Giuseppe Genna: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Nessun oggetto della modifica
Nessun oggetto della modifica
Riga 18:
 
"Il mondo contadino, dopo circa quattordicimila anni di vita, è finito praticamente di colpo", e anche l'Italia, anche l'Italietta, non è andata a morire in nessun luogo. Si è lasciata tramortire, lentamente, violentemente, come in un risucchio repentino, senza lasciare nulla se non l'acrimonia e, appunto, l'indifferenza. Ora, quando giro l'Italia nelle sue devastanti periferie urbane, quando la trapasso nei paesini delle cinture degli hinterland fumigosi, nella nebbia pesante che puzza di letame chimico, o quando entro nelle latterie dove si parla della tris bevendo Campari - io tasto il polso a una morte avvenuta che si è tradotta in una vita più sterile, automatica, indecente.
 
Distinguo tra loro solo i vecchi, ormai: vedo la pelle avvizzita, crepata dalle rughe, tirarsi a ogni sorso, la mano callosa stringere il bicchiere, luccicare le pupille piccolissime e umide negli occhi ridotti a fessura. Il tempo dà a questi vecchi una ''caratteristica'', se non un ''carattere''. Non hanno nulla di più saggio di quanto potessero avere venti anni fa, se non quella sorta di stordimento che deriva dall'avere sopportato il tempo, le sue botte, i suoi geloni. Se ne stanno lì, istupiditi, e guardano indietro a quel tempo che è passato, poiché sentono che ''un tempo è passato''. Le loro differenze di classe si esaltano di giorno in giorno, mentre corrono verso la fine. I vestiti sono più sdruciti, consumati negli orli, macchiati di caffelatte. Oppure: le loro camicie azzurrine, quasi intatte, i capelli soltanto un poco anarchici ma ben pettinati. Uno sguardo a un vecchio: si comprende subito da dove proviene e quale sia la specie di tempo che ha vissuto. In questa sorta di memoria imbambolata esiste ancora, conservato come la mosca nell'ambra, un tempo che è già sparito, e che non tornerà mai più.
 
Noi siamo gli ultimi testimoni di un tale tempo. Chi se ne rende conto è salvo. Non è più l'epoca degli ecumenismi. Ogni forma di ''cattolicesimo'', oggi, non può esimersi dall'essere particolare. Una reale coscienza critica, oggi, non si enuncia in qualità di principio: la si esercita, puntualmente, dolorosamente, sul corpo proprio e degli altri. O così, o la fine.
 
Questo libro enuncia verità - le nostre, di noi qui e ora.
 
Benvenuti nel Tempo dell'Astio.
Line 33 ⟶ 27:
 
===[[Explicit]]===
Alla fine a nulla è valso portare a termine il lavoro. Un diorama di tempi non miei continua a vorticare alle spalle. Come un tappeto rappresenta una preghiera, la vita che avremmo potuto vivere è un sovrapporsi di figure eroiche e personaggi minori, che si accalcano in attesa di venire scelte per la verità.
 
Io conosco l’esanime struggimento di chi non riesce a esaurire questo gioco meraviglioso e impossibile e che spera, talvolta, che una forza oscura attraversi il suo corpo e lo trasporti, una volta di più, in storie che non conosceva e in luoghi che ancora non aveva amato. Città di mare, la bruma all’alba, le grandi maree che mangiano la terra... Al largo, non molto distante da qui, sono affondati vascelli per quanto è lunga la storia della navigazione... Victor Hugo rubava frasi da libri segreti che consultava silenziosamente, imbacuccato nella lana, con la finestra spalancata su una piazzetta di Parigi ; ai suoi funerali, due milioni di francesi piansero la sua morte. Parlavano di un viaggio, annotando : “Se accetterò, come qualcosa di meritato e di indelebile nel tempo il rivestimento dei suoni, la pietrosità del sangue e la solidità della pietra, significa che non sarà stato vano il mio soggiorno in Armenia”.
 
