensiero «afferriamo senza scrupolo i godimenti, non moriamo senza aver provato anche questo», è, se non si crede nella vita futura (e chi vi crede sul serio, cioè così come crede alla vita presente?), insopprimibile.
*Rendere la medesima cosa disprezzabile o rispettabile e nobile chiamandola con una parola diversa: questa è la potenza della parola. E perciò chi è padrone delle parole è padrone delle cose.
*Il sepolcro e il tempo seppelliscono ugualmente sotto una sabbia uni forme la cortigiana e la santa, il martire e il carnefice, il tiranno e la sua vittima. Tutto è indifferente. Vedute le cose con questa latitudine di sguardo, virtù o vizio, santità o brutalità, tutte del pari insignificanti sciocchezzuole umane, si equivalgono: tutto è uguale; tutto è uguagliato nell’annullamento, tutto è ugualmente senza importanza e nullo.
*“L’essere”, questo è ciò che senz’altro è per sé stesso il male e il delitto. Esso non può reggersi se non mediante l’uccisione, la distruzione, l’incorporazione di altro essere, cioè di altri esseri (il nutrirsi, il nascere). Giusto è perciò morire, la morte è la giusta e meritata pena inflitta a quel delitto che è l’essere e nello stesso tempo è l’uscita da esso, cioè, la liberazione e la purgazione da esso. il vero e unico Σοτήρ, la vera e unica Σοτήρία.
*Quando si riflette che il mondo è costruito in guisa che gli esseri viventi, tanto animali quanto vegetali […] non possono persistere nell’esistenza se non nutrendosi gli uni degli altri, cioè uccidendosi a vicenda; quando si scorge da ciò che quindi il mondo è costruito sulla necessità di farsi male, sulla necessità del male; quando si pensa che da questo carattere dell’Essere totale deriva inevitabile a quella parte di esso che è l’umanità un’esistenza del pari necessariamente fondata sulla gara, sulla concorrenza, sulla lotta, sulla rivalità reciproca, e spesso sulla guerra vera e propria; bisogna concludere che, se si vuol parlare di Dio, colui che ne ha dato la più esatta definizione è il Leopardi: …. ''il brutto /
Poter che, ascoso, a comun danno impera''.
*L’importanza della tua vita non è quale la vedi e la senti tu, ma quale la vede e la sente l’altro. Questo dell’altro infatti è il giudizio obbiettivo, spassionato, svincolato dalla visuale interessata soggettiva. – Sei insegnante? Hai un metro eccellente per giudicare il valore della tua vita e della vita umana in generale. Il tuo studente che sorriderà con soddisfazione perché la tua morte gli procurerà un giorno di vacanza, e che ventiquattr’ore dopo se n’è già dimenticato: questa è la veduta dell’Altro, la veduta obbiettiva, dunque veramente la valutazione esatta di che cosa sia e che cosa conti la tua vita.
*Talvolta si vorrebbe poter sputare fuori la propria vita come un boccone troppo disgustoso; o scrollarla giù dalle spalle come un carico troppo pesante; o stracciarla e gettarla nel cestino come un romanzo che annoia o non piace o disgusta.
 
==''Scheggie, pagine di un diario intimo''==