Chi di sé non vuol conoscere il proprio “fondo sepolcrale” ? Chissà quanti uomini morti dormono in noi... E quante bestie in attesa, nell’umido delle tane, sotto le foglie, mentre goccia l’acqua... La mia accortezza mi ha fatto essere molte cose, in molti luoghi.
“Sono stato l’unico uomo a chiudere un libro con un oppure”.
Line 53 ⟶ 43:
 
E’ un dolce presera italiano che va nel soffio tiepido e niente pare ora dentro il male e il soffio carezza le piane, e le catene dei colli, le rade e i valli del paese che muore Italia. E’ un paese che muore sui giornali, l’Italia, nella carta di pastastracci e senza collanti e umida di stampa dei quotidiani di giorno in giorno. Fatti politici oscuri che spaccano le leggi, incrinano la storia. Le istituzioni di getto avvolte nelle spire azzurrine delle fiamme, dell’ignominia, dell’immoralità. Imminenza di tragedia nazionale, la politica sbilanciata pronta al crollo, e il popolo diviso non era preparato a tutto questo dopo un decennio altrettanto cupo, con tante morti e fatti capitali, anni Settanta Pochi giorni addietro i magistrati, scesi da Milano nell’Aretino, hanno compiuto irruzione nella villa chiamata Wanda dell’uomo chiamato Licio Gelli, essendo egli assente, e hanno sequestrato documenti segreti, piani di azione, strategie golpiste e una lista di nomi sacri e intelligibili, una loggia che dall’interno dei palazzi intendeva stornare il potere verso un nuovo immaginato Stato, pulito e autorevole e dittatoriale, e nel centro di questo paese che muore, nella piana dolce laziale, in fondo a un buco è una piccola mummia raggrinciata come un feto e piccina di fango che copre il corpicino di un bimbo e ancora non si leva da lui lamento o se si leva da lui, sepolto vivo 36 metri sotto il terreno in un foro di centimetri 30, nessuno lo ascolta poiché il foro traverso cui è precipitato è stato coperto. Da una lastra. Metallica.
 
Sono le 19.12.
 
Il 17 marzo la lista dei 962 nomi segreti che componevano il corpo contundente della loggia P2 ha invaso i telegiornali, le prime e le seconde e le terze pagine di tutti i quotidiani, e il chiacchiericcio degli operai e degli impiegati e il partito dei comunisti era il bersaglio principe di questa manovra cospirativa, e la lastra metallica sopra il foro di entrata al pozzo artesiano dove è caduto quel bimbo impedisce ai flebili lamenti di esalare nell’aria dolce di Vermicino, nelle prossimanze di Frascati. Nessuno ascolta. Qualcuno sa?
 
Non si vede ancora alcun umano attorno a quella conca argillosa, ombelicale, al cui centro sotto la la lastra metallica è il pozzo artesiano profondo 80 metri, il perno intorno a cui è pronta a ruotare l’Italia. L’Italia, dall’occhio impersonale e nitido dei satelliti atmosferici e dei satelliti spia, sembra un piccolo feto ripiegato su di sé, che tenta di allungarsi, prova a uscire nuotando verso l’alto.
 
Il 13 maggio scorso, non esente da complicanze e appendici di quel caso oscuro di cospirazione che fa tremare l’Italia, detto P2, il Papa è enorme e bianco sulla jeep pontificale aperta e ruota salutando nell’immensa folla di piazza San Pietro, all’interno del colonnato accecante del Bernini che abbraccia lo spazio sacro, il nuovo Papa atletico e straniero che sta comunicando ovunque una sua idea di amore che lotta e il legno smunto e tarlato della croce, e una mano olivastra con il polso magro impugna nella folla l’arma nera ed esplode la pallottola e scende un soffio azzurro e preserale e la vibrazione è ovunque, ovunque è tutto fermo, sono tutti fermi, il tempo è sospeso come in una fotografia vivente, nessun respiro, e la vibrazione irradia ovunque e si muove e impercettibile agisce sulle cose e le persone, un ultracorpo cilestrino, e penetra la pallottola e poi tutto riprende a muoversi, la folla, la jeep, il Papa, e la pallottola così deviata lo raggiunge nell’addome e perfora organi non vitali e quella vibrazione celestiale era la Madre di Dio secondo le profezie di questo secolo, il Papa che crolla, la veste bianca senza cotta ricamata è rossa del sangue, liquido in cui avviene il teatro delle virtù e delle decadenze, “l’acqua più preziosa” come era definita nei sacrifici umani dai precolombiani. Il Papa fu trasportato al Gemelli. L’attentatore fu catturato, sta ancora parlando nella cella con i magistrati a pochi chilometri dalla lastra in metallo contro cui si frange esausto il lamento del piccolo bimbo, piegato come un feto, coperto di fango, quel bimbo ha il cuore difettoso e debole e il suo nome è Alfredo.
 
La nostra cultura.
 
La nostra storia, storia di storie.
 
Le piste crociate, i sovrappassi, le tremende consistenze del caso, delle tragedie.
 
Questo bambino coperto di fango incastrato in un pozzo artesiano a 36 metri, il braccino sollevato, l’altro braccio ripiegato dietro la schiena arcuata, stretto nella morsa del fango dentro il buio che la specie teme.
 
 
===Citazioni===
*La nostra cultura. La nostra storia, storia di storie. Le piste crociate, i sovrappassi, le tremende consistenze del caso, delle tragedie. Questo bambino coperto di fango incastrato in un pozzo artesiano a 36 metri, il braccino sollevato, l’altro braccio ripiegato dietro la schiena arcuata, stretto nella morsa del fango dentro il buio che la specie teme.
*Qui, concentrato in forma di punta di lancia, lancia che preme dall’interno l’osso piatto dello sterno, il disagio acuminato. L’odio per questa finzione, per questa voce della finzione. Per me, cane nero senza ragione inferocito. Una volta avevo un entusiasmo.
*La letteratura sa essere pericolosa, ha un arco di durata più lungo di ogni altro medium o prodotto, una carica di memorabilità che sul lungo periodo straccia quello di cui sono capaci film e tv. Lui è consapevole di questa potenza. La utilizza come un’arma. E’ sfrontato. E’ dissociato: in difesa rannicchiato dietro lo scudo, va all’attacco sfrontatamente sventolando questa spada di cartapesta che è la letteratura.
Line 104 ⟶ 78:
 
 
==Incipit di ''Grande Madre Rossa''==
===[[Incipit]]===
Lo sguardo è a diecimiladuecento metri sopra Milano, dentro il cielo. E’ azzurro gelido e rarefatto qui.
 
Line 125 ⟶ 98:
 
Ecco l’impatto.
 
Invece penetra. Lo sguardo penetra la parete di marmo bianco. E’ dentro.
 
E’ in un immenso atrio, gigantesco. Le sagome piccoline umane sono affannate con i documenti in mano e vanno. I pretori bevono con facce tirate i caffè. Lo sguardo esita. Si fissa sul pavimento grigio. Riprende l’accelerazione.
 
Allucinazione. Risucchio velocissimo.
 
Lo sguardo trapassa il pavimento.
 
Lastre e lastre di marmo grigio in sezione, in accelerazione.
 
Giù, verso il fondo.
 
Sotterranei, incavi, labirinti orizzontali, tubature, corridoi bui: traforati in accelerazione.
 
Una svolta brusca. Ora lo sguardo perfora accelerato. Novanta gradi, brusca decelerazione: ora lo sguardo va in orizzontale.
 
Polvere buia di cantina, molto distante sotto dal pavimento del Palazzo bianco.
 
Svolte, curve veloci, trapassa una porta. Due. Tre.
 
Un muro in mattoni antichi: cotto rosso.
 
Trapassa il muro, lo sguardo.
 
Buio nitido. Ragni tutt’attorno.
 
Una scalinata pendente nel vuoto, verso il basso.
 
Il movimento veloce sicuro dello sguardo penetra nel buio netto.
 
Incredibilmente: una porta di ferro. Una fessura. Dall’ambiente buio a una nicchia buia. L’aria è immobile.
 
Lo sguardo procede, in progressione. Ora più lento, quasi automatico.
 
Non c’è luce. Si trapassa una larga tela di ragno.
 
Non esiste più aria.
 
Tutto è immobile e sospeso.
 
A terra: un pozzo. Lo sguardo: giù nel pozzo.
 
Più buio del buio, lo sguardo vede tutto.
 
Cauto, scivola nelle parete viscide, verticali.
 
All’improvviso: il fondo.
 
E’ uno spazio di muro circolare. C’è un piccolo altare: pietra essudata, umidissima.
 
Lo sguardo tenta di perforare sotto l’altare. Rimbalza indietro. Riprova, animale, molleggiato: non passa. Rimbalza sull’immagine di un minuscolo scheletro umano. Lo vede in un lampo. E’ una figura bianca dentro il lampo. Lo sguardo tenta di andare dentro le ossa bianche corrose del piccolo scheletro umano. Niente. Rimabalza indietro.
 
Lo sguardo riesce dalla pietra essudata gelida dell’altare e ruota su di sé in orizzontale.
 
Vede.
 
Di fronte all’altare l’enorme solido ricoperto di carta isolante e nastro adesivo ovunque sembra un enorme armadio, un intero archivio. Un parallelepipedo appoggiato. Lo sguardo supera il rivestimento di carta isolante e nastro adesivo, entra nei metri cubi del solido. E’ di metallo freddo. All’improvviso crepita: è l’elettricità.
 
Esplode.
 
Un decimo di secondo dopo, la colonna arancione e azzurra è compressa e invade gli ammezzati sotterranei senza rumore. La compressione è assoluta, tutta l’aria orizzontale è consumata.
 
Tre decimi di secondo dopo, la bolla è bianca nel punto più intimo, arancione e rossa nell’emisfera che si allarga mangiando l’aria, azzurra e verde nella superficie mobile in allargamento. Inizia a esplodere il rumore della crepa nella roccia e si sbriciolano le architetture in basso.
 
Nove decimi di secondo dopo, la forza non ha colore e sta premendo da sotto la pavimentazione enorme liscia e grigia del marmo, mentre le persone umane stanno camminando, e il rumore è molto indietro, molto indietro, piani e piani sotto, ed è un rombo inascoltabile, una voce nella materia della pietra.
 
Un secondo dopo, esplode l’atrio e due secondi dopo tutto è annullato nel suo equilibrio statico e venticinque metri sopra il livello del terreno si spacca in un incendio privo di rumore l’ultimo piano. Le persone umane sono sciolte, in questo istante sembrano cera.
 
Due secondi dopo, tutto va verso la terra, con immenso fragore di macchina e pietra, stridendo come una lepre viene scuoiata viva.
 
Pochi secondi dopo, mentre crollano gli ultimi residui e tutto l’immenso palazzo si è piegato su se stesso ed è andato a riempire l’incredibile voragine, come un vulcano lapilli di pietra incandescente schizzano verso l’alto nell’aria in un raggio di trenta chilometri dalla voragine.
 
Dieci secondi dopo incredibilmente c’è silenzio.
 
E’ esploso e crollato a Milano il Palazzo della Giustizia.
 
{{NDR|Giuseppe Genna, ''Grande Madre Rossa'', Mondadori}}
Line 231 ⟶ 128:
 
Vedo me. Non sono io.
 
Questo libro non è sincero.
 
Poiché per me la sua luce è terribile e la sua bellezza immortale mi estenua, dove sto, Italia, è un luogo che ho disimparato ad amare. Cieco tra ciechi mi muovo come le immagini note agli scrittori, e che ormai mi sfiancano: un felino in attesa dell’assalto, proprio o dell’animale avversario; una talpa che rientra con cautela nel terriccio smosso e umido della tana, sporgendo il muso nero e lucido; una blatta inconsapevole che percorre il cono d’ombra proiettato dalla suola di scarpa che grava da sopra, prima dello schiacciamento, del luccichio finale dell’esoderma.
 
Sono un mammifero esausto nella luce terribile italiana.
 
Sono un rettile che striscia dorsale a sigma nella duna del deserto, discendendo, la duna di un anno mai definitivo, che in questo caso è il 2007 dopo la nascita del Cristo.
 
Papa Benedetto XVI sorride sempre meno e solleva percettibilmente con più sforzo le braccia in segno di saluto, nella vacanza meditativa in Val Gardena, un papa colpito da due ictus, germanico, che conosce i segreti delle meditazioni che il popolo dei fedeli ignora.
 
Ostacolo me stesso. Mi isolo in una bolla: la chiamo: casa.
 
Mi terapeutizzo. Ignoro.
 
Al torchio del vino della mia infamia, sottaciuta, trattenuta ad altezza sterno, strepitano i figli della mia colpa: la figlia Rabbia, la figlia Indignazione, il figlio degenerato Amami, la coppia incontenibile dei gemelli Orgoglio & Riconoscimento.
 
{{NDR|Giuseppe Genna, ''Italia De Profundis'', minimum fax}}